Subido por osmar.mendoza090201

Le meraviglie del mondo antico by Valerio Massimo Manfredi (z-lib.org)

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Il libro
La Grande Piramide di Cheope a Giza, immensa dimora di riposo
eterno per il faraone e monumento di tale titanica complessione da
sfidare sotto certi aspetti l’umana comprensione: la più antica fra
le Sette Meraviglie e l’unica che sopravvive ancora oggi. I Giardini
Pensili sospesi sul paesaggio di Babilonia, costruiti da un grande
monarca per la sposa che aveva nostalgia delle sue montagne
boscose: la più evanescente delle Sette Meraviglie, quella più
fantasmatica, invano cercata e inseguita da archeologi e poeti, da
epigrafisti e indagatori delle antiche fonti.
E poi l’Artemision di Efeso, gigantesco tempio dedicato al culto
della dea Artemide, voluto dal munifico re di Lidia Creso. Il
Colosso di Rodi, l’enorme statua di bronzo che sorgeva su una
piccola isola in mezzo al mare. E ancora, il Mausoleo di
Alicarnasso, la monumentale tomba dove riposava il satrapo
Mausolo, nell’attuale Bodrum, in Turchia. Il Faro di Alessandria in
Egitto, che una volta indicava la via alle mille imbarcazioni che si
avvicinavano a quel porto favoloso. E la statua di Zeus a Olimpia,
grandiosa creazione del mitico scultore Fidia.
Sono queste le Sette Meraviglie del mondo antico. Già indicate
come tali diversi secoli prima della nascita di Cristo, furono
contemporaneamente visibili solo nel periodo fra il 300 e il 227 a.
C.; successivamente andarono a una a una distrutte per cause
diverse, salvo appunto l’inattaccabile Piramide di Cheope, scalfita
soltanto dalle mani distruttrici degli uomini.
Al canone classico Valerio Massimo Manfredi aggiunge la
favolosa ipotesi di un’ottava meraviglia, regalandoci il racconto di
come sia sorto e di che cosa abbia rappresentato il mausoleo di
Commagene, la tomba-santuario del re Antioco, che utilizza come
base una montagna intera, alta 2150 metri, nuda, aspra e solitaria:
il Nemrut Dagi, nell’Anatolia orientale, vicino al confine con la
Siria, la montagna dove secondo il mito Nemrot, il re della torre di
Babele, andava a caccia.
Lungo pagine avvincenti, dense di racconti favolosi, Valerio
Massimo Manfredi si confronta con le massime realizzazioni
dell’umanità, e le riporta in vita per noi nel modo più grandioso,
2
raccontandoci i miti e le storie che accompagnarono questi
monumenti destinati a entrare nella leggenda. E con il corredo di
immagini preziose, la sua epica compie un esperimento strepitoso:
restituisce ai nostri occhi, regalandoci l’emozione di visitarle, opere
di straordinaria complessità e arditezza, meraviglie mitiche e
perdute per sempre nella notte del tempo.
3
L’autore
Valerio Massimo Manfredi è un archeologo
specializzato in topografia antica. Ha insegnato
in prestigiosi atenei in Italia e all’estero e
condotto spedizioni e scavi in vari siti del
Mediterraneo pubblicando in sede accademica
numerosi articoli e saggi. Come autore di
narrativa ha pubblicato con Mondadori i
romanzi: Palladion, Lo scudo di Talos, L’Oracolo,
Le paludi di Hesperia, La torre della Solitudine, Il
faraone delle sabbie (premio librai città di Padova), la trilogia
Alèxandros pubblicata in trentanove lingue in tutto il mondo,
Chimaira, L’ultima legione da cui è tratto il film prodotto da Dino
De Laurentiis, L’Impero dei draghi, Il tiranno (premio Corrado
Alvaro, premio Vittorini), L’armata perduta (premio Bancarella), Idi
di marzo (premio Scanno), Otel Bruni e i due volumi de Il mio nome
è Nessuno. Inoltre tre raccolte di racconti e due saggi. Conduce
programmi culturali televisivi in Italia e all’estero, collabora al
“Messaggero” e a “Panorama”.
4
Valerio Massimo Manfredi
5
Le meraviglie del mondo antico
A Paola e Valter Mainetti
amici carissimi che condividono con me
la passione per un mondo scomparso
6
Pochi uomini hanno braccia così lunghe da poterne abbracciare il
pollice.
PLINIO, Naturalis Historia, XXXIV, 41
7
Le sette meraviglie
Sono le opere più straordinarie e impressionanti del mondo antico,
l’orgoglio di tutte le grandi civiltà: giardini sospesi sul paesaggio di
Babilonia, costruiti da un grande monarca per la sposa che aveva
nostalgia delle sue montagne boscose nell’Elam; una piramide di
calcare con il nocciolo di granito, splendente come un diamante sotto
il sole dell’Egitto, iperbolica tomba per un uomo solo; una statua di
bronzo alta 32 metri, sfida di un discepolo al suo inarrivabile maestro;
un dio con la carne d’avorio e le vesti d’oro, assiso in trono dentro il
suo tempio, così enorme che se si fosse alzato in piedi avrebbe
sfondato il tetto; una torre di luce al centro di un’isola, capace di
lanciare un raggio a quasi 50 chilometri nel mare notturno per
segnalare il porto sicuro ai naviganti dispersi. E ancora un’altra
tomba, spettacolare sepolcro colonnato di un piccolo sovrano
pretenzioso, il tempio più grande mai costruito, eretto per la madre di
tutte le madri.
Di tutte queste meraviglie rimane solo quella più antica,
inattaccabile, soltanto scalfita dalla mania distruttiva degli uomini: la
Grande Piramide.
Questo elenco nacque dalla consapevolezza di un mondo ideale,
che esisteva per la prima volta, che non sarebbe esistito mai più.
Queste opere, vera e propria sfida all’impossibile, coprono un arco
cronologico di oltre venticinque secoli. Una sola sopravvive, la
Grande Piramide di Giza, e il fatto che esista ancora significa che solo
un dio, o un uomo creduto un dio, ebbe l’autorità e il potere di
adunare un popolo intero a lavorare per decenni all’impresa.
Non ha ornamenti, non colonnati, fregi, trabeazioni: solo la sua
nuda geometria le ha consentito di durare per quarantacinque secoli.
Tutte le altre sono andate distrutte in varie epoche e per cause
diverse. Cinque di esse sono edifici, due sono statue monumentali di
dimensioni eccezionali, descritte dalle fonti antiche con parole di
attonito stupore.
8
Molte altre di queste audaci costruzioni furono solo ideate e mai
nemmeno incominciate. Si dice che un architetto di nome Dinocrate,
mezzo nudo, con la pelle di leone e la clava come Ercole, si sia
presentato ad Alessandro, che voleva progettare la prima città con il
suo nome sul braccio occidentale del delta del Nilo, proponendogli
un progetto iperbolico, una realizzazione che avrebbe dovuto
paralizzare di stupore chiunque l’avesse veduta. Si trattava di scolpire
nella rupe del monte Athos l’immagine di Alessandro in trono in atto
di libare. In una mano avrebbe tenuto la tazza alimentata da un fiume
deviato, nell’altra mano l’intera città.
Viene da chiedersi come avrebbe mai potuto funzionare un simile
insediamento, come i suoi abitanti avrebbero mai potuto uscire e
rientrare, approvvigionarsi di cibo, vendere e acquistare. Ma chissà
che Dinocrate non avesse già delle idee al riguardo: forse la cascata
avrebbe mosso una ruota a pale che a sua volta, con pulegge e altre
ruote, avrebbe potuto azionare dei montacarichi. Non lo sapremo
mai. Ma quello fu un tempo in cui tutto pareva possibile.
Alessandro scartò quell’idea che gli sembrò bislacca; stese la sua
clamide macedone per terra vicino alla sponda del Mediterraneo e
disse: «Ecco, fammi una città così, disposta in questo modo attorno al
golfo». Quello schema a forma di mantello divenne la più grande
metropoli del Mediterraneo per oltre quattro secoli. Si costruì un
molo lungo più di un chilometro che collegava la terraferma all’isola
di Faro e sull’isola sarebbe sorta una torre di segnalazione alta 120
metri che lanciava un raggio di luce a quasi 50 chilometri di distanza:
una delle Sette Meraviglie.
Sul promontorio di fronte, il Lochias, all’interno del palazzo reale,
sarebbe stata costruita la più grande biblioteca del mondo. Poco
lontano, sotto un grande tumulo di terra, ci sarebbe stata la camera
sepolcrale di Alessandro, il suo sarcofago d’oro massiccio.
Quelle idee straordinarie, quelle immagini iperboliche, Dinocrate le
aveva avute perché viveva in Egitto e la sua fantasia di greco era stata
incendiata dalle immani costruzioni della valle del Nilo. Forse aveva
visto i colossi di Abu Simbel o il Ramses del Ramesseum che
dovevano averlo affascinato ancora più delle piramidi: esseri
giganteschi dal sorriso immortale e immutabile, così grandi perché il
popolo fosse certo di essere governato da dèi. Forse lo stesso
Alessandro, piccolo di statura, dovette essere ispirato da
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quell’ideologia del gigantismo quando nella lontana India, muovendo
il campo, lasciava dietro di sé armature enormi, spade e lance fuori
scala, come per far credere a un’armata di smisurati, invincibili
guerrieri.
Pur scartando la proposta di Dinocrate, Alessandro dovette
rendersi conto che quell’uomo era un visionario, che il colosso che
teneva nella mano destra una città e nella sinistra la sorgente di un
fiume era un’immagine straordinaria e stupefacente, e per questo
meritava comunque di costruire Alessandria.
L’elenco più conosciuto, una specie di vulgata delle Sette
Meraviglie del mondo antico, è attribuito a Filone di Bisanzio, uno
scienziato vissuto a cavallo fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Ma
sembra che, sulla base di elementi stilistici e filologici del testo, il suo
trattatello sia stato steso nel V secolo d.C.
Ma è possibile allora datare la stesura dell’elenco classico delle
Sette Meraviglie? L’unico modo è forse di calcolare il lasso di tempo in
cui esistettero tutte e sette in contemporanea. È stato osservato che
quel periodo va dal 300 circa al 227 a.C., anno in cui un terremoto
abbatté il Colosso di Rodi a soli sessantasei anni dalla sua erezione a
opera di Carete. La tradizione vuole che il grande architetto-scultore
si fosse accorto di aver commesso nella costruzione un errore
irrimediabile che prima o poi ne avrebbe provocato il crollo e che si
sia suicidato per il dolore. In realtà il Colosso, benché crollato,
continuò a esistere ancora per otto secoli, ad attirare migliaia di
visitatori da ogni parte del Mediterraneo e a suscitare stupore.
Ma perché le meraviglie e perché sette? Non avrebbero potuto
essere cinque o dieci o dodici?
Ovviamente sì e di certo si tratta di un elenco arbitrario: nel
periodo ellenistico e anche durante la decadenza dell’Impero romano
furono in auge opere letterarie che narravano non solo grandi
monumenti ma anche prodigi, fenomeni inspiegabili. In questi eventi
straordinari la gente trovava distrazione dalle preoccupazioni
quotidiane, dalla consapevolezza di aver perso, con il tramonto della
polis, le libertà politiche e la possibilità di influire sul proprio destino e
sul proprio futuro.
Quell’elenco era la conta di quanto di più grande e mirabile le
civiltà antiche avevano lasciato in eredità. Si trattava di valori ed
estetiche incomparabili fra loro, difformi e disparate, che venivano
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costrette in una lista fortunata, opera di chissà chi, e che ancora oggi
ci emoziona.
Molte volte si è discusso di quale potrebbe essere l’Ottava
Meraviglia o di quali potrebbero essere le Sette Meraviglie del mondo
moderno. I piccoli emirati del petrolio innalzano dalle sabbie del
deserto grattacieli al cui confronto la Grande Piramide sembra una
modesta protuberanza. Oggi non si tratta più di scolpire o innalzare
colossi dalle sembianze umane, ma di vincere la gara fra grattacieli
che ormai si avvicinano al chilometro di altezza: un traguardo che le
civiltà del passato poterono solo sognare con il mito della torre di
Babele che perforava le nuvole con la vetta. Inoltre, mentre le nostre
più audaci realizzazioni partono dalle dimensioni minori del passato
per giungere alle più importanti nel presente, nel mondo antico fu il
contrario. La maggiore e la prima delle meraviglie, la Grande
Piramide, non fu mai più uguagliata. Bisogna arrivare addirittura alla
fine dell’Ottocento per avere nella Mole Antonelliana un edificio in
muratura più alto della Grande Piramide. La sommità della cupola di
San Pietro in Vaticano arriva a 133,30 metri, circa 14 metri meno della
supposta altezza della Piramide.
Le componenti di tipo artistico, tecnologico, politico,
propagandistico, economico indispensabili per arrivare all’erezione di
monumenti così imponenti sono molte e complesse, e non sempre
presenti tutte assieme, quindi stilare classifiche non ha molto senso.
Ciò che portò all’elenco settemplice delle meraviglie antiche fu
sostanzialmente un’emozione, la stessa che aveva portato alla loro
costruzione: l’entusiasmo e l’orgoglio di una grandissima
realizzazione, la sfida all’impossibile.
La nostra civiltà moderna è molto più disincantata, da un certo
punto di vista, ma anche più competitiva, e la corsa all’iperbolico, il
continuo rincorrere il record (concetto ignoto al mondo antico), non
dà mai tregua. Eppure, studi recenti e basati su calcoli affidabili
hanno stabilito che, qualora l’umanità si estinguesse, in
cinquantamila anni non rimarrebbe più alcuna traccia visibile della
nostra civiltà. Il che significa che anche la forza che ha sollevato le
montagne dell’Himalaya, della Patagonia e i vulcani della cintura di
fuoco, scavato le valli, i mari, gli oceani, plasmato le infinite distese di
sabbia e i deserti di ghiaccio, e che a noi sembra veramente invincibile,
è destinata come le meraviglie create dall’uomo a soggiacere al tempo.
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Il giardino impossibile
È la prima delle Sette Meraviglie nell’elenco di Filone di Bisanzio, la
più evanescente, la più fantasmatica, invano cercata e inseguita da
archeologi e poeti, da epigrafisti e indagatori delle antiche fonti: i
Giardini Pensili di Babilonia.
Eppure il giardino, l’Eden, il pairidaeza, l’hortus è una immagine
potente, evocativa, profondamente radicata in tutte le civiltà del
Mediterraneo. Il concetto è quasi assente, per ovvi motivi, presso le
culture nomadi dell’Asia centrale, mentre in estremo Oriente,
specialmente in Giappone, ha una profondità quasi filosofica.
Indica un luogo intensamente artificiale che dà all’uomo l’illusione
di diventare creatore di un mondo ideale, compiuto, dove tutto è
perfetto e concluso, dove l’equilibrio delle specie vegetali, dei suoi
abitatori animali, dei colori e delle infinite tonalità di verde comunica
una sorta di musica cromatica e di armonia di forme e di profumi che
ci fa pensare di essere più capaci e potenti della natura stessa.
Il giardino è un’estensione della nostra capacità di immaginare,
dove la crescita e il fiorire di ogni pianta ci dà un piacere di
un’intensità unica, a volte quasi estatico. Il combinarsi dei profumi,
l’odore della terra bagnata, il rigoglio indotto da irrigazioni frequenti,
fertilizzazioni ed esperimenti di ibridazione creano l’illusione dello
spontaneo e la certezza dell’opera d’arte al cui cospetto proviamo
un’emozione continua, che tuttavia muta ogni giorno con il mutare
della luce e della stagione, con il cadere della pioggia o con
l’addensarsi delle tenebre.
Sia in persiano che in greco, ebraico e latino il termine significa
“luogo recintato”. Anche l’Eden biblico è in qualche modo recintato,
perché ha dei cancelli a guardia dei quali viene posto un angelo con la
spada fiammeggiante dopo la cacciata dei progenitori. In ogni caso il
giardino è il mito di origine dell’intera umanità ed è alla base delle
maggiori religioni monoteiste.
La necessità del giardino aumenta con l’aumentare della luce e del
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calore nell’ambiente in cui si vive fino a diventare spasmodica nelle
località aride e deserte, arroventate da un sole impietoso.
Forse l’Eden fu concepito nelle meditazioni oniriche di solitari
profeti frequentatori delle pietraie infuocate del deserto o forse fu la
memoria remota di una terra meravigliosa, di un luogo incantato che
prese vita fra la fine dell’ultima glaciazione e l’assestarsi dei sistemi
vegetativi e zoologici nelle aree del vicino Oriente e dell’Africa centrosettentrionale.
Di quel perduto paradiso terrestre ci conservano memoria i parchi
artificiali come i pairidaeza persiani, che si collocano invece in età
storica, anche se la loro origine viene fatta risalire a tempi remotissimi.
Quel periodo storico corrisponde al passaggio di popoli iranici come
Medi e Persiani dalla vita nomade a quella sedentaria. A Pasargade,
dove sorge la tomba di Ciro il grande, sono stati rinvenuti sistemi di
irrigazione probabilmente destinati ad alimentare uno di quei
meravigliosi giardini. Senofonte (Anab., I, 7) descrive il parco di Ciro il
giovane nei pressi di Colosse, riserva di caccia con animali selvaggi,
attraversata dal Meandro, dove il principe si distrae, si allena e prova i
suoi cavalli. 1
Un altro esempio di parco come luogo ideale dello spirito e del
corpo doveva essere quello della Domus Aurea di Nerone (Plinio, NH,
XXXVI, 111), con paesaggi arcadici, laghetti, piccoli borghi e
porticcioli sull’acqua. Sui colli artificiali, movimenti e profili mutevoli
di superfici boscate abitate da animali esotici come pavoni e fagiani.
Ce ne possiamo fare un’idea soltanto da qualche pittura superstite e
da analoghi paesaggi dipinti sui muri delle ville pompeiane ed
ercolanensi.
Continuando a seguire il filo dei giardini della meraviglia come
forma di kosmos, di armonia creata e goduta con lo sguardo e con tutti
i sensi, la Villa Adriana di Tivoli dovette essere una sorta di akmé di
quel tipo di estetica. L’imperatore aveva voluto concentrarvi i suoi
luoghi dell’anima, le vedute che lo avevano commosso ed esaltato
durante i suoi viaggi attraverso l’impero, sia opere della natura che
dell’uomo. E quindi lo stoà Pecile di Atene, adorno di riproduzioni
delle pitture di Zeusi e Parrasio che dovevano campeggiare non in un
paesaggio urbano ma in una distesa di verde smagliante, di macchie
di alloro e di mirto come un grande murale. E poi la valle di Tempe
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con le acque limpide che imitavano il fiume Peneo, ricavata in un
avvallamento fra i calcari tiburtini a ricordo della leggenda di Orfeo ed
Euridice, di Apollo e Dafne. E ancora, il lago del Canopo con il suo
portico dove ogni arco incorniciava una statua che nel lago si
specchiava evocando Alessandria e il paesaggio nilotico che tanto
aveva affascinato l’imperatore Adriano.
Quando il mondo antico morì dopo una lunga e dolorosa agonia, si
interruppe quel filo che attraversava i millenni, dall’Eden e dalla
Mesopotamia dei Giardini Pensili ai giardini di Nerone e Adriano. Ma
in Oriente lo scontro fra l’impero romano-bizantino e gli Arabi si
trasformò anche in incontro e contaminazione, così che molto
dell’eredità antica si trasfuse nella cultura di quei popoli del deserto –
il cerchio si chiuse con Aristotele tradotto in arabo – e i meravigliosi
giardini di Nerone e Adriano ripresero vita a Damasco e Bagdad, con
le palme, i melograni e i sicomori, le rose e i gelsomini. Di là, quelle
forme meravigliose giunsero all’estremo Oriente e all’estremo
Occidente attraverso il Nordafrica fino nell’Iberia romanizzata.
C’è chi vede nei giardini dell’Alhambra di Granada e del Taj Mahal
in India due evoluzioni molto lontane nel tempo e nello spazio, ma
non molto dissimili, dell’antico pairidaeza persiano, da cui vengono il
greco paradeisos e il latino paradisus, con cui si indica il giardino
ancestrale dei progenitori dove la terra dava cibo senza chiedere
lavoro e sudore della fronte. 2 Un luogo meraviglioso che un giorno
sarebbe stato proibito per sempre ai discendenti di Adamo ed Eva.
Ma cosa fa dei Giardini Pensili babilonesi qualcosa di così unico e
speciale? Essi sono unici e diversi da tutti gli altri per il fatto che non
crescono sulla terra né vi affondano le radici, ma sono sospesi su un
piano sorretto da colonne o altre strutture di sostegno. Il piano è fatto
con tronchi di palma, dice Filone, autore della lista canonica delle
meraviglie, 3 perché non marciscono e permettono il drenaggio
dell’acqua dallo strato di terra sovrastante dove è stata fatta la
piantumazione e realizzato il manto erboso.
Il tutto è alimentato da sistemi che fanno salire l’acqua dal fiume
Eufrate e la distribuiscono attraverso l’impianto di irrigazione. Quello
che non si comprende bene è il motivo di un simile tipo di impianto,
visto che c’erano alternative più interessanti in una città che
conosceva molto bene le costruzioni a gradoni del tipo ziggurat e
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disponeva anche di grandi giacimenti di bitume con cui
impermeabilizzare le vasche di contenimento dei terreni coltivati.
La descrizione di Filone è piuttosto accurata e non priva di senso
da un punto di vista agronomico, e farebbe pensare a fonti storiche
vicine al periodo in cui furono costruiti i Giardini Pensili, ma non è
facile da capire. Sembra più forte nell’autore l’intenzione di
evidenziare il paradosso di un’opera artificiale e quasi contro natura
che non di fornirci uno schema accessibile della struttura e delle
caratteristiche dell’impianto.
Flavio Giuseppe (Antichità, 224-26; Contro Apione, 138-41), che basa
la sua relazione sulle storie babilonesi di Beroso, un sacerdote del
sommo dio Marduk, li ritiene dell’epoca di Nebuchadrezzar, il famoso
re di Babilonia che visse dal 604 al 562 a.C., ma, come si è detto non si
è trovata menzione di quel manufatto nelle venticinquemila tavolette
degli archivi del re e nemmeno in altri importanti documenti come il
prisma dell’Oriental Institute di Chicago in cui si elencano le opere del
re assiro Sennacherib. D’altra parte Nebuchadrezzar, il re babilonese
cui è stata attribuita la realizzazione dei Giardini, è di gran lunga il
sovrano più famoso, tanto potente che anche il Dio d’Israele è dalla
sua parte. È lui a espugnare Gerusalemme nel 587 a.C., lui a
saccheggiare il tempio e a deportare buona parte del popolo ebraico a
Babilonia. È dunque facile attribuirgli opere grandiose come le mura
gigantesche, come il palazzo reale presso l’Eufrate e infine come i
Giardini Pensili.
Diodoro Siculo (II, 10, 1-6) fa la descrizione più coerente e logica
dei Giardini Pensili, che risultano costruiti su strutture terrazzate che
fanno pensare a uno ziggurat. 4 Le murature sono di mattoni cotti,
cioè di un materiale più pregiato e resistente dei mattoni di argilla
cruda, e che ha anche la qualità di essere parzialmente impermeabile.
Il giardino si suppone a base quadrata: quattro pletri, cioè 32 metri,
per ogni lato. Considerata la struttura “a teatro”, cioè a gradinata,
avremmo sostanzialmente uno ziggurat adattato a giardino pensile,
anche se questa ipotesi è dismessa dalla maggior parte degli studiosi.
Può anche essere che la descrizione di Diodoro si riferisca a una
struttura a U per cui i lati sarebbero tre, uno dei quali si
appoggerebbe alle mura babilonesi, apparentemente un modo
sensato di progettarlo ed eseguirlo. Le descrizioni che seguono sono
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meno comprensibili. Le gradinate che ospitavano i giardini avrebbero
poggiato su gallerie sottostanti di altezza progressiva fino a quelle
centrali, più alte di tutte per sorreggere la terrazza superiore del
complesso.
