“Para el maestro”: María Zambrano e Andrès Segovia

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International Journal of Contemporary Composition (IJCC)
ISSN 2304-4098
Vol., 1, 2012, pp. 01-07
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“Para el maestro”: María Zambrano e Andrés Segovia
Stefano Toffolo
stoffolo@gmail.com
“Perfino le parole nascono già intorbidite, e appena pronunciate si rivoltano contro se stesse.”
Maria Zambrano, Verso un sapere dell’anima
“Non si dovrebbe scrivere ’sulla musica’, ma ‘con’ la musica e musicalmente - restare complici del suo mistero?”
Vladimir Jankélévitch, Quelque part dans l’inachevé
La storia della filosofia è attraversata, fin dai suoi esordi, da un imprescindibile, strettissimo
rapporto con la musica. Dall’antichità greca e latina (Socrate, Platone, Aristotele, Plotino, Boezio,
Sant’Agostino ecc.), al Rinascimento e al Barocco (Giordano Bruno, Pico della Mirandola,
Cartesio, Leibniz), dal Classicismo al Romanticismo e al tardo romanticismo (Rousseau, Kant,
Schelling, Hegel, Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche), la riflessione filosofica si è sempre
interrogata sull’essenza della disciplina più incorporea che vi sia. A questa semplice constatazione
si può aggiungere che - se normalmente l’astrattezza della maggior parte dei più grandi pensatori
sembra essere sovente estranea alla pratica musicale concreta - non mancano pensatori che, con
notevoli conoscenze musicali, hanno sviluppato una riflessione di molto interesse attorno
all’esperienza dell’ascolto e/o della produzione musicale.
Nel Novecento, ad esempio, da Theodor Wiesegrund Adorno a Ernest Bloch, da Giselle
Brélet a Vladimir Jankélévitch, si può dire che non vi sia praticamente opera di questi autori in cui
non si possano ritrovare riferimenti o richiami più o meno approfonditi, più o meno estesi e
articolati, all’arte dei suoni. Intere opere sono state talvolta dedicate all’approfondimento del
significato storico-estetico di alcuni dei maggiori compositori dell’area austro-tedesca (Schoenberg,
Berg, Webern), di quella francese (Fauré, Debussy, Ravel) o russa (Skrjabin, Stravinskj,
Rachmaninoff).
Può capitare che, in un’opera che abbiamo acquistato per ampliare la nostra conoscenza del
pensiero di un autore, ci s’ imbatta in qualche cosa di inatteso, di imprevedibile. E, alla sorpresa, si
aggiunga anche la meraviglia per il modo insolito, assolutamente particolare con il quale il filosofo
ci espone il suo pensiero. Questa duplice emozione ci ha còlto nel corso della lettura di una delle
opere più originali di María Zambrano: emozione duplice perché, oltre alle acute riflessioni che
l’autrice offre sull’esperienza di ascolto di un evento musicale e alle parole impiegate per esporle,
scopriamo che il concerto del quale la pensatrice ci parla ha come protagonista un ben noto
maestro: Andrés Segovia.
