KIERKEGAARD: GLI STADI DELL’ESISTENZA Gli stadi dell’esistenza: lo stadio estetico La dialettica degli stadi ovvero delle diverse opzioni di vita, è molto distante da quella hegeliana: aut aut, l’opera in cui si parla di questo argomento, implica proprio l’impossibilità di una mediazione. Tutti e tre, come vedremo, hanno a che fare con il rapporto tra finito e infinito, tra tempo ed eternità. Lo stadio estetico è così chiamato perché in esso dominano il desiderio erotico e l’interesse per la seduzione: nel singolo istante si cerca di fruire dell’eterno, nell’attimo finito l’esperienza della totalità. Don Giovanni e il seduttore Johannes sono le due principali figure che dominano la prima parte di Aut aut. Don Giovanni si incarna nella musica di Mozart: Kierkegaard non si interessa a lui come simbolo dell’avventuriero amoroso, ma gli interessa il suo essere ‘musicale’, perché solo la musica di Mozart sa darci l’essenza di questo tipo estetico, giacché solo ascoltandolo ci si immedesima nella sfrenata concupiscenza della passione, nel vortice della tentazione e della seduzione. Don Giovanni vive il desiderio assoluto di ciò che è singolo, ossia ognuna delle fanciulle che incontra, ma il suo desiderio non è quello di un singolo individuo, bensì il desiderio come principio. Infatti la fruizione dell’oggetto desiderato non soddisfa mai veramente colui che desidera: si consuma l’oggetto, ma non si gode mai veramente. E però, in questo desiderio perennemente incompiuto, Kierkegaard non vede ancora la presenza del peccato: lo stadio estetico è pura e semplice sensualità, senza pensiero e riflessione. L’estetico si trova ancora al di qua del bene e del male, non conoscendo il significato della colpa e della responsabilità: insomma, l’indifferenza estetica. In Don Giovanni manca la riflessione (“vederla ed amarla fu una cosa sola” – dice di ogni sua conquista) e il suo agire non prevede una strategia pianificata di seduzione: il suo amore sensuale non è ancora amore psichico o spirituale. La sua vita si compone quindi di tanti istanti in cui questo amore immediato in un istante accade e in uno si dissolve e deve dunque essere ripetuto all’infinito, che è la ripetizione infinita di istanti finiti, perché in ogni donna presume di incontrare l’universale, la femminilità che cerca, senza mai riuscirci pienamente. La conseguenza è che l’infinito non viene mai attinto e al suo posto subentra la noia e da questa l’angoscia. La vacuità della ripetizione infinita dei singoli istanti non porta al tutto e alla pienezza, ma al vuoto, alla morte. La seconda figura principale della sfera estetica è Johannes il seduttore, assai diverso dal Don Giovanni mozartiano: con lui si sviluppa ciò che prima risultava impossibile, cioè l’ingresso della riflessione nell’ambito estetico. Johannes è la figura del seduttore spirituale, contrapposta alla seduzione puramente sensuale: egli agisce per il gusto della conquista spirituale, ossia ad interessargli è l’anima della sua vittima. Per questo rifiuta l’amore vissuto secondo le consuetudini sociali, come il fidanzamento e il matrimonio. Per lui l’amore deve restare a livello di pura possibilità, perché qualora si realizzasse effettivamente non sarebbe più oggetto di seduzione. Anche lui cerca l’infinito, la totalità, ma ciò avviene non come somma di istanti reiterati in modo indefinito, ma sotto l’aspetto dell’intensità. Tuttavia egli resta prigioniero delle sue stesse costruzioni, frutto di un progetto consapevole e pianificato attentamente, in modo cinico e spietato. Egli non gode tanto della sua conquista (Cordelia), quanto di ciò che gli consente di pregustarla, dunque di se stesso e della sua capacità di pianificazione. In tal modo, però, riduce la realtà a pura possibilità. E’ proprio dello stadio estetico il tentativo di sottrarsi al fluire del tempo, il voler vivere l’eterno nell’attimo, senza riuscire però a giungere alla