Non è facile spiegarsi una struttura di questo genere, che fa
pensare alle arcate che reggono la cavea dei teatri e degli anfiteatri
romani. La cosa più probabile è che il committente, chiunque sia
stato, abbia preferito questo tipo di struttura portante per un giardino
terrazzato rispetto a una costruzione piena come uno ziggurat, che
forse avrebbe richiesto molto più tempo e molto più materiale.
Bisogna anche considerare che per una struttura piena ci sarebbe
voluto un numero enorme di mattoni, che i mattoni avrebbero dovuto
essere cotti, e che per cuocerli sarebbe stata necessaria una gran
quantità di legname, che in Mesopotamia non esiste o è molto raro e
costoso perché deve essere importato. Significativi i bassorilievi fatti
realizzare da Nebuchadrezzar in una gola del Monte Libano a Wadi
Brisa, 5 dove si fa rappresentare da una parte mentre uccide un leone
e dall’altra mentre abbatte un cedro del Libano, cioè il più prezioso
legname del vicino Oriente, lo stesso che re Hiram di Tiro aveva
provveduto a Salomone di Israele per la costruzione del tempio sul
Monte Moriah. La citazione dell’epopea di Gilgamesh con il
compagno Enkidu al bosco dei cedri vigilato dal mostro Humbaba è
evidente e altrettanto lo è la identificazione di Nebuchadrezzar con
l’eroe di Uruk, quinto re dopo il diluvio. Si può perfino dire che, per
chi viene dalla soffocante bassura mesopotamica anche la foresta del
Libano, a suo modo, è un giardino pensile. 6
Per quanto riguarda il sistema di sollevamento dell’acqua Diodoro
parla genericamente di macchine (òrgana) che non sono però visibili
dall’esterno (Diod. II, 10, 6). La coclea, o vite senza fine, è invece
chiamata in causa da Strabone (XVI, 5) come mezzo di sollevamento e
attribuita ad Archimede che ne sarebbe stato l’inventore, tanto che è
chiamata anche “vite di Archimede”. 7 Fra gli studiosi moderni c’è chi
sostiene che senz’altro si sarebbe trattato di una coclea, l’unico
sistema di sollevamento dell’acqua che avrebbe potuto rimanere
celato, mentre una ruota idraulica si sarebbe vista. 8 In realtà non
sarebbe stato difficile incorporare una ruota idraulica nella struttura
facendo in modo che non si vedesse.
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Ancora oggi, se non sono state distrutte dalla guerra in corso, ci
sono nei pressi di Hama sull’Oronte in Siria delle ruote idrauliche per
il sollevamento dell’acqua in un punto in cui il fiume è fiancheggiato
da sponde naturali piuttosto alte. Si chiamano “norie” e si ritiene
comunemente che siano state in uso in Mesopotamia dalla fine del III
secolo a.C., dopo essere state introdotte dagli Arabi.
Il caso vuole che la più grande di esse misuri 20 metri di diametro,
la stessa altezza (50 cubiti) che Diodoro e Strabone attribuiscono alla
struttura a gradoni che ospitava i Giardini Pensili.
Il sistema della ruota idraulica è abbastanza semplice: la corrente
spinge contro le pale e la fa ruotare su un perno. Agganciati alla
cerchiatura esterna della ruota ci sono dei grandi secchi imperniati su
un attacco a cilindro che permette loro di oscillare liberamente a
seconda della direzione della gravità. 9 Saranno più o meno verticali
nelle fasi di calata e di sollevamento, obliqui in quelle di caricamento e
di scarico. I secchi prelevano l’acqua dal basso e la scaricano nella fase
discendente dentro una vasca o dentro una conduttura che alimenta
una rete di irrigazione. Nel caso dei Giardini Pensili avrebbero
caricato un vascone impermeabilizzato con lamine di piombo e asfalto
da cui si sarebbero dipartiti i canali di irrigazione che avrebbero
distribuito l’acqua per caduta.
Il fatto che l’opera più importante di Filone di Bisanzio sia il
Pneumatikà, che ha molto a che fare con le pompe idrauliche che
creano pressione e depressione, potrebbe indurre in errore facendoci
immaginare l’uso di pompe quattro-cinque secoli prima che fossero
state inventate e costruite dai meccanici e pneumatici alessandrini. 10
Tutto considerato, si potrebbe forse pensare che la ruota idraulica
fosse già nota in Mesopotamia anche prima degli Arabi e che dunque
i costruttori dei Giardini Pensili di Babilonia l’avessero impiegata per
caricare la vasca di distribuzione dell’impianto idraulico, anche se
l’ipotesi di un suo caricamento manuale da parte di un gran numero
di schiavi non può essere esclusa a priori. A favore, invece, di un
sistema a coclea milita il prisma fittile dell’Oriental Institute di
Chicago in cui il re assiro Sennacherib sembra vantare l’uso di una
vite senza fine dentro a un cilindro per sollevare l’acqua. 11
Quanto all’origine della realizzazione dei Giardini Pensili Diodoro
parla della concubina “di un re siro” che, avendo nostalgia delle
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montagne boscose della sua patria, avrebbe chiesto al re di
costruirgliene una artificialmente. La bella non avrebbe faticato a
ottenere un simile fastoso regalo. Anche questo un tema diffuso in
tutto l’Oriente: quello della bella che ottiene dal grande sovrano di cui
è amante che sia soddisfatto qualunque suo desiderio. Pensiamo a
Ester e Assuero, Salomè ed Erode Antipa, Sharyar e Sheerazade e a
tanti altri. Flavio Giuseppe (Contro Apione, I, 138-41) dice che
Nebuchadrezzar li avrebbe costruiti per la sua sposa Amytis, una
principessa figlia del re dei Medi Astiage, che aveva nostalgia dei
monti della sua patria ancestrale coperti di prati e foreste.
È proprio dal termine “siro” che parte Stephanie Dalley in un suo
recente lavoro per affermare, sulla scorta di documenti epigrafici, che
la parola è da intendersi con il significato di “assiro”, come
dimostrerebbe una epigrafe bilingue scoperta in Cilicia, 12 arrivando
poi, sulla base di una serie di documenti rivisitati in modo più attento
e critico che in passato, a una conclusione sorprendente per quanto
riguarda l’esistenza e la collocazione dei Giardini Pensili.
È vero che la storia di Diodoro Siculo è dell’epoca di Augusto e
quindi molto lontana dal nuovo regno babilonese, ma la sua fonte è
con ogni probabilità Ctesia di Cnido, 13 un greco che era diventato il
medico di corte dell’imperatore persiano Artaserse fra il 415 e il 399
a.C.
Ctesia aveva scritto un’opera in ventitré libri chiamata Persikà, di
cui i primi sei erano dedicati agli Assiri e ai Medi, ma dagli scarsi
frammenti rimasti sembra che l’autore fosse soprattutto interessato
all’aneddotica e al folklore. In questo ambito anche la storia di Amytis
per cui erano stati costruiti i Giardini Pensili avrebbe potuto essere
parte dei primi sei libri dei suoi Persikà.
Può anche essere che Ctesia fosse amante dell’aneddotica, ma è pur
vero che nei frammenti della sua opera che ci sono riferiti da Plutarco
(Vite di Arato e Artaserse) e da Senofonte (Anab., I, 8, 26) troviamo
(specialmente nel primo) dei particolari molto accurati che
consentono di giudicare Ctesia come un testimone che può essere
attendibile. 13
Altri accenni ai Giardini Pensili ci vengono da una citazione di
Clitarco, lo storico alessandrino che scrisse una vita di Alessandro in
dodici libri. Quest’opera ebbe grande fortuna in ambito romano nel I
18
secolo a.C., quando, dopo la sconfitta di Crasso a Carre (53 a.C.),
tornarono di attualità le opere che raccontavano le guerre di
Alessandro contro i Persiani. Per quello che si può capire, i giardini vi
appaiono semplicemente come quinta ornamentale della scenografia
degli ultimi giorni di Alessandro ed è difficile pensare che strutture
così sofisticate e probabilmente fragili si fossero conservate per oltre
tre secoli.
Alla fine, c’è motivo di pensare che non fossero mai esistiti giardini
poggianti su una sostruzione architettonica a Babilonia, città che ha
incantato centinaia di migliaia di visitatori per secoli e secoli? La
Mesopotamia in età storica aveva praticamente le stesse condizioni
climatiche e ambientali che ha oggi, con la differenza che la fauna
autoctona, in gran parte estinta, era ancora molto presente, con
mandrie di antilopi, gazzelle, onagri, ibex e inoltre gruppi di struzzi e
otarde e grandi carnivori come leoni, leopardi, iene e licaoni che
vediamo raffigurati nei bassorilievi dei palazzi di Khorsabad, Ninive e
Nimrud e che in Israele sono stati di recente ripopolati nel parco di
En Ghedi per far rivivere la fauna biblica. La ristretta fascia di
vegetazione che seguiva il corso dei fiumi doveva comunque
consentire ai sovrani e ai nobili di coltivare la passione per i giardini.
La presenza dell’Eufrate, poi, consentiva di far crescere piante e fiori
di ogni tipo.
Nei terrazzamenti in mattoni cotti avrebbero potuto essere ricavati
i vasconi impermeabilizzati con il bitume e il piombo, riempiti di terra
e poi piantumati. L’acqua dell’irrigazione, sollevata dal fiume con
ruote idrauliche o con coclee, avrebbe potuto scorrere verso il basso a
rivoli e cascatelle aggiungendo il fascino e l’illusione di ruscelli di
montagna. Una volta che le piante fossero cresciute, l’intera struttura
avrebbe avuto l’aspetto di una collina boscosa: in altre parole il sogno
di Amytis realizzato da Nebuchadrezzar. Ci si può chiedere se ci sia
modo di far combinare la descrizione di Filone con quella di CtesiaDiodoro per la quale, come si è visto, propendiamo. Tutto sommato
Ctesia non aveva motivo per inventarsi qualcosa che non esisteva ed è
molto probabile che la sua lunga permanenza alla corte del Gran Re
gli abbia consentito di accedere a testi che non esistono più o che ci
sono sconosciuti, e anche a testimonianze della tradizione locale, o
che addirittura abbia visto con i propri occhi ciò che restava delle
antiche meraviglie. Nel 401 a.C. egli era senza dubbio a Babilonia, che
19
distava da Cunassa solo una ventina di chilometri, e fu nelle retrovie
della battaglia fra Artaserse e Ciro il giovane, suo fratello. Quindi di
sicuro ha visto e visitato la città.
Strabone, che scrive nell’età di Augusto, produce una descrizione
abbastanza particolareggiata dei Giardini Pensili (XVI, 1, 5),
annoverandoli fra le Sette Meraviglie del mondo visibili al suo tempo.
Egli dice infatti che Babilonia era ridotta a un deserto (eremia), in
parte per la povertà dei materiali con cui era stata costruita la città, in
parte perché i Macedoni non si erano mai molto interessati a
restaurare i monumenti, e infine perché la capitale con la corte e tutti
gli alti comandi era stata spostata a Seleucia, sul Tigri, per cui
Babilonia era in abbandono. In tale condizione, se mai c’erano stati i
Giardini Pensili, non erano sicuramente più riconoscibili. Strabone
quindi segue con ogni probabilità e, si potrebbe dire, in modo
indipendente, Ctesia, visto che è praticamente contemporaneo di
Diodoro.
È noto poi che Strabone, nonostante le sue affermazioni di grande
esperienza sul campo nel prologo dell’opera, si fonda molto di più
sulle sue fonti letterarie che sull’esperienza personale.
Degna di nota è la relazione di Curzio Rufo che narra l’impresa di
Alessandro e che si diffonde con una certa ampiezza nel suo capitolo
babilonese (V, 24-39) proprio sul tema dei Giardini Pensili, che però,
fin dall’inizio, sono definiti “miraculum Graecorum fabulis vulgatum”:
un’espressione, in sostanza, di discredito sia per il “Graecorum fabulis”
che potremmo rendere “le storielle dei Greci”, sia per il “miraculum
vulgatum” che pure richiama il sensazionalismo dell’aneddotica greca.
Fa però contrasto la notevole accuratezza con cui Curzio descrive i
Giardini, che senza dubbio alla sua epoca non esistevano più, date le
molte vicissitudini che la città di Babilonia aveva dovuto affrontare
nella sua lunga storia.
Curzio accetta a quanto pare sia la versione colonnata dei Giardini
Pensili (V, 34) che quella delle “gallerie”, cioè un piano di lastre di
pietra sostenute da colonne massicce ma anche da muraglie
(sormontate da archi?) su cui poggiava uno strato di humus e di
terriccio e un impianto di irrigazione che era in grado di alimentare
alberi della circonferenza di ben otto cubiti (più di 3 metri), alti 50
piedi (circa 15 metri). Su queste caratteristiche della piantumazione
20
torneremo oltre perché esistono elementi agronomici che molti
studiosi ignorano o non considerano a sufficienza.
Curzio riporta, come si è detto, delle muraglie di sostegno di 6
metri di spessore distanti l’una dall’altra poco più di 3 metri (11 piedi).
Alla fine ricorda anche la storia di un re di Siria che costruì i giardini
per soddisfare il desiderio della sua sposa.
Nei primi anni del Novecento l’archeologo tedesco Robert Johann
Koldeway iniziò l’esplorazione del sito di Babilonia – identificato già
da tempo ma mai scavato sistematicamente – ottenendo dei risultati
straordinari. Individuò la grande via processionale, la famosa e
splendida porta di Ishtar, rivestita di mattonelle smaltate in blu scuro
con figure di animali in rilievo e a colori naturali, oggi allo Staatliche
Museen di Berlino, il palazzo di Nebuchadrezzar, il basamento di
Etemenanki, la mitica “torre di Babele” di biblica memoria e quelli che
egli individuò come i Giardini Pensili, ossia le sostruzioni dei
medesimi.
L’identificazione di tali strutture come quelle che reggevano una
delle Sette Meraviglie del mondo è stata più volte messa in
discussione o anche decisamente respinta. La maggiore delle
obiezioni è che distano troppo dall’Eufrate, obiezione che a molti
sembra decisiva sia che si pensi a un sistema di sollevamento a coclea,
sia che si pensi a ruote idrauliche. Ambedue hanno necessità di un
prelievo diretto dell’acqua, il che imporrebbe una vicinanza al fiume
che nell’edificio identificato da Koldeway non sussiste. A rigore, però,
questo non sarebbe un impedimento, in quanto il meccanismo di
sollevamento poteva benissimo versare l’acqua in una condotta di
legno o altro materiale da cui a sua volta traeva alimento il sistema di
irrigazione dei giardini.
In sostanza quindi il problema rimane aperto, ma a nostro avviso
non tutte le obiezioni riportate sono determinanti. Sta di fatto che ai
nostri giorni di solito prevale l’idea che quelle che Koldeway
interpretò come le sostruzioni dei giardini (secondo Diodoro, ma in
parte anche Curzio Rufo) fossero in realtà magazzini per derrate
alimentari. Vi fu rinvenuta infatti una tavoletta in cuneiforme che
registrava l’erogazione di olio al re Joachim di Giuda prigioniero.
Dunque si sarebbe trattato di strutture di tipo amministrativo e anche
di edifici adibiti a magazzini. La vista, inoltre, da quel luogo, sarebbe
21
stata povera e banale. Non un luogo per la ricreazione ma per attività
economiche e annonarie.
Recentemente Stephanie Dalley nel suo libro The mystery of the
Hanging Garden of Babylon ha ipotizzato che i giardini esistessero, ma
fossero non a Babilonia bensì a Ninive. Il re Sennacherib che regnò fra
l’VIII e il VII secolo a.C. affermava infatti nelle sue iscrizioni ufficiali di
aver portato un acquedotto alla sua capitale con cui si irrigavano
bellissimi giardini. Questo di per sé avrebbe una importanza relativa,
ma l’assiriologa americana porta a sostegno della sua ipotesi due
elementi testimoniali indubbiamente robusti: il primo si riferisce alla
testimonianza delle fonti antiche secondo cui un re “siro” o di “Siria”
avrebbe costruito i giardini pensili per compiacere la sposa (o una
concubina) che veniva dalle montagne dell’Elam coperte di foreste.
Come si è già visto, secondo la Dalley il termine “siro” equivarrebbe
ad assiro e Siria ad Assiria. Oltre a questo riporta dei disegni fatti da
Layard nell’800 che riproducono dei bassorilievi perduti 14 in cui si
vedono delle strutture colonnate che sorreggono dei giardini. Un
acquedotto con archi a sesto acuto regge un canale sospeso che
alimenta un sistema di irrigazione a scorrimento e nelle cui acque
nuotano dei pesci.
Sembra veramente la soluzione dell’enigma. Il re dell’apologo non è
un siro o siriano ma un assiro e i giardini esistevano ma stavano a
nord e non a sud, là dove l’acqua dello Zagros e del Tauro arrivava in
grande abbondanza in tutte le stagioni dalle cime sempre innevate di
quelle altissime montagne.
Una controprova sarebbe nel fatto che le fonti riguardanti
Nebuchadrezzar, supposto autore dei giardini, pur glorificando il
costruttore e restauratore di Etemenanki, del tempio di Marduk, del
palazzo reale, tacciono del tutto sulla prima delle Meraviglie del
mondo. Dal momento che non può trattarsi di una svista, si può
pensare che, per assurdo, quella che era una meraviglia del mondo
per la cultura greco-macedone e poi romana non lo fosse per chi
l’aveva creata. Forse rappresentava una sorta di costoso divertissement
e non certo un santuario o una dimora imperiale o una possente
muraglia di difesa, tutte realizzazioni di tipo essenziale. In ogni caso si
tratta di un argumentum ex silentio e quindi metodologicamente
22
significativo ma non probante, proprio perché il silenzio non rivela né
dichiara alcunché.
L’intenzione della Dalley di dimostrare che i giardini di Babilonia
non erano in nessun modo simili a quelli descritti dalle fonti dei
Giardini Pensili con la rappresentazione di appezzamenti di colture
come dimostrate e rappresentate nella tavoletta di Merodach Baladan
non regge. 15 Le essenze nominate non sono alberi ma piante officinali
come origano, cipolla, aglio, timo e certo non possono competere con
le piante di alto fusto dei giardini assiri semplicemente perché non
sono piante da parco ma erbacee da orto e destinate alla cucina.
Quando poi, per contrasto, si nominano i profumati alberi di
montagna che popolano i giardini sulle colline artificiali di Assiria,
bisognerà forse essere prudenti e ricordare il clima del nord del
moderno Irak, molto simile a quello di ventisette secoli fa negli stessi
luoghi.
Anche l’osservazione di Creswicke Rawlinson, il padre
dell’Assiriologia moderna, di un bassorilievo di Ashurnazirpal che a
suo dire riprodurrebbe i Giardini Pensili e a cui si ispirarono le
descrizioni posteriori degli autori classici non ci sembra del tutto
probante. Che bisogno ci sarebbe stato di macchine per il
sollevamento dell’acqua visto che ce n’era in abbondanza che
scendeva dai monti circostanti e che esistevano acquedotti come
quello che abbiamo sopra descritto? In ogni caso l’elenco di piante da
giardino descritte da Ashurnazirpal per il suo parco a Nimrud è
impressionante e di fatto corrisponde alle essenze rappresentate nel
disegno dal bassorilievo di Layard. Il re cita pini, cipressi e ginepri,
mandorli, datteri, ebano, legno di rosa, olivo, quercia, tamarisco,
noce, terebinto, frassino, abete, melograno, cotogno, pera, fico, vite. 16
In sostanza si tratta di piante che si possono riconoscere almeno in
parte nei disegni da bassorilievo di Layard: si distinguono facilmente
le cupressacee in cui possiamo riconoscere sia cipressi veri e propri
che ginepri. Le piante dominanti sono certamente le palme che si
direbbero del tipo Phoenix dactylifera. I numerosi arbusti si
intravvedono ma non si distinguono: potrebbero essere il terebinto,
che è un pistacchio, e abeti. Più difficile pensare a querce e frassini
che sono di solito piante di alto fusto ma che hanno anche varietà
nane e con foglia coriacea.
23
In definitiva al giorno d’oggi la maggior parte degli studiosi sembra
credere che i Giardini Pensili di Babilonia non siano mai esistiti o, al
massimo, ammesso che siano esistiti, si sarebbero trovati in Assiria e
non a Babilonia.
Resta il fatto che una tradizione molto forte, che confluisce nelle
pagine di storici e geografi importanti come Diodoro, Strabone,
Curzio Rufo, Plinio e altri, si esprime a favore dell'esistenza dei
Giardini. 17 Si tratterebbe quindi dell’unica su sette delle antiche
Meraviglie a essere un’invenzione creata soltanto per compiacere il
gusto greco del fiabesco e del meraviglioso orientale, senza contare
l’aspetto romantico del grande sovrano che vuole compiacere la sposa
che ha nostalgia dei suoi monti boscosi.
Se però il trasferimento dei Giardini a Ninive o a Nimrud ha una
sua logica in quanto è indubbio che i disegni di Layard che ritraggono
bassorilievi perduti riproducono qualcosa di molto simile alla
descrizione dei Giardini Pensili così come appaiono nelle pagine dei
classici, si può forse escludere categoricamente che qualcosa di simile
fosse stata realizzata anche a Babilonia? Si può escludere che le due
ipotesi, quella assira e quella babilonese non siano alternative l’una
all’altra ma possano coesistere? La mancanza di fonti babilonesi
contemporanee non significa necessariamente che i Giardini non
siano mai esistiti, visto che la maggior parte delle venticinquemila
tavolette dell’archivio di Nebuchadrezzar non sono ancora state
tradotte né pubblicate. L’argumentum ex silentio, come è noto, non è
infatti metodologicamente proponibile perché infinite possono essere
le cause di quel silenzio che comunque viene valorizzato
indirettamente dell’affermazione di Irving L. Finkel: “Non esiste
un’iscrizione babilonese che abbia riferimento a una costruzione
reale, di grande effetto, un giardino che, se dobbiamo credere alle
relazioni posteriori che citeremo fra breve, costituiva una
straordinaria novità tecnologica”. 18
Se è innegabile che la tavola di Layard riproduca giardini pensili del
palazzo reale di Sennacherib, e che quei giardini appaiano frequenti
nelle descrizioni dei testi assiri, non si vede perché si dovesse
ambientare in un simile meraviglioso luogo la nostalgia di una
principessa per i boschi della terra natia, visto che di boschi, parchi e
24
colline dalle parti di Ninive, di Nimrud e Khorsabad non c’era che
abbondanza.
La storia avrebbe invece molto più senso nella bassura soffocante
di Babilonia, dove di giardini si doveva sentire molto di più la
mancanza. Le magnifiche realizzazioni dei sovrani assiri dovevano
inoltre essere ben note anche nelle terre basse fra il Tigri e l’Eufrate.
La testimonianza di Ctesia, sia pur letta in filigrana attraverso le
pagine di Diodoro e Strabone, in fin dei conti potrebbe essere valida,
o come memoria di qualcosa che era stato realizzato molto prima
della sua visita a Babilonia alla fine del V secolo a.C., o come reliquia a
malapena riconoscibile di ciò che era stato.
Nella vita di Artaserse in Plutarco si riporta la narrazione di Ctesia
della cattura ed esecuzione dei comandanti greci dei Diecimila da
parte del satrapo Tissaferne. In particolare Ctesia racconta che
Clearco, il loro comandante spartano, certo ormai di essere
condannato a morte, aveva chiesto un pettine e, ottenutolo, si era
mostrato molto soddisfatto. Evidentemente Ctesia ignorava il motivo
di quella soddisfazione, ma noi sappiamo che gli Spartani usavano
pettinarsi e lavarsi prima di incontrare la morte. Così era accaduto
alle Termopili prima dell’ultima battaglia contro i Persiani. Dunque
Ctesia poteva anche essere talvolta un testimone affidabile per aver
avuto esperienza diretta della materia del suo narrare.