Vorrei riportare per intero questo resoconto perché i lettori non perdano nulla del contributo
della grande filosofa spagnola. Prima di passare alla lettura di quelle brevi pagine, però, desidero
spendere qualche parola in merito alla figura di questa eminente scrittrice, il cui lavoro intellettuale
si è indirizzato a diverse tematiche, non solo strettamente filosofiche. Nonostante non possiamo
riscontrare una sistematica e mirata riflessione attorno all’esperienza musicale, tuttavia non
mancano – nelle sue opere – richiami significativi alla musica. Per limitarci a qualche esempio,
prima di addentrarci nella testimonianza oggetto di questo breve articolo, vorrei ricordare qualche
passaggio presente in alcuni suoi lavori e che riportiamo di seguito. In particolare, ci sembra
interessante quanto leggiamo in un testo come Delirio y destino. La pensatrice spagnola, sull’onda
del filosofo francese Henri Bergson, riflette sul tempo, considerato a “immagine e somiglianza dello
spazio”, si afferma convinta che nessuna differenza sussista tra filosofia e musica (come Socrate,
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nel ricordo di Platone!), poiché entrambe compiono una medesima operazione sul tempo, in quanto
è come “se lo riunificassero, quel tempo della coscienza superficiale, il tempo catena e condanna”,
introducendo un “sistema di numero e parola, per ottenere così che il tempo in successione,
attraverso il quale ci trasciniamo, divenga come un unico istante.1 Nel tratteggiare qualche ricordo
della cultura e della storia del suo paese, Zambrano rievoca il sorgere nelle province spagnole e nei
piccoli paesi di svariate riviste di poesia “di voci diverse, ma di una sola musica accordata: Litoral,
Melodía, Alfar, Parábola, Meseta, colombe messaggere di un’antica colombaia semimurata da
tempo. E poi le romanze per chitarra classica di Federico García Lorca, che tutti amavano”2. Nel
volume El ombre y lo divino, un’ampia riflessione sul Sacro,la filosofa spagnola non manca di
portare all’attenzione dei lettori qualche richiamo all’arte dei suoni. Dopo aver accennato
all’importanza della scoperta da parte dei pitagorici della musica e della matematica come arti del
numero, Zambrano aggiunge che la musica è anche arte del tempo3. La filosofa che vedeva in
Sant’Agostino il “padre dell’Europa”4, rilevava in un altro suo saggio5 che la creazione umana
“nasce da un fondo di integra solitudine, di sacra solitudine”. In una straordinaria opera,
Dell’aurora, analizzando la genesi della parola, del suo architettarsi, del suo dissolversi, vediamo
accostare tale esperienza alla musica: “L’accordo, il concerto che fa di questo di questo pianeta il
suo orbe, non si produce attraverso una costruzione della coscienza, di nessun tipo di coscienza, ma
esige la nascita, l’apertura di nuovi sensi, che forse già stanno penando per affiorare; sensi che
sembrano abitare – benché finora non sia stato constatato – in quel vuoto in cui si intrecciano suono
e silenzio. Luce e oscurità, per creare danzando corpi immateriali, eppure corpi. Sarebbe il cantico
di tutte le creature, anche di quelle che non sanno cantare, perché qualcun’altra canterà per loro, e
con loro danzerà, non nel fiume della realtà che fluisce e fugge, ma dell’orbita infinita dalla quale si
sprigionano musica, poesia, unità nell’unità; danza o inno, misterioso e inaudibile, di tutta la
creazione, qui e ora [...] Musica e poesia riscattano la continuità del sibilo e di tutti i linguaggi non
umani, sacrificati alla parola discontinua. E questo cantico delle creature che si innalza senza sosta
costituisce il terreno della parola, la quale sarebbe costretta, se solo minimamente lo avvertisse, e
convertisse in cielo che accoglie questo inno interminabile, obbedendo pienamente a ciò che la
sostiene: la musica, a questa musica dell’universo. La parola sarebbe così, in modo manifesto, e
anche con i suoi vuoti e le sue discontinuità, la generosità illimitata, immensa, e potrebbe essere
avvertita come il segno di una resurrezione, segno della Aurora, Aurora essa stessa.”6 La filosofa
che anteponeva la “ragione poetica” alla “ragione filosofica”7, era convinta – come Nietzsche – che
la molteplicità del reale non possa essere compresa e irrigidita in un sistema filosofico totalizzante
(e pertanto falso e violento), accogliendo così e superandola, l’intuizione del suo maestro Ortega y