vera eternità. Il tempo si prende così la sua rivincita, specie nel banchetto finale: Johannes, nella parte dell’opera 1 intitolata In vino veritas, partecipa insieme ad altri convitati ad una sorta di simposio in cui ciascuno di loro dovrà tenere un discorso sull’amore. In questo banchetto deve trionfare la mera immediatezza, tipica dell’amore estetico: perciò i convitati, per poterla raggiungere sono costretti a bere copiosamente, condizione posta preliminarmente da Costantin Constantius: “parlare solo dopo aver bevuto tanto da sentire su di sé l’effetto del vino”. La sconfitta dei convitati e dei loro discorsi si vede dal fatto che al mattino essi sono sorpresi dalla luce del giorno e dalla squadra dei demolitori della casa di campagna, segno inequivocabile del trionfo della finitezza a cui avevano tentato di sottrarsi. Lo stadio etico Le rovine della casa sono simbolo dello scacco dell’esteta: la sua non è una vera scelta, prigioniero dell’immediatezza dell’attimo o della pura possibilità, come in Johannes. L’angoscia che lo travolge può condurre al superamento dell’estetico e al passaggio verso lo stadio etico: passaggio, si badi bene, che non è affatto automatico o hegelianamente necessario. Può avvenire in una stessa persona, ma molto più probabilmente riguarda un tipo di uomo molto diverso: il giudice Wilhelm è un marito e la sua figura contrassegna il passaggio dalla possibilità estetica alla realtà etica. Il presente incarnato da Wilhelm non è più quello atomizzato di istanti ripetuti, ma il presente stabile delle relazioni sociali, nelle quali predomina il dovere. All’attesa della conquista si sostituisce la solidità del matrimonio, la durata di un rapporto stabile. Una ripetizione consapevole e voluta. L’esteta di fatto non sceglieva, rimandando indefinitamente il momento della scelta: chi sceglie la prospettiva morale deve invece decidersi per uscire dall’indifferenza Il dovere (Kierkegaard pensa probabilmente a Kant) è responsabilità verso se stesso e verso gli altri porta l’uomo etico ad essere tranquillo e sicuro di sé, così come l’esteta era irrequieto e insicuro. Tuttavia vi è nella sua coscienza anche il presentimento di una colpa che si trasmette di padre in figlio. Quella del peccato originale, commessa verso Dio. Questa disposizione verso il male incrina la quiete finora raggiunta, è una sorta di tarlo angoscioso, che il buon marito cerca di eludere, senza riuscirvi: il senso oscuro della propria colpa e l’insufficienza della famiglia lo conduce al pentimento. Esso costituisce lo scacco finale della vita etica, dove l’uomo etico giunge a comprendere che abbandono a Dio e mondanità (qui rappresentata dalla famiglia e dalla dedizione che egli deve ad essa) sono inconciliabili. Solo pentendosi e riconoscendo l’abisso che lo separa da Dio, l’uomo trapassa dalla vita etica a quella religiosa. Si noti che nella concezione di Kierkegaard, se il passaggio dalla vita estetica a quella etica era netto, quello dallo stadio etico verso il religioso lo è ancora di più, segno del salto mortale a cui il singolo è costretto per giungere a Dio e che lo porta a rinnegare la sua stessa comunità di appartenenza. Lo stadio religioso Qui, prima della centrale figura di Abramo, troviamo un altro personaggio, di nome Quidam (in latino ‘un tale’). Egli, come Kierkegaard, ha lasciato la propria fidanzata, consapevole dell’impossibilità di perseguire una scelta puramente etica. Tuttavia, a differenza di quanto accadrà con Abramo, la scelta religiosa di Quidam è ancora solo ideale, interna cioè al solo pensiero: rifiuta la continuità matrimoniale, ma non giunge ancora all’autentica scelta cristiana. Quella di Abramo è invece una scelta reale, che non vuole semplicemente eliminare la contraddizione tra finito e infinito, tra uomo e peccato, ma vuole viverla autenticamente fino in fondo (da qui in poi, per la figura di Abramo vedi manuale, pag. 51). 2