Il silenzio di tante fonti importanti, come i testi in cuneiforme, si
potrebbe spiegare con il fatto che i Giardini Pensili avrebbero potuto
essere una realizzazione tanto ambiziosa e spettacolare quanto poco
duratura per l’enorme manutenzione che doveva richiedere e quindi
tale da non poter o dover essere tramandata in testi ufficiali.
L’obiezione di Romer che il sole babilonese avrebbe distrutto
qualunque piantagione su terrazzamenti è da rigettarsi. Cipressi,
ginepri e palme avrebbero potuto sopravvivere benissimo anche in
poca terra, e così tamerici, euforbie, lentischi, terebinti e melograni, a
seconda della disponibilità d’acqua che, nei pressi di un grande fiume,
non doveva mancare.
L’idea del giardino pensile è talmente suggestiva che ha affascinato
molti pittori, soprattutto nell’Ottocento e nel Novecento, ed è
interessante notare che le loro ricostruzioni sono sostanzialmente di
due tipi: alcuni rappresentano le strutture colonnate che reggono i
giardini; cercano cioè di rendere per immagini la descrizione di Filone
25
e di altre fonti antiche. Altri, invece, più numerosi, ispirandosi alla
descrizione contenuta nelle pagine di Diodoro, riproducono
sostanzialmente strutture piramidali a gradoni sul tipo delle ziggurat,
ma con una spianata superiore molto larga che permetteva di
passeggiare e ammirare piante di alto fusto, giardini esotici e rivoli
d’acqua. Un autentico paradiso nel vero senso del termine.
È interessante infine notare che anche nell’architettura moderna
del paesaggio i giardini pensili sono molto presenti, sia sui grattacieli e
nei condomini urbani che nelle costruzioni dei villaggi turistici e in
molte altre situazioni. La tecnologia moderna non ha ovviamente
alcuna difficoltà a sollevare l’acqua fino a centinaia di metri di altezza
e a creare giochi d’acqua e fontane di grande effetto scenografico.
Addirittura, in certi complessi alberghieri di altissimo livello si
ricavano, nei profili naturali del terreno, veri e propri torrenti, con
ghiaie lavate e talvolta con enormi massi artificiali per movimentarne
il corso e per creare effetti di gorghi e cascate.
L’uomo contemporaneo insomma, dopo aver creato il deserto
urbano negli anni Cinquanta-Settanta del secolo scorso con la
diffusione di massa dell’automobile e con i quartieri dormitorio delle
città industriali, ha risentito la nostalgia dell’ambiente naturale da cui
proviene la nostra specie, creando prima i grandi parchi e poi
studiando modi di compenetrare gli edifici di vetro, acciaio e cemento
con la vegetazione. È ovvio che, come del resto accadeva
nell’antichità, si tratta di un lusso alla portata di pochi.
Il gorgogliare dell’acqua, il fruscio delle fronde, il profumo dei fiori e
delle piante odorose non sono per i quartieri poveri, che devono
accontentarsi dei cosiddetti “giardinetti”. È interessante comunque
considerare che queste soluzioni architettoniche riportano sensazioni
dimenticate, e il loro carattere artificiale, lungi dall’essere sgradevole,
è, se possibile, ancora più emozionante, perché risultato delle
tecnologie più avanzate combinate con la sapienza botanica e
agronomica di una sensibilità ambientalistica sempre più sviluppata.
La colonizzazione vegetale casuale dei ruderi antichi, segno di
abbandono e di struggente decadenza, la natura che riconquista spazi
un tempo ceduti alle grandiose realizzazioni urbane delle civiltà
antiche ha creato nei secoli passati il paesaggio ruderale che ha
ispirato Piranesi e tanti suoi seguaci, ma ispira anche ai moderni una
nuova, eccitante e tecnologica coesistenza.
26
Il sogno antico di una principessa malinconica diventa realtà per
una umanità che sempre più cerca il ritorno alle proprie origini.
27
La Grande Piramide
È la sola fra le Sette Meraviglie del mondo a essere sopravvissuta fino
a noi quasi intatta, mentre delle altre o non rimane nulla o solo
qualche minima traccia. Il problema di queste mirabili costruzioni è
sempre stato quello dei periodi di collasso della civiltà e del
conseguente impoverimento. Ma anche il fatto che erano costruite
con materiali pregiati e in tempi di abbandono venivano assalite,
demolite per riciclarle. Quando si tratta di tombe o mausolei (la
Grande Piramide lo è) la violazione avviene già in età antica perché
era noto che all’interno i corredi funebri erano ricchissimi, sicché la
conservazione in toto del corredo di Tutankhamon è una specie di
miracolo, un unicum.
La Grande Piramide è talmente stupefacente per le dimensioni, la
perfezione quasi assoluta, la precisione millimetrica degli incastri e
delle sovrapposizioni, l’imponenza e la maestà, il peso esorbitante,
l’orientamento astronomico, le proporzioni matematiche, che ha fatto
sorgere ogni tipo di assurda ipotesi, soprattutto in tempi
relativamente recenti, quando la passione per l’Egittologia, scatenata
dall’invasione napoleonica del 1798, ha richiamato nel paese del Nilo
una quantità di persone in cerca di forti emozioni, di misteri da
indagare, di magie arcane e di tutta la panoplia emotiva tipica del preromanticismo.
In età contemporanea le acque non si sono calmate, e anzi, si è
arrivati a credere che la Grande Piramide, assieme ovviamente alle sue
sorelle minori, sia stata edificata da civiltà aliene venute sulla terra a
trasmettere conoscenze straordinarie e irraggiungibili dal genere
umano; la fiction letteraria e quella cinematografica hanno fatto il
resto.
Altri personaggi, ispirati al biblismo anglosassone, non hanno
esitato a dichiarare che si trattava dei granai costruiti da Giuseppe
figlio di Giacobbe, divenuto gran visir e interprete dei sogni del
faraone, per immagazzinarvi il grano in previsione delle sette vacche
28
magre, ossia di un lungo periodo di carestia. Certamente nessuno di
loro le aveva mai viste, altrimenti si sarebbe reso conto che all’interno
non c’era posto per immagazzinare grano nemmeno per sette mesi.
Gli studiosi non hanno mai avuto dubbi che si trattasse di una
tomba, perché bastava leggere le fonti antiche che in abbondanza ci
sono pervenute per giungere a una simile, elementare conclusione: in
particolare Erodoto, che viaggiò in Egitto e interrogò a più riprese i
sacerdoti che custodivano la memoria storica del Paese, ma ci resta
anche Manetone, che al tempo di Tolemeo II Filadelfo stilò una lista
dei sovrani d’Egitto e delle loro dinastie. Le caratteristiche del
racconto erodoteo 1, però, ci fanno capire che le sue fonti riportavano
anche leggende e storie del folklore locale di cui poi si sono trovati
ampi squarci nei testi in geroglifico che in certe situazioni si sono
anche rivelati coincidere in modo sorprendente con passi dell’Esodo
biblico ambientati in Egitto. 2 Erodoto afferma che la Grande Piramide
era la tomba di Cheope, costruita da centomila uomini che avevano
lavorato per vent’anni a turni di tre mesi (II, 124). Egli narra inoltre
che le spese per la sua costruzione erano divenute così enormi da
costringere la figlia a prostituirsi per trovare il denaro per continuare i
lavori. A memoria di questa vergogna, la principessa si sarebbe fatta
dare una pietra da ciascuno dei suoi clienti con cui avrebbe fatto
edificare una delle piccole piramidi che si vedono nei dintorni.
Una simile leggenda è stata probabilmente originata dalla memoria
di qualche santuario in cui si praticava la prostituzione sacra,
abbastanza comune nel mondo antico.
In origine, la Grande Piramide, al pari delle altre due di Micerino e
di Chefren, era rivestita di lastre di calcare perfettamente levigate che
brillavano al sole come pietre preziose ed era rivestita sulla punta (il
piramidion) da lamina d’oro. È poi anche possibile che il rivestimento
esterno fosse decorato o recasse iscrizioni, ma questa è una
circostanza che oggi non è facile verificare. Parte del rivestimento
crollò durante il grande terremoto del XIV secolo a.C. Il resto fu
rimosso durante il regno del Saladino, ma soprattutto durante quelli
del sultano Hassan e del sultano Barkuk fra il 1356 e il 1399, che
utilizzarono il calcare levigato per erigere moschee e palazzi al Cairo.
Durante l’occupazione araba, il califfo Ma’mun fece trapanare la
piramide per cercare la via verso il tesoro che si supponeva fosse
29
custodito all’interno, ma senza risultati. Da quel tunnel entrano oggi i
turisti per le loro visite. Da allora la piramide fu utilizzata come una
cava di materiali da altri califfi e spogliata completamente di quanto
restava del suo rivestimento esterno, che fu adoperato per costruire
altri edifici del Cairo fra cui la grande moschea. Solo sulla parte
apicale della piramide di Chefren, il figlio di Cheope, ne resta ancora
una parte, sufficiente per farsi almeno un’idea dell’aspetto originario
delle piramidi.
Esaurito il rivestimento – un’operazione che dovette richiedere
tempi lunghi –, si iniziò probabilmente lo smontaggio dei blocchi
sottostanti, anch’essi di calcare, del peso di almeno quattro tonnellate
ciascuno. Ma per fortuna la struttura del monumento non ebbe a
soffrirne più di tanto.
Oggi la Grande Piramide è di poco superiore a quella di Chefren,
mentre nell’antichità la sopravanzava di circa 10 metri. 3
Al suo interno ci sono due corridoi d’accesso, uno verso l’alto e uno
verso il basso. Quello verso il basso raggiunge il letto di roccia piena
dopo aver percorso 28 metri all’interno della struttura edificata. Gli
ultimi 9 metri sono in senso orizzontale per garantire sufficiente
spazio a un eventuale corteo processionale per raggiungere la camera
sepolcrale, ammesso che di questo si trattasse. Ma è una spiegazione
poco convincente: non si capisce infatti come i partecipanti al corteo
potessero strisciare all’interno di un cunicolo tanto lungo e stretto (1
metro x 1 metro) per poi alzarsi in piedi solo negli ultimi 9 metri.
La prima parte del corridoio fu ricavata lasciando libero lo spazio
nella struttura a mano a mano che veniva innalzata, ma i restanti 77
metri furono tutti tagliati nella viva roccia. Il volume del taglio, quindi,
è praticamente pari a 77 metri cubi, essendo il corridoio
approssimativamente di un metro per un metro, come ricordato. Se
consideriamo un metro cubo di calcare pari a circa 1,5 tonnellate
avremo in tutto un peso di 115,5 tonnellate. Il taglio di un metro cubo
di calcare effettuato oggi con mazza e scalpello d’acciaio temperato
richiederebbe circa una settimana di lavoro e quindi il taglio di tutto il
cunicolo richiederebbe circa due anni. Calcolando che in uno spazio
di un metro per un metro può lavorare soltanto un uomo per volta e
considerando che nel 2560 a.C. gli operai avevano a disposizione solo
strumenti di pietra o di rame, possiamo pensare che il tempo
30
necessario sia stato almeno il doppio, ma forse anche di più. Tempo
che cresce ulteriormente se teniamo conto anche della rimozione dei
detriti lasciati dal taglio.
Queste nostre molto approssimative considerazioni non
pretendono di arrivare ad alcuna conclusione, ma vogliono dare
un’idea della mole di lavoro necessaria per tagliare non solo il
corridoio della camera inferiore ma tutti i blocchi di calcare che
compongono la piramide (un milione e seicentomila, o un milione e
duecentomila secondo altri calcoli). Il corridoio inferiore termina con
una camera ipogea piuttosto ampia (14 x 8,3 x 4,3 metri). Al centro
del vano c’è una specie di pozzo verticale che però gli studiosi non
ritengono sia della stessa epoca della costruzione della piramide. È
probabile che l’abbia scavato John S. Perring nel 1837 allo scopo di
trovare un’altra camera nascosta. Dalla camera ipogea si diparte un
altro corridoio che prosegue ancora per circa 18 metri in orizzontale e
poi si arresta.
La costruzione di questi vani ipogei, dunque, fu a un certo
momento interrotta e mai completata, per ragioni che ignoriamo.
Forse l’architetto si rese conto di aver commesso un errore o più
probabilmente il committente, cioè il faraone in persona, cambiò idea
in corso d’opera. Ciò che impressiona è che uno sforzo così enorme
sia stato di fatto sprecato e l’opera presumibilmente abbandonata. C’è
anche chi pensa che la camera inferiore fosse stata scavata per
depistare i saccheggiatori di tombe, oppure che Cheope, dopo aver
visto l’opera penetrare nel ventre della collina, avesse preferito essere
collocato in un luogo più elevato verso il centro della piramide. In
ogni caso, nessuna di queste ipotesi appare soddisfacente e risolutiva
e il problema dunque rimane aperto. È interessante notare che la
“camera della regina” si trova quasi sulla perpendicolare del vertice
della piramide, cioè quasi esattamente al centro, leggermente spostata
verso sud.
Un altro corridoio, dicevamo, punta invece verso l’alto e verso
l’interno della piramide. Al livello in cui comincia la grande galleria si
diparte un corridoio orizzontale che arriva alla cosiddetta “camera
della regina”, mentre l’altro, quello ascendente, superata la galleria,
arriva fino alla camera del re che è sormontata da cinque gigantesche
lastre di granito di Aswan, di cui due a V rovesciata che dovevano
avere funzione di scarico dell’enorme peso soprastante. Al centro
31
della camera funeraria c’è un rozzo sarcofago danneggiato nell’angolo
sudest e apparentemente privo di coperchio.
Si è molto discusso del significato e della funzione della grande
galleria, ma anche qui con scarsi risultati. Il manufatto è imponente e,
quando il visitatore ci arriva, resta stupito per le dimensioni (è alta 8,6
metri e lunga 48,68 metri) e per i sofisticati accorgimenti
architettonici. Le pareti, infatti, sono costituite da enormi blocchi che
sporgono progressivamente verso il centro con un aggetto di circa 7
centimetri ciascuna per cui lo spazio in alto si riduce notevolmente
rispetto alla larghezza del pavimento che è fatto di due gradonate
separate da una rampa centrale.
Si è ipotizzato che fosse una specie di cattedrale per riti particolari,
ma non si vede perché il pavimento sia in salita e diviso in tre fasce.
Inoltre non si capisce quale tipo di riti, visto che il cerimoniale
funerario dei faraoni era rigidissimo. C’è anche chi pensa a uno spazio
per collocare materiali destinati a essere messi in opera
successivamente per il bloccaggio della sepoltura del re e per le
saracinesche che venivano calate dall’alto una volta chiuso il
sarcofago.
C’è chi ha pensato che servisse per una impalcatura di legno atta a
sostenere i blocchi e che lasciasse passare gli operai di sotto, ma
anche questa idea sembra alla maggioranza degli studiosi poco
convincente. Essendo quei blocchi giganteschi pesanti dalle 20 alle 80
tonnellate e non potendo essere rimossi finché la piramide non fosse
terminata e officiato il funerale, avrebbe finito per cedere creando un
disastro. A parte la difficoltà enorme di piazzare i massi di bloccaggio
e le saracinesche su una impalcatura alta almeno due metri.
Il problema di fondo è che non si capisce il perché di una struttura
tanto importante e imponente quando sarebbe bastato prolungare il
cunicolo ascendente fino alla camera funeraria. 4
In realtà, un oggetto così impressionante e maestoso come la
grande galleria non ha apparentemente alcun significato che noi
siamo in grado di comprendere. L’unica struttura che in qualche
modo richiama è la camera funeraria della piramide di Snefru, il
padre di Cheope, anch’essa realizzata con la tecnica ad aggetto di
grandi blocchi laterali. 5
Non c’è da stupirsi tuttavia se la costruzione di questi monumenti
32
presenta tanti problemi interpretativi, perché l’epoca in cui fu eretta la
Grande Piramide dista da noi quarantacinque secoli, una distanza
temporale immensa, che costituisce una sorta di barriera fra noi
moderni e gli uomini che idearono, progettarono e costruirono il
monumento.
Gli sforzi per proteggere il sonno eterno del faraone si rivelarono
comunque del tutto inutili, e la Piramide venne violata, anche se non
è stato possibile determinare quando questo sia accaduto. La prima
violazione sarà avvenuta certamente in età antica in uno dei periodi
di decadenza, quando le strutture dello stato che proteggevano le
aree sacre venivano a mancare e i ladri avevano mano libera. Sir
William Flinders Petrie, 6 uno dei più grandi archeologi di tutti i tempi,
ha fornito una spiegazione affascinante su come i ladri avrebbero
scoperto il punto di ingresso alla Piramide, visto che il rivestimento
esterno di calcare pregiato era tutto levigato in modo uniforme: il
colore. Essendo passato molto tempo fra la posa in opera delle prime
lastre di rivestimento e la collocazione di quelle che coprivano
l’accesso, queste ultime avevano probabilmente un colore più chiaro,
perché non avevano fatto in tempo a ossidarsi. Si potrebbe però
obiettare che un saggio architetto come quello che ha diretto i lavori
della Piramide potrebbe aver tagliato le pietre dell’ingresso per
lasciarle stagionare con le altre e metterle poi in opera assieme a
quelle con il colore già ossidato. In ogni caso è noto che c’erano delle
complicità fra i custodi delle necropoli e i ladri. Sappiamo che nel
Primo Periodo Intermedio fu intensa l’attività dei saccheggiatori e
questa può essere stata l’epoca in cui la Grande Piramide subì i primi
attacchi. 7
Sappiamo, comunque, che anche i faraoni, in età successive,
utilizzarono materiali dalla Piramide, come è avvenuto peraltro nella
storia dell’impero romano.
La chiusura del cunicolo ascendente di accesso avvenne con
incredibile sagacia degli architetti che ricavarono lo spazio nella
struttura ascendente della piramide ma celarono la copertura in
modo magistrale. Come ancora oggi è possibile vedere, i ladri
dovettero tagliare i blocchi di traverso per intercettare il corridoio che
conduceva alle camere reali.
La camera del re è abbastanza regolare ma non perfetta. Gli angoli
33
fra le pareti e il soffitto da una parte e il pavimento dall’altra non sono
esattamente retti e questa è probabilmente una delle cause – assieme
al peso spropositato di oltre 100 metri di massa lapidea fino alla
sommità – che ha provocato già nell’antichità, forse addirittura a
lavori non del tutto ultimati, le fessurazioni nelle pareti.
Le misure della camera sono notevoli – 10,45 metri di lunghezza,
per 5,23 di larghezza, per 5,08 di altezza –, e creano un vano, cioè un
vuoto molto esteso per una sola campata. In teoria i grandi blocchi di
copertura avrebbero dovuto cedere al peso, cosa che non avvenne.
Come mai? Perché gli architetti del re avevano disposto al di sopra
della camera cinque giganteschi blocchi di granito che poggiavano,
indipendentemente l’uno dall’altro, sul massiccio della piramide e non
semplicemente sui lastroni di contorno alla camera sepolcrale. Al di
sopra del quinto vano furono disposte due lastre dello spessore di
due metri, segate obliquamente nella parte superiore in modo da
combaciare formando una V rovesciata che scaricava il peso sul
massiccio.
Ma il particolare forse più interessante di questo complesso è che
all’interno delle camere di scarico ci sono dei geroglifici in pittura
rossa. Essi furono tracciati dai capisquadra che lavorarono a questa
incredibile opera e che ci trasmisero in tal modo il nome del faraone
che avrebbe dovuto dormire il suo sonno eterno nel cuore di quella
montagna di pietra. Khufu, cioè Cheope.
Questo stabilito, resterebbe da identificare la destinazione dei vari
elementi vuoti all’interno della Piramide. L’enorme monumento è di
fatto quasi tutto pieno, esclusi i corridoi – quello discendente e quello
ascendente –, le tre camere funerarie – quella sotterranea, quella detta
“della regina” e quella detta “del re” –, la grande galleria e il pozzo di
scarico.
Quest’ultimo manufatto dalla sezione approssimativamente
quadrata e abbastanza regolare (metri 0,65 x 0,68) è caratterizzato da
uno strano andamento: prima scende quasi verticale, e poi assume
una direzione obliqua e va a intercettare il corridoio discendente che
porta alla cripta incompiuta scavata dentro la roccia. Si sono fatte
parecchie ipotesi di cui una molto suggestiva: il pozzo sarebbe stato
scavato di nascosto dagli operai per aprirsi una via di fuga dopo il
funerale del faraone quando sarebbero stati messi in opera i blocchi di
mascheramento, i massi di bloccaggio e le saracinesche. Si tratta però
34
di una ipotesi improbabile, ispirata forse a opere di fantasia in cui si
narra di operai intrappolati a morire di una morte terribile e
angosciosa perché il segreto di tesori sepolti non trapeli.
Gli egiziani non praticavano simili crudeltà e sempre dimostrarono
rispetto per la vita umana. La controprova è che non è mai stata
trovata nelle piramidi o in altre tombe monumentali la minima traccia
di resti umani che non fossero del defunto che vi era sepolto.
Tutte e tre le camere erano evidentemente state preparate per il
faraone e poi, o per ripensamenti degli architetti o per diverse
decisioni dello stesso faraone, due di esse furono abbandonate ancora
prima della rifinitura completa. Ciò non deve stupire, e nemmeno il
fatto che, secondo le osservazioni di alcuni studiosi, le lastre di scarico
della camera funeraria fossero in massima parte inutili. Quell’opera di
immani dimensioni (pensiamo alla Grande Piramide, ma anche a
quella di Menkhaure-Micerino, di poco inferiore per altezza e volume)
non nacque probabilmente con un piano definitivo e immutabile, ma
fu essa stessa palestra di sperimentazione. Il peso esorbitante della
struttura, concepita per rendere impossibile il sacrilegio e la
violazione della mummia del faraone, dovette essere il problema
principale da risolvere, e inoltre si dovette tenere conto anche dei
terremoti, frequenti in Egitto.
La necropoli di Dahshur mostra chiaramente come gli architetti
sperimentassero diverse soluzioni. In primo luogo basta considerare
le due piramidi di Snefru, il padre di Cheope, più antiche della
Grande Piramide. La prima ha una doppia inclinazione: partita da un
progetto che l’avrebbe portata a 128 metri di altezza, mostrò
probabilmente dei cedimenti dovuti all’instabilità del terreno e gli
architetti inclinarono con un angolo più stretto la seconda parte
ottenendo un involontario effetto diamante di grande fascino e
bellezza. C’è chi pensa, prosaicamente, anche a un pentimento della
stessa corte onde risparmiare sulle spese e sui materiali, oppure a un
nuovo calcolo più prudente degli architetti che forse temevano che
l’enorme peso avrebbe polverizzato la camera funeraria. La seconda
piramide invece, detta per il colore dei suoi materiali “piramide
rossa”, fu realizzata con un angolo iniziale di 45° che venne
mantenuto fino alla sommità. Il rinvenimento di resti umani
all’interno ha fatto pensare che quella sia stata in effetti la vera
sepoltura di Snefru.