Gasset8. In un passaggio evidentemente autobiografico, passaggio nel quale la scrittrice rifletteva
sul tema del tempo e la coscienza, affermava: “E fu così che recuperò la sua prima intuizione,
ovvero che tra Filosofia e Musica non c’è differenza; che entrambe fanno qualcosa di analogo con
tempo; bisognava forse raccoglierlo, quel tempo superficiale della coscienza, il tempo che incatena,
che condanna; introdurre un sistema di numeri o parole fa sì che il tempo successivo verso cui
arranchiamo sia come un sol istante”9. Anche se non ha dedicato la sua riflessione filosofica ad
alcun compositore specificatamente – come invece ha fatto per la pittura10 – tuttavia abbiamo
cercato di evidenziare brevemente questi passi di alcune sue opere dai quali si evince un interesse
non discontinuo per la musica. María Zambrano, come già Martin Heidegger, attribuiva alla poesia
un ruolo non secondario – contrariamente a Platone che disdegnava, all’opposto, le apparenze. Un
compito, quello del poeta, che riteneva per nulla inferiore, anzi, alla filosofia, sottolineando inoltre
che egli rimane vigile di fronte a ciò che il filosofo dimentica, mantenendosi “all’erta fino allo
struggimento di fronte ai mutamenti, ai tremendi e minimi mutamenti in cui le cose nascono,
periscono, si consumano.” Come in quel racconto nel quale si narra di un imperatore cinese che
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aveva ordinato “una dolce melodia per accompagnare lo sbocciare dei fiori”.11
Se la vita di María Zambrano (1904-1991) è stata lunga, provata dalla dura esperienza del
fascismo e dell’esilio (di tutto ciò, anche, ci ha lasciato testimonianza in alcuni suoi lavori)12, la sua
attività saggistica non lo è stata da meno. Ai lettori italiani è possibile accedere, attualmente, ad una
ventina di titoli, che sono solo una parte della sua intera e vastissima produzione nella lingua
spagnola13. Alcuni saggi hanno un’impronta storico-politica, oppure risultano parzialmente
autobiografici, altri ancora appaiono più puramente filosofici. Non mancano pagine di notevole
valore rivolte alla pittura, altre ancora alla letteratura14.
El concierto (Il concerto): con questa semplice espressione María Zambrano rifletteva sulla forte
impressione ricevuta in occasione di un recital del celebre chitarrista classico Andrés Segovia, per
ampliare poi lo sguardo ben oltre quello che, in altre mani (e in un’altra ‘testa’!) sarebbe diventato
un mero resoconto giornalistico o di critica musicale. Si tratta di un paio di pagine di un breve
paragrafo non numerato (collocato al settimo posto nel capitolo VI - dei nove complessivi - e
intitolato Parole) nelle quali non ci viene elencato il titolo dei brani eseguiti dal Maestro né, tanto
meno, vengono fatti riferimenti ad aspetti marginali (sala, pubblico, bis ecc.). NO! La filosofa si
‘muove’ da par suo in queste pagine raccolte in Claros del bosque15, titolo suggestivo che l’autrice
chiarisce nelle prime pagine dell’omonimo capitolo in apertura del volumetto16. L’autrice entra nel
vivo del suo discorso, pur breve: “Pittura e scultura non nascono dalla contemplazione, come
potremmo arrivare a credere nella maturità dei tempi in cui siamo nati; esse furono innanzitutto una
cosa: opere. E rispetto al poeta e al musicista “ispirato”, visitato dalle muse, il pittore e lo scultore
avranno sempre un volto e una figura di operaio: che è discorso eminentemente filosofico di chi
‘ama’ e ‘pensa’, aprendo una ‘porta’ ad una dimensione dell’ascolto che appare non lontana
all’estetica che dal Romanticismo giunge fino a Proust, cosicché la musica appare come riflesso (o
‘superficie’ riflettente) dell’Invisibile, dell’Ignoto. È, infatti, la figura dell’Angelo che si presenta
due volte nel testo: una prima volta con funzione di proteggere dal dolore, per mezzo della chitarra
e una seconda – nelle due ultime righe finali. Di nuovo, è dalla sofferenza che l’Angelo libera (lo
strumento del maestro libera!), ma anche – e più in generale – la realtà che i suoni possono
disvelare, strappando “le spine” per farsi egli stesso ascoltare, mentre scompare. Riportiamo qui di
seguito il brano della Zambrano sia nella lingua spagnola nella versione originale, sia nella
traduzione italiana, segnalando che i corsivi nella versione in italiano sono nostri e che intendono
evidenziare, in particolare, i passi maggiormente connessi con la chitarra, con quelle che la scrittrice
riteneva le sue particolari e suggestive qualità espressive.
El concierto
Para el maestro Andrés Segovia
Se oía, ¿se hubiera oído la guitarra si su sonar no abriuera desde el primer instante el modo
justo de escuchar? Era su primiera virtud indiscernibile de momento. Los preocupados de
pedagogía quizás hayan caído en la cuenta de que es la Música la que enseña sin palabra el justo
modo de escuchar. Y de que cuando de calabra sola se trata, sucede así igualmente, que es la
Música, que puede ser un modo de silenzio, la que sostiene la calabra en su medio y en su modo
justo, ni más baja – sempre preferibile un poco baja. Porque la música es, desde principio, lo que se
oye, lo que se ha de oír, y sin ella, la calabra sola, decae adensándose camino de hacerse pietra, o
asciende volatilizándose, defraudando. Gracias a la música, la calabra no defrauda; privada de ella,
aun siedo palabra de verdad, y mas si lo es, se desdice. La música es prenda de la no traición, no
existen en ella «las buenas intenciones», y un solo fallo en la voz que dice revela la falacia, o
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denuncia el incumplimiento de la verdad. La música cumple, se cumple, y escuchándola nos
cumplimos. Aquel que la trae, ¿ qué es, qui én es? Un ser remoto, una pura actualidad del sempre.
Y resulta impendable que alguna vez se vaya, que alguna vez no haya estado. Volverá.
Volverá sempre el que hace la música de este instante. Volierá esa música que se aproxima
más al origen, al principio, quando revela al par el instante de allora. Dura un instante toda ella.
Dura un instante toda la música. Un instante de eternidad, como el morir, como el nacer, como el
amar.
Más por ser de guitarra la música; mas ¿qué era en verdad ese latir solitario, esa onda del ser y
de la vida? ¿ No será, acaso, el in strumento musical sin más, entero y solo, único?
Instrumento único de la música toda. Una sola nota podría bastarle. Inconfundible. Unía los
contrarios, el ser y no-ser del sentimento mismo. Era lamento y no lo era. Celebracíon sin rastro de
trionfo. ¿Une la música los contrarios, o esta alentando antes de que los haya? ¿O es su
cumplimiento una pura acción de devolvernos en ese su instante al origine del tempo, ahora cuando
él tanto camino ha hecho, ahora como entonces, después de tanto? Y así darnos la ley del recto
sentir, librándonos de la nostalgia que los facilones del vivir creen que sea el don de la música, y
sobre todo su voluptuosidad. Dolor puede haberlo, y más en la guitarra, que tal vez sea entre todos
los instrumentos el elegido por el dolor. Mas el dolor no pide ser establecido, condensado; el dolor
pide acbar dándose sin ser notado, tras de haber germinado germinante, como enjambre
innumerable de hormigas. El dolor que en la guitarra esquiva el sufrimiento bajo el Ángel que
menudamente adusta el sentimento y lo orienta paso a paso hacia inacabable, arriba. Guarda la
música el secreto de la justeza del sentir, las cifras del cálculo infinitesimal del padecer. Lo que
alcanza, al menos entre los instrumentos occidentales, su máximo cumplimiento en la guitarra, tan
entrañable, que suena desde adentro en la gruta del corazón del mundo. Y por ello, los que resbalan
por andar con prisas hacen de ella la plañidera, y la desgarrada aquellos que la aprovechan. Y ella
les dice: «Dejadme sola», sin que lo entiendan. Pues que es cosa también de que ella se haya dado
sola a alguien que, sin prisa, vaja toda su vida, casi sin tocarla, rozándola apenas. Desgranando su
secreto según numero, ese que se seconde más cuando más se revela. La noche del padecer
entonces se aclara, el enjambre del sufrimiento se unifica. El sonido es uno solo. El Ángel ha
arrachado las espinas y se da a sentir él mismo borrándose.