35
Ma come fu percepita dagli antichi la seconda meraviglia del
mondo? Con stupore e ammirazione, ovviamente, ma anche con
spirito critico, infatti la leggenda nera di Cheope, rappresentato come
un tiranno megalomane e spietato, ha origine per noi già da Erodoto,
che scrive nella seconda metà del V secolo a.C. Il ritratto tutto in
negativo di Cheope è dovuto al fatto che Erodoto ragiona con la
mentalità di un uomo che conosce istituzioni democratiche e sistemi
elettivi di governo. E che, comprensibilmente, non si capacita del
significato di uno sforzo così immane da apparire mostruoso. D’altra
parte, il duro giudizio che diede Auguste Mariette, fondatore del
Museo Egizio, delle sue pagine è ancora meno giustificato dei suoi
errori e delle sue divagazioni fantastiche. Erodoto veniva da una
civiltà in cui i monumenti più grandi e dispendiosi (nulla comunque
di fronte a quelli egizi) erano sempre edifici pubblici, mai privati, e in
ogni caso non strutture dedicate a un uomo solo. Erodoto, d’altra
parte, non è insensibile alle tradizioni dei riti funerari egizi, tanto è
vero che descrive in modo molto preciso e dettagliato i vari livelli di
imbalsamazione, dai più costosi e ricercati a quelli più elementari e
sobri, come mettere il cadavere sotto sale di natron per tre mesi.
Quattro secoli dopo, Plinio ragionava in modo analogo
considerando gli acquedotti romani molto più ammirevoli della
Grande Piramide perché davano acqua potabile a centinaia di
migliaia di persone mentre la Piramide era costata sangue, lacrime
infinite e fatiche disumane solo affinché un uomo avesse una tomba
ineguagliabile. Infine descrive la Grande Piramide come “stolta e
inutile ostentazione di ricchezza dei re” (XXXVI, 77). In altri termini,
Plinio aveva già ben chiaro il concetto tipicamente romano di opera
pubblica, ossia creata per soddisfare i bisogni della comunità.
Curiosamente, anche Diodoro siculo, mostrando una sorta di
sensibilità “sociale”, si sente più vicino agli operai che costruirono la
piramide che al re che la fece costruire: i primi mostrarono a suo dire
(I, 1, ss: II, 15-18) più ingegno e capacità del secondo, che si era
limitato a spendere enormi quantità di denaro che non aveva
guadagnato ma solo ereditato o estorto.
Strabone è più interessato ai caratteri tecnici della Piramide, ma la
sua descrizione dell’ingresso con una lastra mobile che poteva
scendere come una saracinesca a bloccare l’accesso non ha alcuna
consistenza (XVII, 1, 33).
36
Il prestigio di questo straordinario monumento dura, comunque,
fino alla fine della dinastia tolemaica, con la parentesi delle piramidi
di Meroe e Napata innalzate dai sovrani etiopi sotto il chiaro influsso
delle piramidi faraoniche del nord del Paese. Ciò che le distingue è
però l’ampiezza della camera funeraria interna, a differenza di quelle
dei faraoni della IV dinastia in cui le cripte erano destinate
esclusivamente a contenere la mummia del faraone e il suo corredo.
Dopo i faraoni della IV dinastia, il modello piramidale tornò in
voga nell’Egitto propriamente detto con i faraoni della XII dinastia,
ma con materiali più poveri e tecnica più approssimativa.
Lucano, che scrive al tempo di Nerone, dice che le sepolture dei
Tolemei erano tutte “piramides ac mausolea” (Pharsalia, VIII, 696-97).
Un’espressione facilmente comprensibile se si considera che i Tolemei
dovevano mostrare sia un volto ellenizzante che di cultura egizia. Per
questo le loro sepolture dovevano ispirarsi o al Mausoleo di
Alicarnasso per la cultura greca o alle piramidi di Giza per la cultura
egiziana.
Ovviamente queste piramidi avevano ben poco in comune con
quelle a cui si ispiravano e dovevano sembrare molto simili alla
piramide Cestia presso Porta San Paolo a Roma. Curiosamente, sia
l’uno che l’altro modello per le tombe tolemaiche sono annoverati fra
le Sette Meraviglie del mondo. L’unica tomba nella necropoli reale che
non somigliasse né a una piramide né a un mausoleo era quella di
Alessandro Magno, costruita secondo il rito macedone come tomba a
camera (effossum descendit in antrum, ibid., X, 19) sormontata da un
grande tumulo (extructus mons, ibid., VIII, 694). Allo stesso modo, i
Tolemei si facevano ritrarre sia alla maniera greca, con tratti realistici e
con il capo cinto dal diadema, che alla maniera egiziana, con le stesse
sembianze idealizzate e gli stessi attributi degli antichi faraoni.
In sostanza la percezione della Grande Piramide da parte degli
antichi era limitata a ciò che vedevano o alle storie che sentivano
raccontare. L’enorme montagna di pietra doveva avere su di loro un
impatto formidabile che poi era il motivo per cui a sua volta era stata
costruita. Il popolo egizio doveva avere netta l’impressione di essere
governato da un dio e che non dovesse esserci limite agli sforzi e alle
fatiche per costruire al faraone la dimora della sua immortalità. In
taluni casi forse anche la superstizione giocò un suo ruolo.
Di certo la Grande Piramide fu vista e ammirata da personaggi di
37
altissimo rango come l’imperatore assiro Asharaddon, l’imperatore
persiano Cambise, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Marco Antonio,
Adriano, la regina Zenobia di Palmira, Settimio Severo e suo figlio
Caracalla, Aureliano e tanti altri.
Diversa invece è la percezione di noi moderni e della nostra civiltà
tecnologica. La vista della Grande Piramide chiaramente desta
sempre stupore e fa sorgere una quantità di domande a cui,
nonostante i moderni mezzi di indagine, è sempre difficile dare una
risposta. Ciò che interessa è il rigore geometrico per cui un lato della
piramide si congiunge con l’altro con una deviazione di 2-3 centimetri
al massimo, l’enormità del peso, il numero altissimo dei blocchi
tagliati, trasportati e messi in opera. Come è riuscita una civiltà che
aveva solo utensili di pietra o di rame a tagliare milioni di blocchi di
calcare del peso di milioni di tonnellate, e come è stato possibile
trasportarli, sollevarli e collocarli in sede usando soltanto rulli e leve?
Come è stato possibile posizionare il primo corso del quadrato di base
con tanta precisione con cordelle di misurazione piuttosto elastiche,
fatte di papiro o di fibre di lino attorte e senza poter tracciare le
diagonali essendo l’interno occupato da uno sperone roccioso che
non fu presumibilmente rasato? 8
C’è chi ha pensato che in realtà una buona parte dell’interno della
Piramide sia occupata dalla roccia che sarebbe stata inglobata nella
costruzione, ma la maggior parte degli studiosi ritiene che la roccia, se
esiste, sarebbe invece stata tagliata a gradoni su ognuno dei quali
sarebbero stati posati i vari corsi di blocchi. È difficile poi immaginare
che la Piramide contenga al suo interno una specie di pinnacolo
roccioso che geologicamente non ha molto senso.
Il taglio e la posa di ciascuno di quei blocchi, il livellamento della
base e infine il sollevamento graduale ai successivi livelli devono aver
comportato sforzi enormi, molte vittime e invalidi e un tempo molto
lungo. È stato calcolato che se fosse vero, come di fatto è probabile
che sia, che l’opera sia stata costruita in vent’anni, si sarebbe dovuto
montare un blocco da due tonnellate ogni minuto e mezzo, il che è
impossibile, a meno di non pensare a decine di migliaia di operai al
lavoro contemporaneamente, raggruppati in squadre non troppo
numerose e così ben sincronizzate da non intralciarsi le une con le
altre. Se così fosse, l’organizzazione del lavoro sarebbe una meraviglia
38
forse più grande dell’opera stessa. E se anche i blocchi fossero solo
1.200.000 e raddoppiando il tempo impiegato nella costruzione a
quarant’anni come pure si è ipotizzato, si tratterebbe comunque di
un’impresa inimmaginabile, quasi una sorta di miracolo. Clayton,
eliminata l’ipotesi di un piano inclinato, che avrebbe dovuto essere
lungo più di un chilometro, pensa, in accordo con altri studiosi, a
terrapieni di mattoni crudi che sarebbero aumentati d’altezza assieme
alla Piramide e che avrebbero fornito lo spazio necessario per le
manovre e per la presenza di centinaia di operai. 9 Se la Grande
Piramide esiste, però, questo significa una cosa sola: che gli egiziani
l’hanno costruita. Si tratta solo di capire come.
C’è anche un altro particolare che colpisce se consideriamo le tre
camere sepolcrali: la prima, scavata nella viva roccia, non ha alcuna
struttura di scarico, e questo è comprensibile proprio perché è inclusa
nella massa rocciosa del banco di calcare. La seconda, al livello
dell’inizio della grande galleria, ha soltanto due lastre spioventi. La
terza è sormontata da una struttura formidabile con cinque vani di
scarico, di cui l’ultimo a sua volta sormontato da una struttura a due
spioventi, l’unica, secondo i tecnici, veramente necessaria.
Ne deriverebbe che la camera detta “della regina” sarebbe più
“moderna” di quella detta “del re”, che invece ha cinque vani di
scarico, quattro dei quali, per i tecnici, sarebbero superflui.
È per questo che sono fiorite tante storie di pseudo archeologia,
per questo si lamenta da parte di un certo tipo di giornalismo
sensazionalistico l’ottusità della scienza ufficiale che non vuole
ammettere forze trascendenti, contatti ultraterrestri e segrete
conoscenze nascoste in stanze inaccessibili sotto la sfinge o in altri
luoghi magici.
La magia esisteva nell’Egitto delle piramidi e anche nelle ere
successive, ma si trattava di pratiche religiose tese a ottenere
determinati risultati con il favore degli dei e per lanciare maledizioni
che non hanno mai fatto male a nessuno. La magia dell’Egitto è la sua
realtà, la mole e la perfezione mirabile dei suoi monumenti, la
Piramide che per trentotto secoli fu l’edificio più alto del pianeta e il
carattere estremo della sua religione, senza la quale la Grande
Piramide non si spiega: la religione di un popolo che spendeva la
metà del suo reddito per importare dallo Yemen l’incenso verde, il più
39
prezioso in assoluto, che si comprava quasi a peso d’oro per rendere
alla divinità l’omaggio che le si conveniva.
E la spiegazione della fatica disumana di decine di migliaia di
uomini sotto il sole accecante per decine e decine di anni non sta né
in una forma di fanatismo estremo, né di credulità ingenua, ma nella
convinzione di un popolo che si crede capace di poter realizzare
l’impresa più titanica: quella di trasformare un essere umano in un
dio destinato a vivere in eterno. Esiste anche un’altra ipotesi, 10 che
non ci sentiamo di condividere, e cioè che le piramidi più antiche,
quelle di Dashur e Meydum, le necropoli a sud di Saqqara e di Giza,
non siano solo monumenti di carattere funerario-religioso ma fossero
servite come opere comuni dell’intera nazione da poco unificata con
lo scopo di cementare il paese e il popolo, che si sarebbe sentito
orgoglioso di aver realizzato tali meravigliose costruzioni.
In realtà, fra il fondatore della prima dinastia Narmer e unificatore
dell’alto e del basso Egitto (Menes secondo le liste di Manetone) e le
piramidi di Dashur ci sono quasi quattro secoli, un tempo del tutto
rispettabile, anche se limitato in confronto ai tre millenni della storia
d’Egitto. Diciamo che l’ideologia della divinizzazione del faraone andò
in parte di pari passo con l’evoluzione delle piramidi e di questo
fenomeno la Grande Piramide fu l’esempio più stupefacente e più
straordinario, mai più superato in una storia plurimillenaria, in un
certo senso il coronamento dell’ideologia della divinità del faraone
che sarebbe rimasta immutata fino alla morte di Cleopatra VII nel 30
a.C.
Il fatto che tutte le tombe reali siano state violate eccetto una
dimostra che per molti la ricchezza e l’oro valevano molto più della
fede nell’immortalità e questo è sempre accaduto e accade presso tutti
i popoli del mondo. Ed è per questo probabilmente che le piramidi
furono abbandonate dopo l’erezione dei giganti di Giza: troppo
difficili, troppo costose, ma soprattutto troppo visibili. L’avidità è
paziente e sa attendere per mesi e anni, a volte per secoli finché non si
presentino le condizioni ideali per violare lo scrigno di pietra che
contiene immense ricchezze.
Ma esiste anche un’altra spiegazione alla realizzazione della
Grande Piramide e all’accumulare tesori immensi nella tomba del
faraone o del sovrano, o dell’aristocratico. I corredi funerari, che nelle
40
culture agli albori sono uguali per tutti o al massimo diversi a seconda
del sesso, finiscono per differenziarsi in modo netto e in forma
ascendente: in basso quelli dei poveri, che si mantengono tali, in alto
quelli degli aristocratici e dei sovrani che sempre di più si distinguono
per la ricchezza e l’opulenza, fino a raggiungere livelli che hanno
dell’incredibile. Già nell’antichità c’era chi esprimeva forti critiche su
queste usanze. Erodoto (IV, 72-73) ricorda i costumi funerari degli
Sciti reali quando avviene la sepoltura del sovrano. 11 Immolano
concubine, cuochi, cavalli, strangolano decine e decine di giovani,
uccidono e imbalsamano altrettanti cavalli per formare una guardia
equestre al re defunto e depongono nella sepoltura coppe d’oro e
d’argento in abbondanza.
L’archeologia ha comprovato questi costumi, e lo scavo di tanti
kurgan fra la Tracia, il Mar Nero e l’Ucraina ha messo in luce immensi
tesori in oro che alla fine dell’Ottocento venivano abitualmente fusi
per farne lingotti. Lo stesso è attestato nelle tombe cinesi,
nell’Uzbekistan e nel Kazahstan fra popoli diversi per storia, usi e
costumi il che fa pensare a una inclinazione particolare delle società
umane. Questi tesori, il sacrificio di uomini e donne perché seguano e
servano nell’aldilà il loro signore dimostrano solo una cosa: che gli
uomini più ricchi e più potenti arrivano a convincersi di poter
conservare i loro privilegi anche nella morte e nell’oltretomba e le
classi dominanti che sono parte del loro entourage hanno tutto
l’interesse a sostenere questa convinzione come veritiera.
Il tesoro di Tutankhamon non l’avrebbe mai visto nessuno se la sua
tomba non fosse stata scavata da Howard Carter e non è nemmeno
immaginabile cosa dovessero essere i corredi funebri dei grandi
faraoni se un ragazzo di diciotto anni era circondato di tanto bagliore.
Quelle meraviglie non erano destinate a testimoniare il prestigio del
sovrano perché venivano sepolte con lui e nessuno poteva vederle.
Erano destinate a lui solo, perché nell’ideologia della sua maestà il
suo potere si perpetuava nell'oltretomba e anche i suoi privilegi.
Ora le molecole di quei tesori sono distribuite e riciclate in tutti gli
oggetti d’oro presenti al mondo e, quando gli oggetti si sono
conservati, sono stati trasferiti nei musei, esposti a sguardi che tanti
secoli fa sarebbero stati ritenuti sacrileghi.
Nel canto XI dell’Odissea, quando Ulisse incontra lo spettro di
41
Achille nell’Ade, gli dice: “… e sicuramente anche qui sei un re, hai
potere sui morti”. È lo stesso concetto del potere e del privilegio che si
perpetua nell’oltretomba, ma Achille è consapevole che l’unico bene è
la vita, non il potere e quando la vita finisce resta solo una nebbia
triste: “Io preferirei essere un contadino sotto padrone, un uomo da
nulla senza ricchezze e diseredato, piuttosto che regnare su tutte le
ombre consunte”.
Quelle semplici parole disperate sono più forti della montagna di
pietra eretta dal popolo d’Egitto attorno alla crisalide disseccata di
Cheope: sono l’espressione della consapevolezza che tutti siamo
uguali di fronte alla morte.
42
Lo Zeus di Fidia a Olimpia
La descrizione più estesa ed efficace dell’Altis di Olimpia ce l’ha
lasciata Pausania nella sua Perieghesis (libro VI), una guida coltissima
e attenta delle meraviglie dell’Ellade, ed è qui la più estesa descrizione
della terza Meraviglia del mondo antico: la colossale statua
crisoelefantina di Fidia all’interno del tempio di Zeus Olimpio.
Opere di questo tipo erano tanto spettacolari quanto fragili e
delicate, al punto che non ne è pervenuta alcuna fino a noi, a meno
che non vogliamo prendere in considerazione come simili le maschere
di Apollo e Artemide – in pietra ma con capelli e accessori in oro –
conservate al Museo archeologico nazionale di Delfi.
Lo stile arcaico di queste immagini ci testimonia il gusto per la
policromia presente nel mondo antico fin dalle prime stagioni dell’arte
e in particolare della scultura. Benché ormai nessuno creda più a una
classicità di candido marmo quale Winckelmann ce l’aveva
rappresentata, va ricordato che la policromia aveva un senso anche
pratico. Immagini scolpite nel marmo bianco nel sole mediterraneo
avrebbero perso i contorni e la plasticità.
Inoltre, le statue più antiche in assoluto, gli xoana, erano di legno
(di olivo la maggior parte) e le fonti sogliono ricordare queste
immagini come segno di grandissimo prestigio e dell’età veneranda di
un santuario. Gli xoana erano certamente dipinti e a nostro avviso
non si può escludere che le statue crisoelefantine fossero
concettualmente provenienti dagli xoana come loro versione più ricca.
Si può immaginare infatti che gli xoana fossero dipinti in colore chiaro
nelle membra, con l’uso di madreperla per gli occhi e metallo prezioso
(oro o argento) per i capelli e gli accessori.
La tecnica delle statue crisoelefantine si può interpretare come un
arricchimento degli xoana utilizzando l’avorio e l’oro per una resa più
spettacolare dell’immagine, ma si può configurare una evoluzione
indipendente da seguire attraverso materiali di vario genere utilizzati
in epoche successive come terracotta e marmo. I cicli statuari
43
marmorei di Olimpia portano ancora le grappe a cui erano assicurate
le parti metalliche (scudi, elmi, corazze, schinieri) mentre, ovviamente,
la policromia delle superfici è perduta. Tranne nel caso di recenti
scoperte come i sarcofaghi del Museo archeologico di Çanakkale in
Turchia, dove è possibile ammirare scene di caccia con i colori quasi
perfettamente conservati.
C’è chi ritiene 1 che le origini delle statue crisoelefantine siano in
Oriente e spesso vengono citate due placchette d’avorio di origine
siro-fenicia di squisita fattura, una del British Museum e una
(ammesso che non sia andata perduta con i saccheggi della guerra del
1990) dell’Iraki Museum. Le due placchette rappresentano una
leonessa in un ambiente egittizzante di steli e fiori di loto che azzanna
un giovane etiope alla gola. Il ragazzo è già a terra, indossa una
tunichetta laminata d’oro, molto aderente, tanto da sembrare un paio
di calzoni, ed è a torso nudo. Pure i capelli sono dorati e anche i fiori
di loto hanno una doratura. Stiamo parlando comunque di
un’immagine di pochi centimetri dove l’oro è un colore, non un
elemento plastico come nelle statue crisoelefantine.
Pausania (VII, 18, 9) ricorda invece una statua di avorio e oro di
Artemide Lafria che Augusto, dopo la battaglia di Azio, fece togliere a
Calidone e donare a Patrasso. Riproduceva la dea in veste di
cacciatrice ed era opera di Menecmo e di Soidas di Naupatto, “vissuti
non molto dopo Canaco di Sicione e Callon di Egina”. Ora, siccome
Canaco di Sicione è datato come floruit intorno al 500 a.C., dobbiamo
dedurre che i due autori dell’Artemide di Calidone fossero attivi nei
primi due decenni del V secolo. 2 Si può pensare quindi che questo
tipo di immagini si fossero affermate durante il VI secolo, forse per
opera di maestranze ioniche portatrici di influssi orientali, ma che
avevano sviluppato una tecnica originale, non solo policroma ma
anche polimaterica.
La tecnica costruttiva delle statue crisoelefantine monumentali ci è
descritta da Pausania: a un grande manichino di legno venivano
applicate, come in una lastronatura, le parti sia in avorio che in oro,
probabilmente fissate con rivetti o con chiodi. Una tecnica non tanto
dissimile si può ancora trovare in certe statue di madonne e di santi
nel meridione d’Italia dove si ha un manichino di legno con il volto e
44
le mani di ceramica o di cera policroma mentre il resto è coperto dalle
vesti e dalle calzature.
Nelle statue crisoelefantine le parti in oro venivano smontate ogni
anno per pesarle e controllare se fossero state limate per sottrarre
polvere del prezioso metallo. Sappiamo che nella statua dell’Athena
Parthenos dentro il Partenone era stata impiegata una tonnellata
d’oro (40 talenti secondo Thuc., II, 13). Quelle statue costituivano
quindi anche delle riserve finanziarie per i casi di emergenza. Fidia
addirittura fu accusato di aver lucrato sull’acquisto dell’oro e messo
sotto processo; erano gli anni in cui ad Atene l’opposizione
all’egemonia politica di Pericle, non potendo colpire il leader, ancora
troppo potente, colpiva le persone più importanti del suo entourage
come Aspasia e appunto Fidia.
Il grande scultore aveva realizzato nel 438 a.C. su commissione di
Pericle la statua di culto del Partenone, ossia l’Athena Parthenos
(vergine), di cui possediamo un’accurata descrizione di Pausania (I,
24, 5-7) e forse anche una riproduzione in una famosa statuetta
proveniente dal Varvakeion conservata al Museo archeologico
nazionale di Atene, 3 le cui caratteristiche corrispondono
sostanzialmente alla descrizione di Pausania.
La statua era alta 12 metri e rappresentava la dea in posizione
stante vestita del peplo con la gorgone sul petto. La sua mano sinistra
era appoggiata sullo scudo che toccava terra con l’orlo inferiore,
mentre la destra reggeva una Nike alata di grandezza naturale. Sul
capo calzava un elmo attico, sormontato da tre creste di crine rette da
una sfinge al centro e due pegasi ai lati. 4 Ai piedi indossava sandali
con la suola adorna di sculture in bassorilievo rappresentanti
un’amazzonomachia. Il volto, il petto, le braccia, le mani e i piedi
erano in avorio; l’elmo, il peplo, i sandali, la lancia e lo scudo di 3
metri di diametro erano in lamina d’oro. È probabile che gli occhi
fossero in madreperla e la pupilla in pietra dura.
È bene ricordare che il culto avveniva sempre fuori dal tempio dove
sorgeva l’altare, a causa del carattere cruento dei sacrifici, mentre
l’interno era inteso come la dimora stessa della divinità, la sua casa
presso gli uomini.
All’esterno, sulla sinistra guardando la facciata del Partenone,
sorgeva un’altra statua gigantesca di Athena Promachos
45
(combattente) tutta di bronzo e anch’essa opera di Fidia, 5 a eccezione
dello scudo istoriato che era opera di Mys, uno straordinario
cesellatore più che uno scultore (Paus. I, 28, 2). Fidia diresse inoltre
l’esecuzione dell’intero ciclo scultoreo che adornava il Partenone: i
frontoni, le metope e la fascia scolpita e continua della cella che
raffigurava la processione delle Panatenee, la festa più importante
dell’anno liturgico ateniese, ora in possesso del British Museum.
Questo dunque era l’uomo che fu chiamato a Olimpia a
rappresentare in un colosso crisoelefantino il padre degli uomini e
degli dei assiso in trono con il capo cinto da una corona di alloro, e in
mano lo scettro con un’aquila sulla sommità. Un uomo al culmine
della sua carriera artistica, creatore di uno stile e di una estetica che
ancora oggi sono fra i pilastri culturali della civiltà dell’Occidente: lo
stile classico che ha nell’armonia, nella solennità dell’espressione e
degli atteggiamenti, nella perfezione dei volti e dei profili, nella
spontaneità misurata dei gesti, nell’equilibrio dei volumi e delle forme
il suo concetto della dignità dell’essere umano, della nobiltà della sua
intelligenza e del suo sguardo, della grandezza dei suoi intenti e dei
suoi ideali di organizzazione della società.
Pausania, al tempo dell’imperatore Marco Aurelio (174 d.C.), vide
un edificio, non lontano dal santuario di Zeus, verso Occidente, che
era ritenuto il laboratorio di Fidia (Paus. V, I, 14).