Il concerto
Per il maestro Andrés Segovia
Si udiva, si sarebbe udita la chitarra se il suo suono non schiudesse sin dal primo istante il
modo giusto di ascoltare? Era la sua prima virtù indiscernibile sul momento. Chissà se i cultori di
pedagogia si sono mai resi conto che è la Musica a insegnare senza parole il modo giusto di
ascoltare. E che quando solo della parola si tratta, succede lo stesso, che è la musica, che può essere
una forma di silenzio, a sostenere la parola nel suo elemento e nel suo modo giusto. Né più alta né
più bassa – preferibilmente sempre un po’ bassa. Perché la musica è, a partire da un momento
iniziale, ciò che si ode, ciò che si deve udire, e senza di essa la parola sola cade in basso,
condensandosi sulla via di farsi pietra, o si innalza volatizzandosi, tradendo le attese. Grazie alla
musica la parola non delude le attese; privata di essa, sconfessa se stessa, e tanto più quanto più è
vera. La musica è garanzia dell’assenza di tradimento, non conosce “le buone intenzioni”, e un suo
solo venir meno nella voce che dice svela l’inganno, o denuncia l’inadempimento della verità. La
musica adempie, si adempie, e noi ci adempiamo ascoltandola. Colui che la reca – che è, chi è? E
appare impensabile che qualche volta se ne vada, che qualche volta non ci sia stato. Tornerà.
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Tornerà, sempre colui che fa la musica di quest’istante. Tornerà questa musica che si
approssima di più all’origine, al principio, quando rivela insieme l’istante presente. Dura un istante
tutta. Dura un istante tutta la musica. Un istante di eternità, come il morire, come il nascere, come
l’amare.
Tanto più se la musica è di chitarra; ma che cos’è che era veramente quel palpitare solitario,
quell’onda dell’essere e della vita? Non sarà essa, per caso, lo strumento musicale allo stato puro,
intero e solo, unico?
Strumento unico della musica tutta. Una sola nota potrebbe bastargli. Inconfondibile. Univa i
contrari, l’essere e il non essere del sentimento stesso. Era lamento e non lo era. Celebrazione
senzatraccia di trionfo. Unisce la musica i contrari, o è già lì che respira prima che compaiano? O
consiste il suo adempimento nel puro atto di ricondurci in quel suo istante all’origine del tempo, ora
che esso ha fatto tanta strada, ora come allora, dopo tanto? E di darci così la legge del giusto sentire,
liberandoci da quella nostalgia che i faciloni del vivere ritengono che sia il dono della musica, e
soprattutto della sua voluttuosità. Dolore, sì, può essercene, e più che mai nella chitarra, che chissà
non sia di tutti gli strumenti quello da esso prediletto. Il dolore chiede di finire col darsi senza
essere notato, dopo aver rampollato pullulando, come uno sterminato nugolo di formiche. Il dolore
che nella chitarra schiva la sofferenza protetto dall’Angelo che accorda minuziosamente il
sentimento e che lo orienta passo passo verso ciò che non ha fine, in alto. Custodisce la musica il
segreto della giustezza del sentire, le cifre del calcolo infinitesimale del soffrire. E questo si realizza
al massimo grado, almeno tra gli strumenti occidentali, nella chitarra, così intima, che suona dal di
dentro, dall’antro del cuore del mondo. È per questo che quelli suonandola incespicano per la fretta
la fanno piangere, mentre quelli trarne profitto la straziano. Ed essa dice loro: “lasciatemi sola”,
senza che lo capiscano. Perché è anche un fatto che essa si sia concessa tutta sola a qualcuno il
quale, senza fretta e quasi senza toccarla, sfiorandola appena, per tutta la vita vada sgranando sul
filo di una certa cadenza il suo segreto, quello che tanto più si occulta quanto più si rivela. La notte
del patimento allora si rischiara, lo sciame della sofferenza si aduna. Il suono è uno solo. L’Angelo
ha strappato via le spine ed è lui stesso a farsi sentire nel mentre che svanisce. [corsivo nostro]
Questa consolante e sfuggente figura biblica, questo Angelo che strappa le spine, che si fa
udire e poi scompare, e che viene portato davanti al nostro pensiero in modo così bello, ricorda un
po’ quello evocato da Marcel Proust nella Recherche17: l’Angelo Scarlatto del mattino, l’Angelo
della musica che, grazie all’annuncio della bellezza dell’arte, ci promette l’esistenza di qualche altra
cosa oltre il nulla in cui sembriamo immersi.