Pausania, come era giusto, credette che fosse vero benché fossero
passati sei secoli da quando il grande artista ateniese aveva portato a
termine il gigante che un giorno sarebbe stato annoverato fra le Sette
Meraviglie del mondo.
Dapprima dovette realizzare il progetto: prendere le misure dello
spazio interno del tempio, dell’altezza dal pavimento al soffitto,
riportare in scala la collocazione della statua e forse anche costruire
un modellino per rendersi conto del rapporto fra i volumi.
Poi mise mano all’anima di legno della statua, che ne definiva i
confini, l’altezza, la dimensione del piedistallo, l’ingombro del trono,
l’aggetto delle mani e delle ginocchia, il volume e l’inclinazione della
testa laureata.
Non sappiamo esattamente come fosse fatto il supporto ligneo
nella statua di Fidia: se si trattava semplicemente di un traliccio
realizzato con tante travi incrociate o se si trattava di un grande
manichino che rappresentava in scala definitiva l’abbozzo di un
46
modello in piccola scala. Sembrerebbe più probabile la seconda
ipotesi, visto che dovevano esserci delle superfici a sostenere i
rivestimenti in placche d’avorio e in lamina d’oro martellata su modelli
in terracotta prima disegnati dal maestro e non solo dei punti di
imbastitura. Di questi modelli in terracotta si sono trovati esemplari
nell’atelier di Fidia individuato a poca distanza dal tempio verso
sudovest. Ovviamente, se accettiamo l’idea di un supporto ligneo,
doveva trattarsi di una forma grezza ma perfetta dal punto di vista
dell’ingombro. È possibile che all’interno del modello ligneo vi fossero
anche dei tiranti di cuoio o di canapa o altra fibra che mantenevano
tensione fra tutte le parti più distanti della statua tramite
manganatura, per evitare torsioni, crepe o sbilanciamenti. Ed è anche
possibile che a questo scopo venissero posti in opera dei travi in legno
fissati sulle pareti a incastro e picchetti di legno nel senso dell’altezza,
della larghezza e delle diagonali.
Da questo intrico di travi e tiranti dovette venire la descrizione di
Luciano (Il Gallo, 24): “Ciascuno di questi (colossi), infatti, dal di fuori
è o uno Zeus bellissimo, fatto d’oro e d’avorio, con un fulmine o un
lampo o un tridente nella destra, ma se ti chini a guardare l’interno,
vedrai stanghe, puntelli, chiodi conficcati da parte a parte, travi,
cunei, pece, creta e molta bruttura simile nascosta dentro, e tralascio
di dire quante sono le mosche e i topi che talvolta vi dimorano”.
D’altra parte, solo il bronzo sopportava torsioni e fuori piombo dei
pesi, gli altri materiali erano soggetti a cedimenti. Ed è sicuramente
per questo che sia l’Athena Parthenos sia lo Zeus di Olimpia avevano
posture molto compatte, inscrivibili l’una in un cilindro, l’altro in un
parallelepipedo.
Se una simile struttura, impietosamente descritta dal caustico
Luciano come un ricettacolo di topi e di mosche, venisse disegnata
oggi al computer, avrebbe l’aspetto di un trabecolato completato solo
in un secondo momento con delle superfici, ma non possiamo
escludere che una simile procedura costruttiva fosse stata ottenuta a
mano a forza di misurazioni, un po’ come faceva Canova per
realizzare i suoi gessi. È possibile che le “brutture” di cui parla
Luciano fossero anche rimasugli di cantiere abbandonati alla rinfusa
dopo la fine dei lavori o attrezzi e materiali ammucchiati per eventuali
interventi di riparazione. Il contrasto fra esterno e interno è
comunque reso molto efficacemente.
47
Di alternative però non ve ne sono tante: la più probabile a nostro
avviso è quella di una statua grezza in legno fatta di blocchi
grossolanamente sagomati fatti aderire l’uno all’altro a incastri con
l’aiuto forse di perni a mo’ di grappa o di picchetti di legno a pressione
(i chiodi passanti di Luciano), poi sbozzata all’esterno più
accuratamente per poter essere rivestita con precisione dalle placche
di avorio e dalle laminature in oro, quindi svuotata all’interno il più
possibile con l’uso di scalpelli e sgorbie, non soltanto per alleggerire la
struttura, ma per contenere i movimenti del legno vivo e per
compensarli con opportune apparecchiature. Solo così si spiega
infatti l’impressione sgradevole di Luciano. Ma quel “nido per topi” in
realtà era un’opera molto più difficile, sofisticata e impegnativa di
qualunque statua in marmo e anche in bronzo.
Non a caso la realizzazione richiese cinque anni di lavoro.
A parte, probabilmente, si creavano i vari elementi in terracotta
disegnati dal maestro, su cui sarebbero state martellate le lamine
d’oro per i panneggi, mentre gli aiuti sulle impalcature lastronavano
con placche di avorio le superfici scoperte del corpo del dio. L’intera
struttura doveva pesare di per sé svariate tonnellate, benché svuotata
all’interno il più possibile, perché, come si è detto sopra, doveva
anche essere stabilizzata con distanziali e puntelli in legno duro e
molto stagionato, come quercia o faggio, o forse anche tiranti di cuoio
e canapa manganati.
A mano a mano che l’opera procedeva l’enorme macchina si
appesantiva sempre di più per l’aggiunta dell’oro, dell’avorio, delle
numerose pietre dure e della pasta di vetro con cui si creavano le
decorazioni del mantello.
Le parti in lamina d’oro, come già accennato, venivano applicate in
modo tale da poterle smontare per controllarne il peso.
La preziosa testimonianza di Pausania ci fa sapere che il colosso
assiso in trono veniva costantemente e abbondantemente unto con
olio di oliva, non certo per lucidarlo ma per impregnarne l’avorio e
impedire il più possibile che si fessurasse in tante piccole crepe che
con il tempo si sarebbero allargate sempre di più fino a far perdere al
prezioso materiale le sue caratteristiche. Per l’oro ovviamente non
esisteva il problema, ma è probabile che l’olio penetrasse il legno
sottostante difendendolo dall’umidità, stabilizzandolo e contrastando
in tal modo i movimenti del massello.
48
Il basamento ha lasciato la sua impronta nel pavimento della
navata centrale del tempio, per cui ne conosciamo perfettamente le
dimensioni: largo 6,65 metri di fronte, lungo 10 e alto circa un metro.
L’altezza della statua era fra i 12 e i 13 metri, come una casa di quattro
piani; se contiamo anche il piedistallo, 14. Le dimensioni erano tali
che Strabone (VIII, 3, 30) ebbe a scrivere che se il dio rappresentato
nella statua si fosse alzato in piedi avrebbe sfondato il tetto.
Evidentemente Fidia aveva ritenuto di costruire un’immagine senza
curarsi che fosse proporzionata al tempio che la conteneva e
preoccupandosi soltanto di farne un oggetto di straordinario impatto
sul visitatore.
L’opera fu probabilmente realizzata in situ (cioè all’interno del
tempio) per quanto riguarda la sagoma in legno, mentre nel
laboratorio del maestro furono certamente creati i modelli di membra
separate o di particolari di grande importanza (pensiamo all’aquila,
alla Nike, allo scettro, alla corona d’alloro, alle mani, ai piedi, alla
barba e ai capelli, ai panneggi del mantello). Ogni pezzo veniva
numerato e poi assemblato all’interno del tempio con l’aiuto di una
poderosa impalcatura che consentisse l’accesso ai vari livelli
dell’enorme cantiere. Per questi ingombri straordinari il tempio
dovette essere inagibile al pubblico per molti anni.
Terminata la sagoma si procedette a svuotarla all’interno, non
tanto perché il peso della statua intera avrebbe sfondato il pavimento
dell’atelier, 6 ma per ridurre gli spessori del massello, e di conseguenza
i movimenti del legno, e ricavare all’interno lo spazio per poi applicare
i dispositivi atti a compensare le dilatazioni e le ancora più pericolose
torsioni. È ovvio che se il legno di cui era fatto il colosso avesse subito
dilatazioni, contrazioni o torsioni, le placche di avorio si sarebbero
fessurate o addirittura staccate e poi sarebbero cadute sul pavimento.
Il legno vivo in espansione sviluppa una potenza enorme, basti
pensare che gli antichi egizi quando tagliavano i giganteschi monoliti
degli obelischi creavano lungo il banco di granito delle fessure in cui
inserivano cunei di legno molto secco che poi bagnavano. I cunei
gonfiavano e spaccavano il granito lungo la linea di fessurazione. Ciò
significa una pressione di centinaia di tonnellate.
Alcuni suggerimenti ci vengono dallo scavo dell’atelier di Fidia 7 che
già nel II secolo d.C. era stato mostrato a Pausania durante la sua
49
visita a Olimpia. Si trovava a sudovest del tempio di Zeus, a circa
duecento metri, e gli scavi hanno messo in luce frammenti di pasta
vitrea, di pietre dure, di avorio, stampi di panneggio in terracotta e un
certo numero di strumenti, in particolare scalpelli e raspe, 8 adatti per
la lavorazione del legno, il che fa pensare appunto allo svuotamento
della parte lignea dello Zeus. Il ritrovamento di una coppa con
l’iscrizione “Feidiou eimì” (sono di Fidia) 9 toglie ogni dubbio residuo.
Da ultimo, furono applicate le placche di avorio sagomato, fissate
al legno con chiodi e rivetti. Una volta in opera, vennero rifinite e
corrette e poi l’intera statua fu levigata e lucidata.
Non sapremo mai che cosa abbia provato il maestro quando
finalmente poté ammirare il suo lavoro finito, né sapremo mai a che
ora del giorno o con che luce abbia voluto ammirarlo, ma quel
momento passò comunque nella leggenda.
L’interno di un tempio dorico era abbastanza scuro; Fidia l’aveva
sempre saputo e doveva aver dosato l’oro e l’avorio tenendo conto di
quella illuminazione. I pellegrini avevano in ogni caso la possibilità di
salire al piano di sopra, in cui era ricavato un portico, tramite una
scala a chiocciola. Questa loggia al primo piano consentiva di
ammirare la parte superiore della statua più comodamente e di
contemplare il volto del dio da vicino.
Zeus appariva al visitatore seduto in trono: era quasi a torso nudo
e il manto gli copriva la spalla sinistra, il grembo, le ginocchia e le
gambe, fino ai piedi che calzavano sandali e poggiavano su uno
sgabello sorretto da due leoni. Il manto era decorato con figure di
animali e con gigli in pasta vitrea colorata per farli risaltare sul fondo
d’oro. Il dio aveva il capo eretto incoronato d’alloro come gli atleti
olimpici e gran parte della statua sfavillava d’oro con riflessi cangianti
a seconda della luce, dei colori e delle ombre proiettate all’interno dai
raggi del sole. Nella mano sinistra teneva uno scettro sormontato da
un’aquila, nella destra una Nike, presumibilmente in grandezza
naturale, anch’essa in avorio e oro.
Il basamento faceva in un certo senso parte a sé. Le sue superfici
piane in marmo blu di Eleusi presentavano una decorazione a
bassorilievo anch’essa molto ricca e varia, con le figure in oro che
dovevano risaltare potentemente sul fondo scuro. Rappresentavano le
50
maggiori divinità dell’Olimpo, il carro solare, la Luna, Zeus ed Hera,
Afrodite.
Non sappiamo di quale materiale fosse fatto il trono, ma è
probabile che fosse di legno massello, eventualmente con rinforzi
metallici dato il peso della statua. Pausania dice che era riccamente
ornato (poikiloò) con oro e ogni genere di pietre, e inoltre con ebano e
avorio (V, 11, 2). Insomma una policromia ricchissima, che al gusto di
noi moderni apparirebbe forse eccessiva, ma bisogna sempre tenere
presenti la temperie culturale dell’epoca e le esigenze dei committenti
che, in tutte le epoche, da un lato hanno reso possibile la
realizzazione di opere straordinarie, dall’altro hanno sempre
interferito con le intenzioni degli artisti.
Vi sono inoltre sia immagini dipinte (grafe memimemena) che in
rilievo (agalmata eirgasmena). Quattro Nikai sono rappresentate su
ciascuno dei quattro piedi in forma di donne danzanti e altre due alla
base di ciascun piede. È un po’ difficile interpretare questo passo della
descrizione di Pausania; si dovrebbe pensare a quattro Nikai sulla
faccia esterna dei quattro piedi del trono e altre due alla base,
presumibilmente delle due facce anteriori, ma nella parte bassa
perché la maggior parte dei due frontali (ton podon… ten emprosthen)
doveva essere riservata alle scene tebane: vi si vedevano infatti
fanciulli tebani assaliti da sfingi mentre sotto le sfingi c’era la scena di
Apollo e Artemide in atto di trafiggere con le loro frecce i figli di
Niobe.
Le gambe del trono, pare di capire, erano tenute insieme da
quattro traverse che s’incastravano ciascuna su due piedi ed erano
anch’esse decorate. La traversa che guardava l’ingresso, cioè quella
che univa i due piedi anteriori del trono, aveva sette figure mentre
un'ottava era mancante.
Pausania diceva che vi fossero rappresentate delle scene di giochi
che non erano ancora in uso all’età di Fidia e che una di queste figure,
che rappresentava un giovinetto in atto di cingersi un nastro attorno
ai capelli, somigliasse molto a Pantarce, un ragazzo di Elide di cui
Fidia era l’amante e che aveva vinto la gara di lotta per ragazzi nella
LXXXVI Olimpiade.
Il passo di Pausania anche qui è poco chiaro perché l’autore della
Perieghesis sapeva benissimo che le competizioni dei ragazzi a Olimpia
erano già in voga da più di un secolo e mezzo al tempo di Fidia. Per
51
questo c’è chi l’ha interpretato in un altro modo e cioè nel senso che
“Pantarce non aveva ancora raggiunto l’età di un ragazzo al tempo di
Fidia”. 10
Si tratterebbe quindi non tanto di una considerazione riguardo al
vincitore di una gara nelle Olimpiadi per ragazzi, ma di un’allusione a
un rapporto di Fidia con un ragazzo che non aveva ancora raggiunto
la pubertà, il che costituiva reato grave, in quanto il bambino non
aveva facoltà di scegliere consapevolmente di avere un rapporto con
un adulto. Clemente Alessandrino narra che su un dito dello Zeus di
Olimpia c’era scritto “Pantarkes kaloò” cioè “Pantarce (è) bello”: ossia
una dichiarazione d’amore di Fidia per il ragazzo. 11
Ma quanto grande era un dito di Zeus? Quello di un uomo
normale è lungo circa 8 centimetri. Se facciamo una proporzione e
consideriamo che la statua fidiaca fosse alta fra i 12 e i 13 metri, un
suo dito sarebbe stato lungo poco meno di un metro: un’enormità.
Il San Carlo Borromeo di Arona, che è alto 23 metri (quasi il
doppio dello Zeus), ha dita della lunghezza di 1,95 metri.
C’è poi un altro particolare importante del complesso dello Zeus: le
balaustre dipinte dal grande pittore Paneno (Panainoò), fratello di
Fidia secondo Pausania, suo nipote secondo Strabone. Queste
separavano l’area su cui sorgeva la statua dal resto del tempio, dove si
può pensare si accalcassero i visitatori. La prima impressione che essi
ricevevano era di trovarsi al cospetto di un essere vivente, sia per
l’imponenza quasi scioccante della statua, sia per la policromia che la
rendeva in qualche modo “reale”. L’avorio era quanto di più simile si
sarebbe potuto utilizzare per simulare l’epidermide, il volto era
sicuramente la parte più impressionante, con barba, baffi, occhi
colorati, labbra tinte con il cinabro (nelle statue bronzee dei due
guerrieri di Riace e nel pugile delle terme si è utilizzata invece lamina
di rame), sopracciglia, capelli a cascata.
Uno dei pezzi più clamorosi del Museo archeologico di Cirene è
una testa di Zeus di età adrianea in marmo policromo di evidente stile
fidiaco, dove la voluminosità delle chiome e della barba richiama in
modo impressionante le descrizioni che fanno Strabone e Pausania
dello Zeus di Olimpia. Data la grande passione di Adriano per l’arte
greca e in particolare fidiaca (un’amazzone di Fidia è in copia
marmorea nella villa di Tivoli), si potrebbe forse pensare che lo stesso
52
imperatore abbia voluto quella copia in scala minore da dedicare
magari nel tempio di Zeus sull’acropoli, ricostruito dagli archeologi
italiani che lo stanno completando negli ultimi particolari.
La testa fu rinvenuta frammentata in un centinaio di pezzi e
ricomposta magistralmente dai restauratori italiani in modo da
sembrare quasi perfetta. La straordinaria qualità e intensità dell’opera
fa appunto pensare a una copia del più famoso volto di Zeus che
esistesse allora al mondo: quello di Olimpia. 12
Tornando a Paneno, sappiamo che aveva dipinto le balaustre con
una quantità di soggetti mitologici: diverse fra le fatiche di Ercole, tra
cui quella famosa che lo vede lottare con il leone di Nemea, ma anche
altre come quella in cui si accinge a sostituire Atlante nel reggere il
cielo stellato e quella in cui si batte con l’aquila che divora il fegato a
Prometeo. Sono rappresentati inoltre Teseo e Piritoo nelle loro
imprese, ma anche Aiace Oileo in atto di stuprare Cassandra, un
tema oscuro, preso molto probabilmente da uno dei poemi del ciclo,
la Ilioupersis (la caduta di Ilio), e ancora, sempre da un poema del
ciclo (l’Etiopide?), l’amazzone Pentesilea che, uccisa da Achille, giace
esanime fra le sue braccia.
Doveva trattarsi di un ciclo pittorico straordinario perché Paneno
era uno dei pittori più famosi del suo tempo e aveva dipinto la
battaglia di Maratona nel portico Pecile (stoà poikilè), che significa
“portico dipinto, decorato”: uno dei monumenti più famosi di tutta
Atene.
Nella balaustra erano raffigurate inoltre le nozze di Piritoo e
Ippodamia, a cui erano stati invitati anche i centauri che però,
ubriachi, cercarono di violentare le donne dei Lapiti. Questa scena era
rappresentata anche all’esterno, nel frontone occidentale, con
l’apparizione al centro della figura di Apollo che tende il braccio per
sedare la mischia. Nel frontone orientale, invece, c’era la scena
precedente la partenza della corsa dei carri di Enomao (padre di
Ippodamia) e di Pelope, il tredicesimo pretendente. Gli altri dodici
erano già stati uccisi e le loro teste inchiodate al portone della reggia
di Enomao. Pelope però aveva corrotto l’auriga di Enomao, Mirtilo,
promettendogli la prima notte d’amore con Ippodamia. Mirtilo
sostituì i perni di ferro delle ruote con perni di cera, che cedettero, ed
Enomao fu trascinato dai cavalli sulle rocce e fatto a pezzi. Pelope,
53
tuttavia, non mantenne la promessa fatta a Mirtilo per cui la sua
progenie fu maledetta.
È impressionante che proprio sul frontone del tempio di Zeus a
Olimpia, dove la lealtà doveva essere la virtù suprema e assoluta,
venisse rappresentato l’episodio di una gara sanguinaria vinta con
l’inganno e la corruzione.
La corsa di Enomao era lunga e accidentata: partiva da Olimpia e
terminava all’altare di Poseidone a Corinto. Al pretendente di sua
figlia, bella da stordire, lasciava un vantaggio: il tempo che impiegava
a immolare un ariete a Zeus. Poi il re Enomao partiva frustando i
cavalli velocissimi che Ares in persona gli aveva donato, invincibili.
Alla fine, immancabilmente, giungeva a ridosso del suo avversario
prima della meta, gli piantava una lancia nella schiena, lo decapitava
e riportava la testa a Olimpia per inchiodarla alle porte del suo
palazzo.
Era mai possibile che una storia tanto crudele e tanto brutale
dovesse essere rappresentata in un luogo fra i più sacri dell’Ellade?
Qual era mai il significato? Il luogo dell’armonia suprema, della
bellezza allo stato puro doveva anche ricordare a tutti da dove
veniamo, doveva ricordare che la competizione era stata all’origine
soltanto scontro bestiale e sanguinoso, membra maciullate, urla di
dolore, di odio e di follia.
Il tempio comunque era una incredibile concentrazione di arte allo
stato supremo, sia all’esterno che all’interno, dove dominava il padre
degli dei assiso in trono. Il formidabile complesso frontonale, benché
frammentato, è in gran parte conservato: quarantadue statue di
uomini e donne, guerrieri e mostri, dei e dee presenti ma non
partecipi delle vicende umane, ci trascinano in un vortice di passioni
primordiali, di sete di potere, di concupiscenza, di violenza efferata e
brutale.
I due cicli statuari rappresentati sui frontoni ci sono pervenuti in
buona parte conservati: mancano alcuni elementi, i colori, gli
accessori metallici (corazze ed elmi, schinieri, lance e scudi lucidati a
specchio) e l’interagire di tutto ciò con il sole ellenico, la luce piena e
limpida. Per farcene un’idea bisogna immaginare, fatte salve le
fortissime differenze cronologiche e stilistiche, certi cicli di ceramica
policroma nello stile dei della Robbia, come per esempio l'imponente
fregio con figure in grandezza naturale che si può ammirare sulla
54
facciata dell’Ospedale del Ceppo a Pistoia, o certi gruppi
monumentali in terracotta policroma del primo Rinascimento.
Ma che ne fu dello Zeus di Fidia? Sopravvisse alla civiltà che lo
aveva creato? Purtroppo le nostre fonti sono scarse e avare. Sappiamo
da Svetonio (Calig., 22) che Caligola aveva dato ordine di portarlo a
Roma. L’imperatore non visse abbastanza da vedere realizzata una
simile assurdità, per fortuna, ma se diede l’ordine significa che la
statua esisteva ancora e che quindi aveva ricevuto fino a quel tempo
la manutenzione necessaria, che doveva essere frequente e accurata
per le ragioni che abbiamo esposto prima. Al tempo di Caligola lo
Zeus esisteva da quasi cinquecento anni, un tempo enorme per un
oggetto tanto delicato e fragile.
Oggi abbiamo in mostra nei nostri musei opere d’arte che hanno
ben oltre i trenta secoli di età, ma si tratta di oggetti di marmo, pietra,
oro, bronzo, che in teoria possono durare per un tempo indefinito.
Diverso è il caso dello Zeus di Fidia che, come abbiamo visto, era
opera estremamente complessa e fatta di materiali come il legno e
l’avorio che tendono a deperire e (soprattutto l’avorio) a perdere le
loro caratteristiche.
Dopo l’accenno alla richiesta di Caligola non abbiamo altre
testimonianze, ma è ragionevole pensare che la statua sia rimasta al
suo posto almeno fino all’età di Costantino. L’imperatore, che
promulgò con il collega Licinio l’editto di Milano del 313 d.C.,
concesse e garantì a tutti i cittadini dell’Impero la libertà di culto, e
dunque anche ai seguaci della religione olimpica, benché
personalmente avesse fatto la sua scelta a favore del cristianesimo. Le
cose cambiano con le leggi teodosiane del 398 d.C. con cui il
cristianesimo diventa religione di stato e i culti pagani vengono
proibiti. Da quel momento, chi veniva sorpreso a offrire sacrifici a un
dio pagano era passibile di pena di morte. I perseguitati, una volta
raggiunte le stanze del potere, si erano presto trasformati in
persecutori. Ad Alessandria, nel 415 d.C., il linciaggio e il massacro di
Ipazia, colpevole solo di essere donna, di essere bella, colta e
indipendente, avvenne proprio in questa temperie di intolleranza e
fanatismo religioso.
La legge venne interpretata in modi assai diversi a seconda dei
luoghi e dei magistrati che l’applicavano. In moltissimi casi i
monumenti e le immagini del mondo classico vennero distrutti in
55
quanto manifestazioni impudiche e personificazioni del demonio
(Clemente Alessandrino, IV, 46 ss.). Ma il colpo di grazia alle memorie
del mondo classico fu inflitto da Teodosio II il 14 di novembre del 435
d.C. quando emanò un decreto con cui ordinava di distruggere tutti i
templi pagani esistenti e di decapitare tutte le statue e le immagini
degli idoli. Questo, per esempio, fu il destino che toccò ai santuari di
Olimpia e alle centinaia di nudi atletici che ci sono pervenuti solo
tramite copie romane in marmo. E se per una sorta di miracolo tanti
capolavori, pur danneggiati, si sono salvati è dovuto semplicemente al
caso. Basti pensare al gruppo marmoreo dell’Hermes detto “di
Prassitele” che per molti critici è un originale, anche se per altri si
tratterebbe, invece, della copia marmorea di un originale in bronzo
andato perduto.
In questo panorama desolato che cosa accadde dello Zeus di Fidia?
Apprendiamo da una testimonianza di Giorgio Cedreno (Hist. Comp.,
p. 32 B), storico bizantino del XII secolo, che un alto funzionario
dell’Impero bizantino, praepositus sacri cubiculi di nome Lauso, aveva
un palazzo e una galleria d’arte in cui conservava, evidentemente con
il permesso dell’imperatore, grandi capolavori fra cui l’Afrodite Cnidia
di Prassitele e lo Zeus di Fidia. 13 Lauso morì nel 435 e non sappiamo
che fine abbia fatto la sua galleria. Forse la salvò proprio Teodosio II?
Quello che è certo è che nel 475 Costantinopoli fu in gran parte
devastata da un terribile incendio e in quell’occasione andò distrutto
anche il palazzo di Lauso che doveva trovarsi, secondo la
maggioranza degli studiosi, vicino al lato occidentale dell’ippodromo.
Con l’incendio, dunque, ammesso che fosse ancora integra,
certamente andò distrutta anche la sua preziosa collezione.
Lo Zeus aveva superato indenne otto secoli di rivolgimenti, guerre,
scontri di religione, invasioni e terremoti; forse era stato trasportato a
Costantinopoli da un imperatore di mentalità eclettica (Costantino?)
proprio per salvarlo e l’operazione di trasporto dovette essere
incredibilmente complessa. Di certo dovette essere smontato, almeno
in parte, il che confermerebbe che la forma lignea era fatta di blocchi e
segmenti modellati all’esterno, svuotati e scalpellati all’interno, tenuti
insieme da caviglie di legno martellate a pressione e forse anche da
incastri. In primis perché non sarebbe passato dalla porta del tempio
e poi, quand’anche fosse stato aperto un varco, non sarebbe stato
56
possibile trasportare intera una statua alta 13 metri e pesante molte
tonnellate, né per terra né per mare. Dovette poi essere rimontato una
volta giunto a destinazione, con un’operazione in tutto simile a quella
della sua costruzione.
Di un’impresa tanto impegnativa non abbiamo la minima notizia,
ma se la statua si trovava a Costantinopoli nel IV secolo
evidentemente il trasferimento doveva essere stato effettuato con
successo. Una delle opere più straordinarie di tutti i tempi, una delle
Sette Meraviglie del mondo, venne dunque a trovarsi nella capitale
dell’Impero Romano d’Oriente, il che avrebbe potuto garantirle
ancora secoli di sopravvivenza. Così non fu, e il gigante fidiaco che
aveva incantato generazioni e generazioni sparì in pochi minuti in un
vortice di fiamme.
57
Il Colosso di Rodi
Il Colosso di Rodi è forse la più affascinante delle Sette Meraviglie del
mondo antico, e una delle più misteriose. Non che manchino le
notizie su quest’opera, anzi, ma le difficoltà di interpretazione sono
sempre molto elevate, specialmente per i testi di carattere tecnico
come quello di Filone di Bisanzio, nostra fonte di riferimento. 1 Filone
era un ingegnere, e quindi in teoria particolarmente affidabile, ma se
parliamo di un’opera come il Colosso di Rodi dobbiamo considerare
che le tecniche coinvolte non sono soltanto quelle di carattere
strutturale. Il Colosso era prima di tutto una statua, quindi
coinvolgeva la scultura e l’arte tout court; la statua era di bronzo e
perciò la sua realizzazione chiamava in causa la tecnica bronzistica;
ma era anche struttura muraria e quindi implicava la tecnica
costruttiva.
La parola “kolòssos”, di matrice dorica in quanto Rodi era una
colonia di Argo, era in effetti un termine indigeno del mondo
microasiatico che indicava degli idoletti aniconici. 2 Questi
rappresentavano il doppio di qualcuno, un po’ come il ka in Egitto, e
venivano usati per gettare una maledizione o come forma di magia
bianca per operare guarigioni.
Con quel termine in seguito si indicarono le statuette votive che i
fedeli dedicavano nei santuari, cioè oggetti di pochi centimetri.
Successivamente, con il termine “kolòssos” si finì per indicare
qualunque statua 3 e finalmente la statua per eccellenza: il gigante di
bronzo che rappresentava il dio Helios, patrono dell’isola e della sua
capitale, clamorosa realizzazione di uno scultore di nome Carete di
Lindo, discepolo del grande Lisippo, l’unico scultore dal quale si
facesse ritrarre Alessandro Magno.
Lisippo era un uomo che veniva dalla gavetta, nel senso che era
stato un operaio fonditore e si era sporcato e bruciato le mani nelle
officine dei bronzisti. Era anche un grande innovatore nel gusto e
58
nella composizione, così come lo era il suo omologo nella pittura,
Apelle, anche lui esclusivo autore di qualunque opera pittorica che
ritraesse Alessandro per volontà stessa del condottiero macedone
(famosa quella che lo ritraeva con in mano il fulmine esposta
nell’Artemision di Efeso).
Sappiamo che Lisippo aveva compiuto opere impressionanti per
composizione e per qualità, come per esempio il gruppo perduto della
“carica del Granico”, che ritraeva Alessandro con i suoi compagni a
cavallo, lanciati al galoppo sfrenato, opera di enorme effetto visivo. Di
Carete, che pure era stato suo allievo, non conosciamo altro che non
sia lo smisurato gigante di bronzo da lui eretto agli inizi del III secolo
a.C., inaugurato forse nel 293 a.C. e crollato per il violento sisma del
227 a.C. stando a quanto riportano Plinio (XXXIV, 41) e Strabone
(XIV, 2, 5), secondo i quali la statua cadde dopo sessantasei anni dalla
sua erezione, per un terremoto. 4 La sua collocazione è ancora oggetto
di discussione ma la statua doveva trovarsi da qualche parte nella
capitale, probabilmente in prossimità del porto. 5 Plinio dice che
nell’isola di Rodi c’erano un centinaio di colossi, ciascuno dei quali
avrebbe fatto l’orgoglio di una città, ma non specifica di quali
dimensioni fossero, per cui si può pensare che la dimensione variasse
anche di molto a seconda delle committenze e dell’abilità degli
esecutori. In realtà la statuaria monumentale in bronzo o in marmo
era molto comune nelle città antiche, perché rappresentava il modo
per comunicare con il pubblico a livello politico, propagandistico e
religioso. Strabone, che ricorda il colosso di Carete abbattuto da un
terremoto, indugia prima a descrivere la prosperità dell’isola,
l’attenzione dei governi nella gestione della cosa pubblica, i traffici
commerciali. In questa ottica, il grande numero di monumenti
straordinari, insieme all’ideologia religiosa e politica, potrebbe far
pensare a un modo di sviluppare arte, cultura, tecnologie
d’avanguardia, a un’attività che, oltre al prestigio, creava un
importante volano per l’economia.
Ancora oggi nelle nostre città i monumenti sono molto numerosi e
spesso anche di grandi dimensioni: alcuni (pochi) giunti fino a noi
dall’antichità come il monumento equestre di Marco Aurelio a Roma
– prima al centro della piazza michelangiolesca del Campidoglio, ora
musealizzato e sostituito con una copia – sopravvissuto perché
59
scambiato per un Costantino, oppure il “colosso di Barletta”, alto 4
metri e mezzo, giunto in città in circostanze non chiare e identificato
dapprima con Eraclio, ora più verosimilmente con Teodosio II. Il suo
aspetto attuale è dovuto al restauro con cui gli furono restituite
gambe e braccia che erano state smontate e fuse nel Medioevo per
farne una campana. In realtà si calcola che a Roma vi fossero più di
quattrocento statue equestri di soggetto imperiale proprio come
quella di Marco Aurelio e quasi tutte di grandi dimensioni.
Moltissime furono trasportate a Costantinopoli con la traslazione
della capitale dell’Impero, altre durante l’impero di Focas, uomo
prepotente, avido e crudele, altre ancora andarono distrutte durante
le invasioni barbariche non tanto per vandalismo, cioè per mania
distruttiva, quanto perché grandi quantità di bronzo ridotto in
lingotti rappresentavano un capitale. Un esempio eloquente è quello
dei bronzi dorati di Cartoceto, trovati per caso nei lavori di scasso per
una vigna, probabilmente predati da un arco di Pesaro e fatti a pezzi
dagli Jutungi sulla via della ritirata.
La maggior parte dei monumenti moderni sono riferibili alla
volontà di creare una coscienza e una identità nazionale e veicolarne i
valori comuni sia civili che religiosi. Quasi tutti, infatti, hanno origine
nell’Ottocento quando si sviluppa il concetto di Stato-Nazione.
Il primo monumento pubblico dell’antichità a noi noto, opera di
Kritios e Nesiotes, è il gruppo dei cosiddetti “tirannicidi” Armodio e
Aristogitone, che ad Atene avevano ucciso Ipparco, figlio di Pisistrato.
A questo poi se ne accompagnarono altre centinaia nei santuari
panellenici in onore degli dei, degli eroi o degli atleti vincitori delle
gare olimpiche. Alcune statue erano “colossi” nel senso che noi oggi
attribuiamo al termine. Pensiamo all’Athena Parthenos del Partenone,
alta 12 metri, e allo Zeus di Fidia a Olimpia, anch’esso di dimensioni
colossali (12-13 metri seduto), di cui già si è detto. C’era anche uno
Zeus di bronzo a Taranto, “nella sterminata agorà dei Tarentini” come
diceva Strabone (V, 278), opera di Lisippo, alto 17 metri, in atto di
scagliare la folgore (Plinio, XXXIV, 37), costruito su una base
basculante in modo che non offrisse resistenza al vento. Sappiamo
che lo scultore aveva penato non poco per ancorarlo al suolo e per
ripararlo dalle raffiche della tramontana, essendo il luogo molto
ventoso e quindi tale da costituire un pericolo per il gigante di bronzo
che rappresentava una vela non da poco con il suo corpo. L’artista
60
aveva di sicuro preso le sue precauzioni se era vero che la statua “non
poteva essere abbattuta da alcuna tempesta” (Plinio, XXXIV, 40).
Plinio aggiunge che Lisippo aveva fatto erigere un pilastro non
distante dalla statua per rompere l’impeto del vento che soffiava da
quella direzione.
Un altro colosso proveniente da Taranto era un Ercole sull’acropoli,
sempre di Lisippo, alto 6 metri, con una muscolatura trionfale ma
rappresentato in posizione seduta, come di chi riposa dopo aver
compiuto imprese straordinarie. Un atteggiamento in cui traspariva il
pathos tipico delle creazioni lisippee. Trasportato a Roma dopo le
guerre tarentine fu collocato in Campidoglio, donde però lo rimosse
Costantino facendolo trasferire a Costantinopoli, la nuova Roma. Pare
tuttavia che la statua fosse divenuta oggetto di culto da parte dei
cittadini creando imbarazzo all’imperatore che perciò l’avrebbe fatta
collocare nell’ippodromo. Sopravvisse a lungo tanto da essere
distrutta in occasione dell’occupazione crociata di Bisanzio nel 1204:
venne fusa per coniare monete con cui pagare le truppe. Niceta
Coniata nella sua storia commenta così l’evento: “Questi barbari (cioè
i Franchi, ossia i crociati) hanno distrutto l’opera del divino Lisippo
per farne spiccioli”.
Con l’avvento dell’Impero Romano e del culto del genio
dell’imperatore o dell’imperatore divinizzato, si realizzarono altri
colossi di straordinarie dimensioni di cui si conservano, ai Musei
Capitolini, parti (teste, piedi, mani) sia in bronzo che in marmo. Il più
famoso di tutti fu il colosso di Nerone che si trovava nel vestibolo
della Domus Aurea e che rappresentava l’imperatore con una corona
raggiata. Era di bronzo dorato ed era alto fra i 33,5 e i 36,6 metri. Fu
costruito dallo scultore Zenodoro che forse si ispirò al Colosso di Rodi
cercando, si può pensare, di eguagliarne l’altezza o di superarla
addirittura. La corona raggiata si suppone comune ad ambedue 6 e
quindi significativa.
Zenodoro era stato chiamato a Roma perché aveva già realizzato
un colosso per gli Arverni (Plinio, NH, XXXIV, 47). Questa statua, che
rappresentava Mercurio, cioè Lùg, il dio supremo presso i Celti, aveva
richiesto dieci anni di lavoro ed era costata quaranta milioni di
sesterzi.
Del gigante neroniano resta solo il basamento in blocchi di tufo nei
61
pressi dell’Anfiteatro Flavio che appunto prese da lui il soprannome
di Colosseo. Plinio afferma di essere entrato nell’atelier dello scultore e
ci fornisce informazioni preziose: la grande somiglianza del colosso
con il suo modello di argilla e la presenza di “bastoncini” che
servirono nella prima fase del lavoro. L’autore evidenzia quindi la
grande cura che l’artista metteva nella realizzazione del modello che
in questo caso possiamo immaginare come una terracotta in
grandezza naturale, quindi in proporzione di circa 1/26 con l’opera
finita. Inoltre l’uso dei “bastoncini” potrebbe riferirsi alle cannule e
quindi alla tecnica della cera persa che era in uso da secoli.
Quando Adriano volle spostarlo si dice che lo abbia fatto trainare
da ventiquattro elefanti (Vita Hadriani, Hist. Aug.,19).
La grande massa di metallo di cui era fatto ne decretò
probabilmente la fine. La cosa più probabile è che sia stato ridotto a
pezzi per essere riciclato in altri usi.
Ma perché allora il Colosso di Rodi fu annoverato fra le Sette
Meraviglie? Probabilmente perché prima di esso nessuna statua aveva
mai raggiunto quelle dimensioni, nemmeno nell’Antico Egitto dove
peraltro si contano diversi colossi, sia a Karnak che ad Abu Simbel. Il
solo colosso di Ramses II nel suo tempio funerario di Karnak, oggi
spezzato e privo di volto, era alto in origine 17 metri e pesava mille
tonnellate. Di un metro più alti, considerato anche il basamento,
erano i colossi di Memnone, che in realtà erano immagini di
Amenothep III e ricevettero il loro nome attuale dai Greci di età
tolemaica che li identificarono con l’eroe etiope figlio dell’Aurora
accorso con il suo esercito in aiuto di Priamo. 7 Le statue più a
meridione sono quelle di Abu Simbel che rappresentano Ramses II,
scolpite nella viva roccia, alte 20 metri ciascuna.
La “meraviglia” di Carete dovette la sua fama anche a una serie di
altri elementi circostanziali. Il fatto, per esempio, che fosse stato
costruito vendendo (o riutilizzando?) i pezzi di Helepolis, una
formidabile torre d’assalto fatta costruire da Demetrio Poliorcete; 8 il
fatto che crollò dopo soli sessantasei anni dalla sua erezione; il fatto
che, secondo una tradizione, Carete, dopo averlo terminato, si
sarebbe suicidato per essersi accorto di aver compiuto un errore
insanabile: un aneddoto questo che ha tutta l’aria di essere stato
concepito post eventum (cioè dopo il terremoto che fece cadere il
62
Colosso). E inoltre il fatto che, quando i Rodii pensarono di
ricostruirlo, un oracolo di Delfi li avesse ammoniti di non farlo.
Ma quale fu la ragione che indusse i Rodii a innalzare un simile
prodigio?
Quanto era accaduto nella guerra fra Antigono Monoftalmo e la
loro città. Rodi era riuscita a tenersi fuori dalle guerre dei Diadochi e
degli Epigoni, i successori di Alessandro, essendo uno stato
indipendente nato da un sinecismo fra le tre città stato di Lindo,
Camiro e Ialiso, ma non aveva potuto evitare l’ingiunzione di
Antigono Monoftalmo di rinunciare ai suoi rapporti con l’Egitto di
Tolemeo I. Antigono, infatti, nutriva il sogno di mantenere l’impero di
Alessandro unito sotto il suo controllo, e Tolemeo rappresentava il
suo più grande e potente oppositore.
Rodi non voleva prendere posizione contro Antigono, ma solo
conservare i lucrosi rapporti commerciali con l’Egitto, e rifiutò.
Antigono, nel 304 a.C., inviò quarantamila uomini con una flotta di
duecento navi da battaglia e centosessanta da carico al comando di
suo figlio Demetrio Poliorcete (“espugnatore di città”). Demetrio cinse
d’assedio la capitale con macchine e artiglierie di ultima generazione
fra cui la possente Helepolis (“distruttrice di città”), alta 40 metri,
come un palazzo di tredici piani, e irta di arieti e catapulte che
potevano letteralmente bombardare dall’alto Rodi. Quella macchina
era l’erede dell’ingegneria militare sviluppata da Alessandro e dai suoi
tecnici, e gli consentì imprese ritenute impossibili come la presa di
Tiro. 9
Ma Rodi resistette caparbiamente senza cedere né venire a patti e
alla fine Demetrio si rassegnò a levare l’assedio e a ritirarsi
abbandonando le sue attrezzature. A quel punto i Rodii vendettero i
materiali, specialmente i metalli, e con i proventi decisero di innalzare
una statua votiva al dio Sole più grande di qualunque altra esistente
al mondo. Secondo la leggenda, l’isola stava dapprima nascosta sul
fondo del mare e fu il Sole a scoprirla. Chiese così agli dei che quando
l’avesse fatta emergere gli fosse concessa in custodia. Il dio Sole
dunque non era soltanto il protettore di Rodi, ma colui che l’aveva
suscitata dal mare.
Ovviamente l’erezione del Colosso non fu soltanto un atto di
gratitudine votiva verso il dio protettore della città e dell’isola, ma
63
anche un grande gesto propagandistico. Il messaggio era che nessuno
poteva permettersi di dare ordini a Rodi, che la città aveva risorse
economiche, umane e tecnologiche tali da frustrare qualunque
tentativo di imporle comportamenti contrari ai suoi interessi e alla sua
volontà. Una dimostrazione di orgoglio simile a quella degli americani
quando hanno costruito la Liberty Tower dopo che le torri gemelle del
World Trade Center erano state abbattute dall’attentato terroristico
più audace di tutti i tempi.
L’incarico fu affidato a Carete di Lindo, uno scultore di cui
sappiamo abbastanza poco se non che costruì il Colosso e che era
allievo di Lisippo. È ancora Plinio però a fornirci elementi per pensare
che fosse un grande artista: “C’erano in Campidoglio due teste
(colossali?) dedicate dal console Publio Lentulo, di cui una opera di
Carete. L’altro scultore l’aveva fatta … di tanto inferiore, se la
confrontiamo con quella di Carete, da farlo sembrare il più mediocre
degli artisti”.
Questo passo è di solito interpretato 10 nel senso che il secondo
scultore, ignoto per la lacuna nel testo, doveva essere di infimo livello.
Carete ovviamente sapeva con esattezza dove il Colosso sarebbe
sorto, sapeva cosa doveva rappresentare, e con tutta probabilità il
committente, cioè la città, dovette stabilirne anche le dimensioni.
Visto però che la statua era di un’altezza quasi doppia dello Zeus di
Lisippo nell’agorà di Taranto, non possiamo escludere che sia stato lui
stesso a consigliare quelle misure, con l’ambizione di raddoppiare le
dimensioni della massima realizzazione del suo maestro.
Le descrizioni di Plinio, Strabone e Filone di Bisanzio sono molto
dettagliate, ma non tanto da farci capire dov’era e come era fatto. A
questo proposito molti sono condizionati dal fatto che nelle antiche
incisioni del Rinascimento e del XVII secolo il Colosso è rappresentato
nudo con una spada in mano e con le gambe divaricate sopra
l’imbocco del porto mentre le navi passano a vele spiegate. Questa
stessa immagine, con qualche variante, era adottata da Sergio Leone
nel suo primo film Il Colosso di Rodi, del 1961: un pastone senza capo
né coda dove l’enorme statua era stata ricostruita con effetti speciali a
cavallo dell’imboccatura di un porto in atto di reggere fra le mani un
braciere che serviva da faro per la notte, ma che in caso di bisogno
64
poteva diventare una cascata di fuoco per bloccare l’ingresso a navi
nemiche.
Quella postura non avrebbe potuto reggere per lo sbilanciamento
in avanti e nemmeno probabilmente per la divaricazione delle gambe.
Statue a gambe divaricate ne esistono: per esempio, lo Zeus (o meno
verosimilmente il Poseidon) dell’Artemision, un bronzo spettacolare di
stile severo esposto al Museo Archeologico Nazionale di Atene, è
esattamente a gambe divaricate con le braccia aperte in asse con il
torso e in atto di scagliare una folgore (o il tridente), il piede sinistro
appoggiato completamente e in asse con il corpo, il destro che tocca
solo con il metatarso perché il tallone è sollevato da terra. I punti di
appoggio hanno un aspetto estremamente naturale, ma in realtà sia
l’uno che l’altro piede portano incorporati due “tenoni”, ossia due
perni che si incastravano in due fosse scavate nella pietra o nel
marmo della base. Il peso della statua poi è limitato, la leva di impatto
contenuto e il bilanciamento perfetto. Ma se aumentassimo le
proporzioni della statua, che misura 2,09 metri, di circa quindici volte,
il peso del tronco, delle braccia e della testa sarebbe tale da spezzarla
in due a livello del cinto pelvico, a meno di non adottare strutture di
contenimento all’interno di essa, come tiranti e barre. Per non parlare
delle braccia aperte, una all’indietro che lanciava il fulmine/tridente,
l’altra in avanti a bilanciare: in proporzioni gigantesche queste
avrebbero avuto uno sbalzo eccessivo, tale da esercitare una tensione
difficilmente sostenibile a livello delle spalle.
In teoria la postura a gambe divaricate del Colosso avrebbe potuto
reggere, ma avrebbe richiesto un’armatura a Y rovesciato che a sua
volta avrebbe richiesto una base quadrata che collegasse le travi, e in
ogni caso la distanza di 400 metri fra un molo e l’altro avrebbe reso
una tale costruzione impossibile. La scelta di Carete di riempire di
pietre 11 le gambe del Colosso mostra che nemmeno dandogli una
impostazione compatta e verticale si sentiva tranquillo sulla statica
della costruzione.
È quindi più probabile che Carete abbia progettato la sua statua in
postura verticale e lineare con pochi o nulli elementi fuori sagoma o a
sbalzo, come era l’Athena di Fidia nel Partenone, sostanzialmente
inscrivibile in un cilindro. Ciò non significa che dobbiamo immaginare
una statua di aspetto egittizzante o di tipo arcaico come i kouroi. 12
65
Doveva invece avere una resa importante dell’anatomia e una forte
espressività del volto, non certo facile da realizzare in proporzioni così
esagerate.