Anche una semplice guitarra, nelle mani di un grande maestro come Andrés Segovia, di un
vero artista che ne sappia sgranare abilmente le note per rivelarci la sua anima più profonda (anima
che la sensibilità e l’immaginazione filosofica di María Zambrano accostava a quella stessa del
mistero della vita e dell’origine del Tempo), può risvegliare quel fondo misterioso che avvicina
l’esperienza musicale a quella dell’origine, all’esperienza del Sacro.
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María Zambrano a Venezia, data sconosciuta
Andrés Segovia in concerto, data non precisata
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Note
1 M. Zambrano, Delirio e destino, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 117.
2 Ibidem, p. 61.
3 Cfr. M. Zambrano, L’uomo e il divino, Roma, Edizioni Lavoro, 2001. Cito dall’edizione del 2009, pp. 74-75.
4 Cfr. M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, Venezia, Marsilio, 2009, p. 57.
5 M. Zambrano, Isola di Porto Rico (nostalgia e speranza di un mondo migliore), Caserta, Edizioni Saletta dell’Uva,
2009, p. 37.
6 M. Zambrano, Dell’Aurora, Genova, Marietti, 2000, pp. 103-104.
7 Ibidem, p 46: “Alla filosofia è stato affidato, richiesto, il non corporeo né corporizzabile della parola [...] Alla poesia,
più incline, tanto in qualche modo da profetizzarla, all’incarnazione, toccò darci il corpo della parola.”
8 Vedi l’Introduzione di A. Savignano a M. Zambrano, Luoghi della poesia, Milano, Bompiani, 2011, pp. 7-61, per una
più ampia valutazione di questo e altri aspetti del pensiero della filosofa spagnola.
9 M. Zambrano, Sentimenti per un’autobiografia. Nascita, amore, pieta, a cura di S. Maruzzella, MilanoUdine,Mimesis Edizioni, 2012, p. 39.
10 Nel suo I luoghi della pittura, Milano, Edizioni Medusa, 2002, la Zambrano ripercorre diversi aspetti e figure della
tradizione europea: dai maestri spagnoli (Zurbarán, Goya, Velasquez e Fortuny, Picasso, Míro), agli italiani (Giorgione,
Giorgio De Chirico), al maestro di Flemalle. Anche in questo suo lavoro troviamo un richiamo alla musica.
11 M. Zambrano, Filosofia e poesia, Bologna, Pendragon, 2002, p. 57.
12 “L’esilio è il luogo privilegiato per lo scoprirsi della Patria, perché essa stessa si copra quando l’esiliato ha ormai
smesso di cercarla”: cfr. M. Zambrano, I beati, Milano, SE, 2010, p. 40.