C’è chi ha pensato che il Colosso tenesse un braccio alzato (il
destro?) sopra la testa a reggere una fiaccola che fungesse da faro per
i naviganti, ma non abbiamo un solo elemento che sostenga questa
ipotesi. La scultura in pietra che H. Maryon riproduce nel suo
articolo 13 rappresenta un bassorilievo da Rodi che raffigura un torso
maschile chiomato e con il braccio destro ripiegato sul capo come a
reggere qualcosa. Lo studioso definisce quest’opera una riproduzione
del Colosso. Se questo fosse vero si potrebbe avvalorare la
tradizionale idea che il Colosso avesse anche la funzione di faro, ma è
una ipotesi difficile da accettare. Higgins 14 invece interpreta il
bassorilievo di Maryon come la raffigurazione di un atleta che si posa
sul capo la corona della vittoria e non si può dargli torto: l’atleta di
Fano (ex atleta Getty), un bronzo ellenistico stilisticamente lisippeo e
quindi della stessa epoca, compie lo stesso identico gesto. Le altre
tipologie in nostro possesso rappresentano l’atleta con ambedue le
braccia alzate per allacciarsi il diadema, ossia il nastro attorno al
capo.
Molti ritengono che la Statua della Libertà a New York, che è più
alta di sette-otto metri della statua di Carete, sarebbe stata ispirata da
una supposta immagine a braccio alzato (ipotesi peraltro non
dimostrabile) e anche la collocazione all’ingresso del porto sarebbe
stata ispirata da quella del Colosso.
Ora immaginiamo di fare una replica marmorea di una statua di
bronzo. Poiché il bronzo è elastico lo scultore può permettersi una
postura del soggetto anche molto dinamica. Pensiamo al discobolo di
Mirone, per esempio, che ha il corpo in torsione a livello delle anche,
le braccia ad arco e la testa piegata verso il basso e all’indietro. Gli
unici punti di appoggio sono le dita dei piedi. Dell’originale non è
rimasto nulla, ma di copie marmoree ne abbiamo diverse, e tutte,
dalla prima all’ultima, hanno un puntello, di solito in forma di
tronchetto d’albero, a livello dell’innesto della coscia con l’anca. In
caso contrario si sarebbero tutte spezzate all’altezza delle ginocchia.
Tornando adesso al nostro Colosso, su una cosa le fonti principali
sono d’accordo: sul fatto che Carete, per stabilizzarlo, gli abbia
66
riempito le gambe di grosse pietre. Pensava evidentemente al pericolo
rappresentato dal vento, e forse anche dai terremoti che nell’Egeo
sono sempre stati frequenti. Forse non pensò, però, che le pietre
avrebbero comunque comportato una rigidezza delle parti zavorrate,
e quindi una linea di frattura rispetto al resto del corpo proprio là
dove il riempimento cessava.
Filone di Alessandria descrive con notevole precisione il cantiere
dell’enorme statua: se ne può immaginare una specie di palancolato
di travi e tavole di legno, forse smontato da Helepolis, che veniva
riempito di terra fino al punto in cui la statua era arrivata. In tal modo
il lavoro era decisamente più comodo di quanto sarebbe stato con
una semplice impalcatura di tavole e antenne. In ogni caso Carete
dovette montare un traliccio di ferro che fungesse da armatura come
Maryon ha accuratamente ricostruito nel suo disegno. 15 Ma come era
costruita la figura? Si sagomavano a martellate lamine di bronzo o si
colavano in forme le pareti della statua, sezione per sezione, facendo
salire nel contempo il terrapieno?
Conviene qui seguire la testimonianza di Filone, che in questo caso
è abbastanza precisa. Ovviamente, le scelte di interpretazione che noi
facciamo possono essere messe in discussione, come peraltro quelle
che già sono disponibili, ma abbiamo cercato di interpretare il testo
greco aiutandoci anche con la logica del contesto che,
fortunatamente, abbiamo abbastanza chiaro per quanto concerne la
tecnica usata per realizzare il Colosso. Prima di iniziare la descrizione
della costruzione, l’autore fa presente che è maggiore il lavoro che
l’opera cela entro di sé di quello che appare esteriormente. L’enorme
quantità di ferro impiegato – 300 talenti, pari a circa 12 tonnellate –
testimonia il gran numero di travature, di rinforzi, di grappe e di
catene messi in opera per armare il Colosso contro il vento, le
tempeste e il terremoto.
“L’artista creò prima una base in marmo bianco” (che possiamo
supporre molto robusta e adeguata al peso che avrebbe dovuto
sostenere), “quindi vi fissò con misure esattissime i piedi del colosso
fino ai calcagni calibrati tenendo conto del fatto che vi si sarebbe
appoggiato un dio alto settanta cubiti” (circa 33 metri e mezzo a
seconda di come si calcoli la lunghezza del cubito). “Le sole piante dei
67
piedi infatti superavano già per le dimensioni le altre statue. Il che
significa che lo spessore dei piedi era di circa 2 metri.”
Filone specifica poi con chiarezza che non sarebbe stato possibile
sovrapporre altre parti costruite altrove, ma che “era necessario
sovrapporre direttamente le caviglie e i malleoli sicché l’intera opera
crescesse su se stessa come quando si costruisce un edificio”. La
tecnica quindi differisce sostanzialmente da quella dei bronzisti che
prima – fa notare ancora Filone – fondono la parte centrale del corpo,
poi separatamente le altre membra, e da ultimo assemblano la statua
intera. “Qui invece, completata la prima fusione, vi si aggiungeva
subito la seconda; sopra si aggiungeva la terza e quindi quella
successiva. Non si potevano infatti staccare le membra metalliche. 16
Terminata la fusione, sulle parti già realizzate non (si potevano)
vedere linee di divisione, né attacchi né i giunti (delle graffe) e il
contrappeso di quelle pietre che si mettevano e che stabilizzavano
l’opera sì che non avesse la minima oscillazione. L’artista versava poi
tutto attorno alle membra del Colosso, che dovevano ancora essere
completate, un’enorme quantità di terra nascondendo ciò che aveva
già costruito sottoterra e costruiva sulla (fusione) già finita la
successiva.”
Dunque si procedeva con un terrapieno anziché con un ponteggio
come faremmo noi, anche perché i blocchi in pietra erano più facili da
trascinare su per una rampa, e anche la terra, che forse era sostenuta
da una sorta di palancolato di tavole probabilmente smontate da
Helepolis.
Maryion ha ipotizzato 17 che le varie parti venissero fuse
separatamente e martellate e sagomate sul posto, ma non v’è dubbio
che la tecnica descritta da Filone nel brano che abbiamo riportato sia
la più probabile e non vale opporre la considerazione che il bronzo
fuso non lega con il bronzo freddo. Piegare a martellate lamiere di
bronzo dello spessore di qualche centimetro è opera molto
impegnativa e molto difficile, anche perché realizzando delle parti
relativamente piccole e quindi più gestibili si sarebbe però creato una
specie di mosaico a grandi quadrettature esteticamente inaccettabile,
e si sarebbero moltiplicati a dismisura i problemi di adattamento di
una parte con l’altra su ben quattro lati.
Inoltre è illuminante la testimonianza di Plinio (NH, XXIV, 43) che
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ci parla di un altro colosso: un Giove fuso con il bronzo delle armi
tolte dal console Carvilio ai Sanniti e collocato in Campidoglio,
talmente grande che si poteva vedere dal santuario di Giove Laziale
sul Monte Cavo. Plinio narra che il console Carvilio avesse fatto
eseguire una statua che lo ritraeva e che fu collocata ai piedi del
Giove, realizzata con le limature di rifinitura del colosso. Siamo nel III
secolo a.C. quindi non molto lontani dall’esecuzione del Colosso di
Rodi e l’artista incaricato dell’opera sarà stato senz’altro un greco.
L’enorme quantità di limatura che consentì di fondere un’altra statua
in grandezza naturale parla di un intenso e massiccio lavoro di
finitura sulla statua principale. E questo si spiega con la presenza di
molte sbavature dovute probabilmente all’esecuzione di una colata
sovrapposta all’altra e ovviamente legata dall’interno con grappe e
rinforzi di vario genere.
Interpretando il brano di Filone pare di capire che nel colosso di
Carete i ganci e le connessioni fra una fusione e l’altra fossero
applicati dall’interno e quindi risultassero invisibili da fuori. Le linee
di sutura fra una fusione e l’altra venivano poi probabilmente rifinite a
lima. Per questo il console Carvilio, dopo la limatura del colosso di
Giove sul Campidoglio, poté usufruire di una tale quantità di bronzo
di risulta dalla finitura, che fu sufficiente per far fondere la propria
statua.
Filone conclude così la sua storia del Colosso di Rodi: “Alla fine,
(l’artefice) giunto un po’ per volta alla conclusione della sua opera,
come aveva sperato, e avendo utilizzato cinquecento talenti di bronzo
e trecento di ferro, costruì un dio simile in tutto a un dio: realizzando
un’opera immane con grande audacia, pose di fronte all’universo un
secondo Sole”.
Si avverte, nelle espressioni quasi ispirate di Filone, una infinita
ammirazione per l’artefice di un simile capolavoro, ma non c’è una
parola su quello che fu il triste epilogo di quell’impresa, quasi non gli
bastasse l’animo di descrivere la catastrofe di un’opera forse più
audace nella concezione della stessa Grande Piramide.
Il fatto che non abbiamo nemmeno un’immagine del Colosso è
stupefacente. Quasi sempre gli stati greci rappresentavano sulle
monete i simboli che li rendevano immediatamente riconoscibili
perché la moneta era un formidabile veicolo di visibilità – diremmo
oggi –, dal momento che finiva nelle mani di tutti. Vero è che una
69
moneta di Rodi forse rappresenta il volto dell’Helios di Carete, 18 o,
secondo altri, l’Helios sulla quadriga solare, anch’esso fuso da Lisippo
per i Rodii con quei grandi occhi spalancati che gli conferivano uno
sguardo quasi scintillante. Ma quand’anche fosse così, manca sempre
la rappresentazione delle dimensioni iperboliche della statua. Com’è
possibile che non sia mai stato rappresentato il Colosso, onore e
vanto di Rodi? A meno di augurabili nuove scoperte numismatiche
per il momento dobbiamo limitarci a congetture.
Numerose sono le ipotesi sulla collocazione del Colosso. Una delle
più accreditate lo vedeva sorgere su uno dei porti della città, dove
oggi è il forte di San Nicola, quindi vicino al mare ed esposto a venti
anche molto forti nel corso dell’inverno e durante le perturbazioni che
spesso si abbattono sull’Egeo. C’è però chi ritiene 19 che si trovasse nel
sito della chiesa dei cavalieri di San Giovanni al Colosso. In ogni caso
il gigante avrebbe avuto un problema di statica. Come poteva reggersi
una statua che poggiava su una superficie minima – quella dei piedi,
pari al massimo a 5 o 6 metri quadri – in proporzione a un corpo alto
33 metri e mezzo? Quel corpo smisurato avrebbe esercitato sulla base
una leva enormemente vantaggiosa in caso di qualunque tipo di
sollecitazione trasversale. In altri termini, se la parte inferiore del
corpo poteva sopportare una compressione molto elevata, il corpo
intero non avrebbe retto né alla torsione né ad alcun tipo di
sollecitazione trasversale.
Al problema statico Carete ritenne di ovviare zavorrando le gambe
della statua con pietre, per darle stabilità. Decisione in teoria sensata
ma in pratica non è detto che non sia risultata più dannosa che utile.
È infatti altamente probabile che la zavorra di massi squadrati non
arrivasse fino alle quote più alte della statua, ma si fermasse alle
gambe: per il resto avrebbe dovuto bastare l’armatura in travi di ferro.
In questo modo il Colosso veniva a perdere la sua elasticità proprio
nel punto critico delle ginocchia e fu proprio lì che si spezzò sotto
l’urto del terremoto (Strabone, XIV, 2, 5).
L’impresa immane durò dodici anni, un tempo lungo che dimostra
la grande complessità del lavoro intrapreso, ma che supera comunque
di soli due anni quello impiegato da Zenodoro per costruire il
Mercurio degli Arverni. Come si è visto, il cantiere era concepito in
modo da creare, con un tamponamento che si alzava continuamente,
70
una superficie di lavoro piana e facilmente praticabile. Alla fine
l’enorme terrapieno venne rimosso partendo dalla cima e a mano a
mano il gigante si erse solitario e splendente in tutta la sua maestà, la
possente muscolatura in piena luce al cospetto, possiamo
immaginare, di migliaia e migliaia di persone in delirio.
In quel momento il discepolo del grande Lisippo, l’artista temerario
che aveva osato duplicare le proporzioni dell’opera del suo maestro a
Taranto, dovette sentirsi simile a un dio, più potente di un re, lui che
aveva dato corpo a un sogno che chiunque avrebbe pensato
irrealizzabile. Lo firmò, alla base, con due versi: “Sette volte dieci
cubiti di altezza / opera di Carete di Lindo”.
Per sua fortuna non visse abbastanza da vederlo crollare. Nel 227
a.C. il Colosso fu abbattuto da un terremoto devastante. Ma anche
così, crollato e a pezzi, era oggetto di stupore per i visitatori. Racconta
Plinio (XXXIV, 41) che pochi uomini avevano braccia abbastanza
lunghe per abbracciarne un solo pollice e che le sue dita misuravano
come una statua di dimensioni normali. Le membra spezzate
mostravano vaste cavità interne e massi che l’artefice aveva utilizzato
per stabilizzare il Colosso.
Strabone riferisce che non fu ricostruito dai Rodii, benché il re
Tolemeo di Egitto si fosse offerto di finanziare il restauro, perché un
oracolo di Delfi li aveva dissuasi dal farlo. Così il corpo spezzato del
gigante giacque per secoli destando stupore e meraviglia in chiunque
lo guardasse. Costantino Porfirogenito (Amministrazione dell’Impero,
20) ci informa che nel 653 d.C. un generale di Othman, di nome
Mavia, occupò Rodi, demolì (probabilmente nel senso di fece a pezzi)
il Colosso e lo vendette a un mercante ebreo di Edessa (oggi Urfa, in
Turchia) che con il bronzo di cui era fatto caricò novecento cammelli.
Erano passati quasi mille anni da quando Carete lo aveva eretto. Di
quell’opera straordinaria non è mai stato trovato un solo frammento.
71
Il Mausoleo di Alicarnasso
Tre secoli dopo la sua costruzione, il Mausoleo di Alicarnasso, il
gigantesco sepolcro di Mausolo, dinasta di Caria in Asia Minore, era
già diventato un simbolo e il suo nome sinonimo di “tomba
monumentale” com’è tuttora.
Nel I secolo d.C., all’epoca di Nerone, Lucano, giovane poeta di
grande talento e nipote del filosofo Seneca, aveva composto la
Pharsalia, una sorta di poema epico sulle guerre civili. In questo
poema egli descriveva anche la guerra alessandrina in cui Cesare,
partito con troppa precipitazione e con poche forze all’inseguimento
di Pompeo sconfitto a Farsalo, si era alla fine trovato assediato
all’interno del palazzo Lochias, la reggia dei Tolemei.
Lucano con poche parole, ci permette di configurare sia la tomba
di Alessandro, che doveva essere nei pressi della necropoli reale, sia
quelle dei Tolemei, la dinastia regnante che aveva ormai i giorni
contati. La prima risulta essere una tomba a camera sotterranea
sormontata da un grande tumulo, le altre invece sono connotate
come piramides e mausolea. 1 Queste due parole indicano due tipologie
di tombe monumentali molto significative, in quanto fanno anche
parte del catalogo delle Sette Meraviglie. Le prime sono di carattere
egiziano e si rifanno in forma molto ridotta agli antichissimi e
giganteschi sepolcri dei faraoni della IV dinastia. Le seconde sono
invece di architettura greca o greco-asiatica e ispirate dalla tomba
monumentale di Mausolo, signore di Alicarnasso e satrapo di Caria
per conto del Gran Re Artaserse II.
Queste tipologie sono spiegabili con il fatto che i Tolemei erano
macedoni ma regnavano in qualità di faraoni d’Egitto, e come tali si
presentavano all’interno del paese. A livello internazionale invece,
apparivano come sovrani di cultura ellenica e sulle monete si
facevano rappresentare di profilo e con il capo cinto da un nastro (il
diadema) alla maniera dei Greci. Anche le loro necropoli, dunque,
dovevano richiamare sia la cultura indigena che quella di origine.
72
Questo significa che sia le piramidi che il Mausoleo, già canonizzati
fra le Sette Meraviglie del mondo, avevano influenzato
profondamente l’architettura funeraria ad Alessandria.
Ma che cos’era il Mausoleo, e per quale motivo era divenuto così
famoso e importante nella storia dell’arte e dell’architettura antiche?
Per rispondere a questa domanda non solo è necessario risalire al
personaggio che vi si era fatto seppellire, ma rifarsi altresì alla cultura
della città di Alicarnasso che era un insediamento greco-dorico in
territorio indigeno. In quella città era nato Erodoto, il grande
storiografo ed etnografo che aveva preceduto Tucidide nella
impostazione della storiografia evoluta. Egli era figlio di padre greco e
di madre asiatica e per questo la sua interpretazione dell’origine delle
guerre persiane era stata in qualche modo equilibrata. Aveva
addirittura individuato come prima causa del conflitto (arké kakòn)
l’intervento ateniese in aiuto delle colonie ioniche in rivolta contro i
Persiani nel 498 a.C. e l’incendio del tempio della Gran Madre degli
dei a Sardi.
Alicarnasso dunque era una città-stato come altre della costa egea
orientale, sorta su un’isoletta prospiciente una baia, di fondazione
greca ma di sudditanza persiana. I Persiani, però, riconoscendo la
straordinaria peculiarità civile, linguistica, scientifica e letteraria delle
città-stato greche dell’Oriente, preferivano governarle con dinasti
locali o tramite i cosiddetti tiranni, che erano quasi sempre di etnia e
cultura greche come Istieo e Aristagora di Mileto. Era per loro infatti
molto più semplice trattare con una persona sola che con una
comunità rappresentata da un’assemblea e da un governo cittadino.
Le imposte erano contenute e in cambio l’impero garantiva a
queste comunità una certa autonomia, il ruolo di terminali del traffico
commerciale verso occidente, una rete stradale e un’amministrazione
dell’entroterra severa ma efficiente.
Quando fu innalzato il Mausoleo, l’Impero Persiano era
notevolmente indebolito, tanto che settant’anni prima una spedizione
di mercenari greci (i famosi Diecimila di Senofonte) era arrivata, al
seguito di Ciro il giovane, un principe ribelle, fin quasi a Babilonia.
Una volta che questi era morto, i mercenari erano poi tornati indietro
attraverso la Mesopotamia, l’Armenia, la Colchide, il Ponto e la Bitinia
fino a Bisanzio senza che i persiani dell’imperatore Artaserse
73
riuscissero a impedirlo. E pochi anni dopo Dario III, l’ultimo dei Gran
Re, sarebbe stato sconfitto e privato del regno da Alessandro Magno.
Sappiamo esattamente dove si trovava il Mausoleo sulla base degli
scavi inglesi della metà dell’Ottocento. Era a destra del teatro e
prospiciente la baia. Una simile posizione ha un significato
importante che si collega con la tradizione greca, nonostante Mausolo
fosse di etnia caria e non avesse nessun legame di discendenza con i
fondatori della città.
In particolare, si collegava alla tradizione delle colonie greche
dell’VIII-VI secolo a.C., dove, al centro della città, sorgeva il
monumento funerario dell’ecista, cioè del fondatore che era nominato
dall’oracolo delfico e quindi aveva un carisma particolare, una sorta di
sacralità. Non si conoscono altri esempi oltre a quello degli ecisti
coloniarii. Famoso in particolare era il fondatore di Cirene, Batto, che
fu anche il capostipite di una dinastia, i Battiadi, che regnò a lungo
sulla città.
Un esempio di età posteriore a quella del Mausoleo potrebbe essere
quello della tomba di Alessandro, che fu sepolto dapprima a Menfi, in
via provvisoria, 2 e in seguito ad Alessandria, in un luogo che è ancora
oggetto di animato dibattito.
L’interpretazione di certe fonti 3 farebbe pensare al centro della
città, nei pressi della moschea di Nabi Daniel o del tumulo di Kom ed
Din, 4 all’incrocio delle due vie principali, ma altri importanti indizi
riporterebbero il sepolcro del conquistatore macedone nella necropoli
reale presso il palazzo Lochias, residenza dei sovrani Tolemei. In ogni
caso, come si è detto prima, si trattava di una tomba di rito macedone
con una camera sepolcrale sormontata da un tumulo di terra e forse
anche da un segnacolo sulla sommità, molto simile, probabilmente, a
quella del padre Filippo II scoperta da Manolis Andronikos nel 1977.
Nulla a che vedere con il sontuoso e gigantesco sepolcro di
Alicarnasso che, invece, stando a Lucano che già abbiamo citato,
avrebbe funto da modello per alcune delle tombe dei Tolemei ma non
per quella di Alessandro.
L’accenno di Lucano comunque è molto importante perché
significa che dal IV secolo in poi il sepolcro di Alicarnasso era
divenuto il modello per eccellenza delle tombe monumentali
soprattutto in Oriente. In Italia, i sepolcri imperiali come quello di
74
Augusto e quello di Adriano sono più vicini a quelli macedoni (ma
secondo altri a quelli etruschi), con un tamburo di pietra alla base
sormontato da un tumulo su cui spiccava un monumento in bronzo
dorato, di solito una quadriga in atto di portare in cielo il genio
dell’imperatore divinizzato.
Questo particolare specifico era riscontrabile anche nel Mausoleo
che aveva sulla sommità una quadriga gigantesca con l’immagine del
sovrano.
Ma perché a un dinasta locale sarebbe stato innalzato un
monumento così imponente e spettacolare da essere considerato uno
dei sette più belli e mirabili del mondo conosciuto? 5
In primo luogo va considerato che Mausolo non era propriamente
un dinasta locale: approfittando della notevole debolezza dell’impero
persiano sotto Artaserse II Noto, partendo dalla sua antica capitale
Mylasa, riuscì a espandere notevolmente i suoi territori occupando
tutta la Caria, parte della Licia e della Lidia, Rodi, Coo e Chio, Mileto
e Alicarnasso e, secondo alcuni, anche Efeso.
Artaserse II era riuscito sconfiggere il fratello Ciro il giovane a
Cunassa nel 401 a.C., nonostante il valore leggendario dei suoi
diecimila mercenari greci, ma fu in gravi difficoltà in Egitto, sul
Caspio, e anche a Cipro dove il tiranno Evagora alla fine indusse il suo
esercito a ritirarsi.
È quindi molto probabile che in questa situazione Mausolo sia
riuscito a ritagliarsi una quasi completa indipendenza, riservando alla
sovranità del Gran Re un riconoscimento poco più che formale. Se
l’attribuzione della magnifica e colossale statua che secondo la
maggior parte degli studiosi lo ritrae è giusta, doveva anche essere un
uomo bellissimo e molto carismatico. Fu lui a decidere di lasciare
Mylasa, l’antica capitale della Caria, per trasferirsi ad Alicarnasso. La
città aveva una popolazione mista, un magnifico porto commerciale e
una tradizione culturale, tecnica e mercantile di prim’ordine.
Mausolo sposò la sorella Artemisia, che dopo la sua morte gli
dedicò il sontuoso e monumentale sepolcro che stupì i visitatori per
secoli. Sposare la propria sorella era una pratica diffusa nell’antico
Oriente e comune nell’Egitto faraonico e anche tolemaico.
Artemisia sopravvisse al marito di soli due anni e per questo c’è chi
pensa che il Mausoleo sia stato costruito in questo lasso di tempo. Ma
75
è difficile crederlo data l’enormità dell’impresa, il numero e le
dimensioni delle colonne e la ricchezza delle sculture che di certo
saranno state ultimate nel volgere di qualche anno ancora.
Si suppone quindi che l’edificio sia stato iniziato quando Mausolo
era ancora vivo. Fu certamente lui a scegliere lo spiazzo a destra del
teatro, nell’incavo di una collina e in posizione dominante. A
differenza dell’Artemision, il Mausoleo fu sì eretto in una posizione
prospiciente il porto ma su un fondo piuttosto duro e compatto e fu
probabilmente questo a preservarlo per parecchi secoli.