13 La bibliografia in spagnolo e l’elenco delle opere tradotte in italiano si possono leggere alle pp. 173-175 di Chiari
del bosco, titolo originale del lavoro che la Fondacíon María Zambrano aveva pubblicato nel 1977, apparso in un primo
tempo da Feltrinelli nel 1991. Ora disponibile anche nella traduzione italiana di C. Ferrucci, Chiari del bosco, Milano,
Paravia Bruno Mondadori Editore, 2004 alla quale ho fatto riferimento per i riferimenti in questo articolo. Per le pagine
della versione originale in spagnolo ho utilizzato: M. Zambrano, Claros del bosque, Madrid, Ediciones Cátedra, 2011,
Edición de Mercedes Gómez Blesa, pp. 209-211. Nella nota 29 a piè di pagina (cfr. p. 209) dell’edizione in lingua
spagnola, viene riportata una nota informativa di 16 righe nella quale si dà notizia della figura del celebre chitarrista
andaluso: notizia che invece manca del tutto nell’edizione italiana.
14 Qualche titolo: Spagna: pensiero, poesia e una citta, Firenze, Vallecchi, 1964; Filosofia e poesia, a cura di P. De
Luca, trad. it. di L. Sessa, Bologna, Pendragon, 1996; Isola di Porto Rico. Nostalgia e speranza di un mondo migliore,
Milano, trad. di A. Bonesini, Catalogo Bruno Mondadori, 2011; La confessione come genere letterario, Introduzione di
C. Ferrucci, trad. di E. Nobili, Milano, Bruno Mondadori, 1997; Seneca, a c. di C. Marseguerra, trad. dal latino di A.
Tonelli, trad. di C. Marseguerra, Milano, Bruno Mondadori, 1998; L’agonia dell’Europa, a c. di C. Razza, Venezia,
Marsilio, 1999; Verso un sapere dell’anima, a c. di R. Prezzo, trad. di E. Nobili, Milano, Raffaello Cortina Editore,
1996; L’uomo e il divino, Roma, Edizioni Lavoro, 2002; Persona e democrazia, trad. di C. Marseguerra, Milano, Bruno
Mondadori, 2000; Il sogno creatore, a c. di C. Marseguerra, trad. di V. Martinetto, Milano, Bruno Mondadori, 2002;
Dell’Aurora, trad. di E. Laurenzi, Genova, Marietti, 2000; Note di un metodo, Napoli, Filema, 2003; Delirio e destino,
Introduzione di R. Prezzo, e J. M. Sanz, trad. di R. Prezzo e S. Marcelli, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000;
Luoghi della pittura, a cura di R. Prezzo, Milano, Medusa, 2002; I beati, trad. e postfazione di C. Ferrucci, Milano,
Feltrinelli, 1992; I sogni e il tempo, Bologna, Pendragon, 2004; All’ombra del Dio sconosciuto. Antigone, Eloisa,
Diotima, a c. di E. Laurenzi, Milano, Pratiche Editrice, 1997. L’elenco della “Bibliografia delle opere di Maria
Zambrano e della letteratura secondaria” si trova in Appendice a M. Zambrano, Luoghi della poesia cit., pp. 633-720.
15 Chiari del bosco cit., pp. 101-103.
16 Ibidem, pp. 11-19: “Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite e
la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a compiere tale passo. È un altro regno che un’anima abita e
custodisce. Qualche uccello richiama l’attenzione, invitando ad avanzare fin dove indica la sua voce. E le si dà ascolto.
Poi non si incontra nulla, nulla che non sia un luogo intatto che sembra essersi aperto solo in quell’istante e che mai più
si darà così. Non bisogna cercarlo. Non bisogna cercare. È la lezione immediata dei chiari del bosco: non bisogna
andare a cercarli, e nemmeno a cercare nulla da loro. [...] ”.
17 M. Proust, A la recherche do temps perdu, Paris, Gallimard, 7 voll., 1985 (vedi, in particolare, La Prisonnière, pp.
314-315). Per una valutazione di questo ‘motivo’, cfr. S. Toffolo, L’Angelo scarlatto del Mattino. Il mistico e la musica
in Marcel Proust, Negarine di S. Pietro in Cariano (Verona), Il Segno dei Gabrielli editori, 1997.
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