La descrizione più completa del Mausoleo è quella di Plinio (NH,
XXXVI, 30-31), che tramanda al lavoro sui quattro lati del
monumento quattro fra i più grandi scultori della prima metà del IV
secolo: Skopas che ebbe la parte più nobile, cioè il lato est, dove c’era
l’ingresso, Leochares che ebbe il lato occidentale, Briaxis che ebbe il
lato nord, e Timoteo a cui fu affidato quello meridionale.
Sono gli artisti che segnano il passaggio dalla tarda classicità al
primo ellenismo, artisti di valore straordinario, la cui perizia e il cui
gusto possiamo solo in parte derivare dai frammenti emersi dagli
scavi di Charles T. Newton nel 1862 e ora custoditi al British
Museum. 6 In particolare, la scena di battaglia attribuita a Leochares 7
è emozionante per il movimento turbinoso delle figure, i panneggi
gonfiati dal vento, le posture dei personaggi e le loro trionfali
anatomie.
Se sono vere le ipotesi di Buschor, 8 si potrebbe individuare una
interruzione dei lavori dopo la morte di Artemisia per le turbolenze
che sconvolsero la Caria e che portarono al potere Idrieo e Ada, sua
sorella e sposa. Costei, rimasta in seguito sola per la morte del marito,
fu detronizzata e si ritirò ad Alinda, una fortezza dell’interno, mentre
l’armata di Alessandro si avvicinava e cingeva d’assedio la città che gli
resistette a lungo e con grande determinazione. I coniugi Romer
immaginano che egli scorgesse ogni mattina la sommità del Mausoleo
che dominava il panorama, 9 ma è probabile che avesse tutt’altri
pensieri per la testa. Dalla sua fortezza, Ada chiese ad Alessandro,
dopo che ebbe conquistato Alicarnasso, di poterlo adottare come
figlio, e questi non solo accettò (pur rifiutando i dolci che la madre
adottiva gli mandava in continuazione con un esercito di cuochi), ma
76
la ricollocò sul trono, sicuro che gli sarebbe sempre rimasta fedele
alleata.
Dopo di che gli scultori si sarebbero rimessi al lavoro, e sarebbe
stata scolpita la cosiddetta coppia di Mausolo e Artemisia del British
Museum. Il presunto Mausolo attribuito a Briaxis 10 è un’opera
colossale in cui l’artista ha profuso le sue capacità per ritrarre un volto
magicamente esotico nella fronte spaziosa, nelle chiome leonine, nelle
occhiaie enormi, nelle labbra quasi tumide e nell’anatomia massiccia e
disarmonica che s’intravvede avvolta ma non del tutto nascosta dal
pesante e sovrabbondante panneggio.
Di gran lunga inferiore la perizia di chi ha scolpito la pretesa
Artemisia, mutila del viso che comunque la figura tozza e goffa non fa
presumere potesse essere più aggraziato.
Newton, che le rinvenne, pensò subito che le due statue fossero
quelle dei regnanti e che facessero parte della quadriga sommitale. C’è
invece chi ritiene che si trovassero all’interno della camera
funeraria. 11 L’identificazione stessa dei personaggi ritratti nelle due
figure è comunque discussa da tempo e c’è chi pensa che si tratti
semplicemente di due offerenti, ipotesi peraltro poco verosimile. Per
ora comunque l’identificazione subito proposta da Newton, benché
probabile, 12 non ha una prova definitiva.
Quanto all’ipotesi di Buschor sull’interruzione dei lavori, va
ricordato quello che afferma Plinio, cioè che i quattro scultori, alla
morte di Artemisia, continuarono comunque il loro lavoro, consci che
quell’opera avrebbe tramandato la fama della loro abilità e del loro
talento (Plinio, NH, XXXVI, 31).
L’architettura del monumento era firmata da Pitis e Satiro, i quali
probabilmente avevano progettato l’intera città dando vita a una
sorta di prototipo della città ellenistica con un gusto straordinario per
le grandi scenografie. 13 Per il Mausoleo crearono una struttura
composita e contaminata come la popolazione di Alicarnasso e di
tutta la costa. L’elemento greco era presente nella peristasi di trentasei
colonne, che però non sorgeva dal crepidoma, ma si trovava a
mezz’aria, sospesa sopra un massiccio pilone in blocchi di granito (un
paio dei quali fu rinvenuto da Newton), probabilmente rivestito in
marmo, che poggiava su uno zoccolo di cinque gradoni,
probabilmente anch’essi di marmo.
77
Il colonnato a sua volta sorreggeva una piramide di ventiquattro
gradini che si concludeva alla sommità con una piattaforma su cui
poggiava la quadriga di Mausolo. Questa, scolpita da un quinto
artista – che era anche uno dei due architetti, Pitis –, di lassù si
stagliava contro l’acropoli, dominava il resto della città ed era visibile
da lontano. La collocazione del Mausoleo su una spianata 14 di 25.000
metri quadri lo rendeva ancora più imponente e godibile dai visitatori
e dagli abitanti della città. L’inclinazione dei lati della piramide non è
nota, benché Newton fosse riuscito a trovare alcuni dei gradini, fra
cui uno d’angolo, che sono oggi conservati al British Museum. 15
Stranamente Vitruvio (II, 8, 11) concede pochissima attenzione,
non più di due righe, al Mausoleo, che pure ricorda fra le Sette
Meraviglie del mondo, mentre si dilunga di più a descrivere il palazzo
del rex, che dice costruito in mattoni ma con le parti più importanti in
marmo. 16
Ai marmi del Mausoleo allude invece Luciano di Samosata nei suoi
Dialoghi, dove, facendo discutere il filosofo cinico Diogene con
Mausolo di Caria (Dialoghi dei morti, 24), fa dire a quest’ultimo che il
suo sepolcro è adorno di statue di marmo splendido (likou tou
kallistou). Nel suo scavo, Newton ne trovò i blocchi, e altri ne vide
inclusi nei muri del castello di San Pietro eretto dai cavalieri di Rodi.
Evidentemente si trattava del rivestimento esterno di tutta la parte del
monumento sottostante il portico ionico pensile.
Di marmo dovevano essere fatte le colonne, le sculture e i fregi che
adornavano la cella e i muri esterni. Si suppone che i grandi leoni a
tutto tondo fossero collocati negli intercolumni, ma c’è chi ritiene che
adornassero il cornicione, 17 fra la peristasi e la piramide, mentre negli
intercolumni ci sarebbero state le statue dei personaggi più in vista
della popolazione.
Plinio comunque afferma che fu l’opera dei quattro grandi scultori
a fare del Mausoleo una delle Sette Meraviglie del mondo (NH,
XXXVI, 30). I cicli scultorei erano una amazzonomachia, una
centauromachia e una corsa con i carri. Si trattava di tematiche
consolidate che si ripetevano con grande frequenza sia su grandi
monumenti, sia nella ceramografia, e con molta probabilità anche
nelle pitture su tavola che sono andate completamente perdute. Sul
significato di queste tematiche i critici e gli storici dell’arte hanno
78
molto dibattuto individuando nella centauromachia la lotta degli
esseri umani per liberarsi della loro origine ferina mentre nella
amazzonomachia si esprimerebbe e si esorcizzerebbe il timore
istintivo che l’uomo ha della donna. 18
Alla base del Mausoleo, disassata verso nordest, c’era la camera
funeraria tagliata nella roccia. Lì era alloggiato il feretro con il corredo
che si suppone ricchissimo e che andò completamente perduto con la
distruzione e il saccheggio del monumento.
La sezione del Mausoleo era rettangolare con l’ingresso su uno dei
lati corti, cioè quello orientale decorato da Skopas. Plinio dice che i
quattro artisti erano in competizione fra di loro (aemuli) e che ancora
al suo tempo si discuteva su chi potesse essere considerato il migliore.
Le dimensioni del monumento erano imponenti: dallo zoccolo di
base al piano del grande portico pensile era alto 22 metri. Sul piano
poggiava il colonnato in stile ionico: undici colonne di lato e nove di
fronte, che si innalzavano di circa 13 metri. A sua volta, questo
colonnato era sormontato da una piramide di ventiquattro gradini
alta 7 metri. Sulla piramide poggiava il podio che sosteneva la
quadriga, opera di Pitis, con sopra la coppia dei sovrani. In tutto, il
Mausoleo, dalla base alla sommità della quadriga, che aveva
dimensioni doppie del normale, doveva misurare circa 49 metri.
Il testo di Plinio, però, è troppo schematico e stringato, per cui in
vari punti diventa di difficile comprensione. Per questo ha dato
origine a varie interpretazioni che hanno prodotto schemi diversi di
ricostruzione ideale per il monumento. 19 Da un certo punto di vista
gli scavi di Newton del 1862 non hanno aiutato a definire le esatte
dimensioni del perimetro, perché i metodi di scavo di allora
consistevano nel recuperare i resti, poi riempire le parti scavate con i
detriti e procedere così. 20 È stato lo scavo più recente di Kristian
Jeppesen a riportare alla luce il perimetro del Mausoleo. 21
In ogni caso, i risultati degli scavi di Newton furono straordinari e
in gran parte inattesi dal momento che le fonti rinascimentali (De la
Tourrette, Guichard etc.) raccontavano con dovizia di particolari lo
scempio di uno dei più bei monumenti dell’antichità. A quanto ci
consta, il Mausoleo arrivò più o meno in condizioni di integrità fino al
XIII secolo, forse perché non era un tempio pagano, o forse perché
Mausolo non era un simbolo di quel mondo come lo era invece
79
Alessandro Magno. Quello che stupisce è come non fosse stato
demolito prima per cercare i tesori che quasi certamente conteneva,
sorte toccata alla maggior parte delle antiche sepolture.
I gravi danni subiti dal monumento nel XIII secolo furono
provocati da un terremoto e tuttavia quasi tutti i suoi elementi si
erano conservati. Era probabilmente crollata la piramide con i leoni
che scandivano tutta la lunghezza del suo perimetro di base, ed erano
crollate le colonne della peristasi. Lo scempio e la catastrofe totale di
quella meraviglia accaddero in seguito.
G. Waywell cita una testimonianza di Claude Guichard risalente al
1582 che descrive un ipogeo rivestito di marmi preziosi, colonnato,
con ricche raffigurazioni di battaglie, e una camera con un sarcofago
di alabastro a doppio spiovente. I cavatori, data l’ora, si erano fermati,
ma l’indomani avevano trovato il sarcofago aperto e il terreno sparso
di brandelli di stoffa intessuta d’oro. 22 Diedero la colpa ai pirati che,
udito del ritrovamento, erano tornati nottetempo a saccheggiare la
camera sepolcrale. A proposito dei pezzi di stoffa intessuta con fili
d’oro, Waywell non esita a ipotizzare che si trattasse della stoffa in cui
erano avvolte le ossa e le ceneri del rogo di Mausolo, esattamente
come la stoffa di porpora intessuta d’oro in cui Manolis Andronikos
trovò avvolte nel 1977 le ossa di Filippo II di Macedonia nell’urna
d’oro con la stella Argeade nel sepolcro di Verghina, l’antica Aigai. 23
Se questo è senz’altro possibile, ciò che lascia dubbioso lo stesso
Waywell è una camera tanto ricca posta sopra la cripta, visto che non
si è rinvenuto il minimo frammento di un tale meraviglioso apparato.
Il cronista può essere stato tentato di fornire una visione emozionante
ai suoi lettori, mentre è meno probabile che i vandali demolitori
abbiano fatto un lavoro tanto minuzioso da non lasciare il minimo
frammento di ciò che aveva descritto Guichard. Fra i tanti atti di
vandalismo spicca invece un minimo di senso estetico in uno dei
comandanti la piazza di Bodrum che agli inizi del ’500 inserì nel muro
del castello una dozzina di piastre scolpite sia con la
amazzonomachia sia con un rilievo della battaglia fra centauri e
Lapiti, uno degli altri grandi temi della scultura greca a partire
dall’epoca arcaica. Altre parti di sculture, come alcuni leoni che
venivano dal cornicione superiore del muro di sostegno al portico
pensile, furono tolte dai muri del castello e portate al British Museum,
80
dove Newton le vide e si convinse della necessità di fare uno scavo
sistematico sul sito.
Ma a parte pochi casi isolati di una qualche sensibilità, il
vandalismo e lo scempio furono la regola seguita dai cavalieri di Rodi
per ridurre a quasi totale annientamento il monumento di Mausolo e
Artemisia e i prodigi di Skopas e Leochares, di Timoteo e di Briaxis. I
marmi furono bruciati per farne calce, le sculture altrettanto, i blocchi
sagomati reimpiegati nelle murature del castello.
Newton ebbe l’accortezza di acquisire i terreni confinanti con il
perimetro che aveva delimitato come sede del Mausoleo, recuperando
frammenti e pezzi di inestimabile valore che, cadendo dall’alto per il
terremoto, toccarono terra fuori appunto dal perimetro e rimasero
sepolti dai detriti e dai riempimenti successivi del cosiddetto “campo
dell’Imam”. Decine e decine di statue e frammenti scultorei vennero
ritrovati. Suoi furono la scoperta e il recupero di uno dei cavalli della
quadriga, suo il ritrovamento della monumentale coppia identificata
come Mausolo e Artemisia e quello di una colonna ionica con il suo
capitello.
Fra i ritrovamenti più fortunosi quello di un cavallo e di un
cavaliere al galoppo di cui non restavano che i torsi, ma che
rivelavano una dimensione gigantesca e una grande abilità espressiva
dello scultore. Gruppi come quello di cui doveva far parte il cavaliere
mutilato adornavano probabilmente le sedi alte del monumento.
Newton
trovò
anche
quattro
lastre
in
sequenza
dell’amazzonomachia che erano state riutilizzate come copertura di
uno scolo fognario. 24 Una quantità rilevante di elementi architettonici
e di gradini della piramide trovò spazio nei magazzini del British
Museum dove sono ancora oggetto di studio per poter un giorno
arrivare a una plausibile ricostruzione virtuale del grandioso sepolcro.
Per avere anche solo un’idea di quanto possano divergere le ipotesi di
ricostruzione proposte basta considerare quelle di Kahrstedt e quella
di Newton e Pullan.
Altri recuperi, anche importanti, erano stati fatti in precedenza da
solerti e sensibili funzionari britannici che poi avevano messo in salvo
i reperti nel British Museum, ottenendo facilmente i permessi dalle
autorità turche. Chi oggi visita il sito si trova davanti resti
architettonici minimi e linee di tritumi di marmo insignificanti. Gli
81
interventi di Newton prima e di Jeppesen dopo hanno lasciato solo
un campo di miseri frammenti.
Non v’è dubbio che queste azioni fossero meritorie, ma è anche
vero che tra la fine del ’700 e gli inizi dell’800 iniziò il saccheggio
sistematico dei siti greci sia nella Grecia continentale che nelle isole, in
Asia Minore e in Sicilia. Memorabile è la spoliazione dei rilievi del
Partenone a opera di Lord Elgin, che suscitò scandalo anche in Gran
Bretagna e fu bollata con parole di fuoco da Lord Byron, fervente
filelleno.
La polemica si è protratta fino ai nostri giorni fra la Grecia rinata
nel 1821 e la Gran Bretagna che non ha più l’impero e ha rischiato
recentemente di perdere la Scozia e forse anche il suo nome di Regno
Unito. Ma non furono soltanto i britannici ad alimentare i saccheggi: i
francesi non furono da meno, e anche i tedeschi, che smontarono
completamente l’altare di Pergamo e la porta di Ishtar a Babilonia per
rimontare l’uno e l’altra a Berlino.
Oggi, in tutta l’Anatolia, l’unico monumento funebre inviolato, di
dimensioni ma non di caratteristiche paragonabili al Mausoleo, è
quello di Antioco I Epifane di Commagene, risalente al I secolo a.C.,
che sorge sulla vetta del Nemrut Dagi a oltre duemila metri d’altezza.
Il Mausoleo di Alicarnasso in ogni caso diventò un modello per
molti monumenti funebri in gran parte dei paesi del Mediterraneo, e
questo influsso si protrasse non solo per tutta l’età tolemaica in
Egitto, ma anche in altri paesi fino all’età romana. Perfino a
Gerusalemme certi monumenti funerari, in particolare quelli di alcuni
principi Asmonei, si ispirarono, sia pur liberamente, al grandioso
sepolcro di Alicarnasso. Oggi sono chiamati “mausoleo” quello di
Teodorico e quello di Galla Placidia a Ravenna, quello di Lincoln a
Washington e la stessa tomba di Lenin sulla Piazza Rossa che,
sormontata da una piramide a gradoni, riecheggia nel modo e nel
nome il remoto archetipo. Fu così che il termine “mausoleo”, da nome
proprio (sacrario funebre di Mausolo) si convertì in nome comune
assumendo il significato tuttora vigente di “sepolcro monumentale”.
Ma è un nome senza corpo: del mirabile originale, giunto
miracolosamente fin quasi alle soglie dell’età moderna, non è rimasto
che il fantasma.
82
L’Artemision di Efeso
L’Artemision di Efeso, annoverato fra le Sette Meraviglie del mondo
antico, è in realtà uno dei diversi santuari sorti con lo scorrere dei
secoli l’uno sull’altro nel sito a sudovest della collina di Ayasuluk in
Asia Minore, presso le foci del Caistro che si gettava in mare poco più
a nord, dopo aver strisciato con anse sinuose attraverso la pianura
alluvionale che esso stesso si era creato.
Il visitatore che, attratto dalla leggenda di questo grandioso
santuario, si aggira in quei paraggi, subisce una prima delusione di
fronte all’unica colonna rimasta di una intera foresta di centodieci
fusti marmorei (centoventisette, secondo altre fonti), e per di più
ricostruita con una serie di rocchi molto danneggiati, per cui il senso
di desolazione è ancora più forte.
Sappiamo infatti che cos’era questo gigantesco edificio, e sappiamo
che ebbe due fasi principali: un tempio molto ricco fatto costruire in
stile arcaico da Creso, re di Lidia, nel VI secolo a.C. in omaggio alla
dea Artemide, e uno in stile ionico, costruito dopo che il precedente
era stato incendiato da un tale Herostratos per nessun’altra ragione se
non quella di diventare famoso. È la stessa spiegazione che addusse
l’individuo che uccise John Lennon a New York nel 1980, e può
sembrare strano in un periodo della storia umana in cui le comunità
anche molto note come Efeso erano relativamente piccole e all’interno
di esse molti degli abitanti si conoscevano fra loro. Ma dobbiamo
ammettere che a distanza di venticinque secoli Herostratos ha
raggiunto il suo scopo, visto che il suo nome è ancora citato.
La costruzione dell’Artemision faceva parte della politica che Creso
praticava con le colonie ioniche della costa: buoni rapporti sia politici
che commerciali, accontentandosi di un modesto tributo e del
riconoscimento della sua autorità.
Creso era noto per la sua devozione ai grandi santuari e quando
mandò una delegazione a Delfi (Erodoto, I, 53) per sapere se avrebbe
dovuto o no scendere in guerra contro i Persiani inviò anche
83
ricchissime offerte. Questo non gli valse che un responso enigmatico,
come sempre accadeva: “Se passerai l’Halys (oggi Kizylirmak), un
grande impero andrà distrutto”. Non specificò, l’oracolo, di quale
impero si trattasse e fu un’amara sorpresa per Creso scoprirlo: il suo e
non quello di Ciro il grande.
Ciro l’avrebbe risparmiato, secondo Erodoto, mentre la cronaca di
Nabonedo, re babilonese con cui Creso si sarebbe alleato, si limita a
dire che Ciro conquistò la Lidia e uccise il suo re, ma l’interpretazione
del testo cuneiforme è discussa.
Il tempio arcaico bruciò, secondo la tradizione, nel 356 a.C., e si
disse (Cicerone, De divinatione, I, 3.47 e De natura deorum, II, 17, 69)
che fosse il giorno stesso della nascita di Alessandro: la dea non
sarebbe intervenuta a salvare il proprio santuario perché sarebbe
stata occupata ad assistere il parto di Olimpias e la nascita di
Alessandro. Quasi certamente si trattava di un aneddoto edificante
per nobilitare la nascita del grande conquistatore, che in ogni caso si
offrì di finanziare la ricostruzione nel solco delle tradizioni locali e
dell’evergetismo del re di Lidia. Fu quello il tempio che Antipatro di
Sidone (Anthologia graeca, IX, 58), oltre a Filone di Bisanzio, incluse
fra le Sette Meraviglie del mondo.
La dea che veniva venerata e onorata all’interno del santuario era
chiamata dai Greci, e ovviamente dagli Efesini, Artemide. Si trattava
della dea greca sorella gemella di Apollo, figlia di Leto e di Zeus. Leto
avrebbe partorito a Delo e Artemide, nata per prima, avrebbe poi
aiutato la madre a partorire il fratellino. Da cui la tradizione che la
dea, che era vergine, assistesse le partorienti e l’aneddoto secondo cui
avrebbe assistito la regina Olimpias a partorire Alessandro.
L’Artemide greca era anche la dea dei monti che cacciava le fiere nelle
foreste con arco e frecce, da cui anche un suo aspetto di signora degli
animali. Spesso Apollo era identificato con Helios, il Sole, e Artemide
(Diana per i Romani) con Selene, la Luna. L’arco infatti, attributo della
dea, evocava la luna crescente, la falce di luna. C’è chi ritiene che
quella sia l’origine della mezzaluna che prima fu il simbolo di Bisanzio
e Costantinopoli e poi, accettata da Maometto il conquistatore, finì
per campeggiare sulla bandiera turca, non più verde ma rossa.
In epoca più tarda (V secolo) Artemide fu anche identificata con
Ecate-Persefone, dea dell’oltretomba e sposa di Hades, il dio degli
Inferi. Per questo a Roma e in Italia fu spesso chiamata Ecate Trivia,
84
perché la sua triplice immagine (Ecate, Diana, Selene-Luna) veniva
collocata all’incrocio di tre vie. Ancora oggi, in molte località d’Italia,
si possono vedere edicole della Vergine Maria all’incrocio di tre vie.
Evidentemente un modo praticato dal cristianesimo per sradicare un
culto pagano.
La dea di Efeso era probabilmente una divinità femminile
antichissima, collegata al mito delle amazzoni (Callimaco, Inni, III,
237) che avrebbero fondato il suo tempio in età remote. Poi, in seguito
alla colonizzazione greca, fu identificata con Artemide. Il
collegamento potrebbe dipendere dal fatto che lo scudo delle
amazzoni era a forma di mezzaluna, ed è interessante notare che
nell’Iliade, quando anche gli dei entrano in battaglia a favore dei
troiani o degli achei, Artemide combatte in favore dei troiani mentre
nell’Etiopide, un poema perduto del ciclo troiano, le amazzoni
arrivano in soccorso di Priamo guidate da Pentesilea.
La caratterizzazione di Artemide come signora degli animali ha
origini remote. Nell’Iliade (XI, 470) Artemide è chiamata potnia
(miceneo po-ti-ni-ja) theròn, “signora degli animali (selvaggi)”, ma da
un punto di vista iconografico la signora degli animali è molto
raffigurata sia in pitture micenee che minoiche. 1 In tempi successivi,
verso la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., si rivede questa
immagine anche nella ceramografia. 2
Che cosa rende così particolare il tempio di Efeso? Due cose
soprattutto: le sue straordinarie caratteristiche architettoniche e
artistiche, e la stratigrafia assai complessa – portata in luce dagli scavi
di Wood nel 1863-1874 e 1883, 3 e quindi di Hogarth agli inizi del ’900 4
–, che documenta una continuità cultuale risalente a prima di Creso.
La stratigrafia più profonda ha restituito ex voto in avorio, oro e
altri materiali preziosi che rivelano le fasi più antiche della
frequentazione religiosa del sito, collocabile nell’VIII secolo,
praticamente coeva alla comparsa dei poemi omerici, alla
colonizzazione greca dell’Occidente e all’introduzione dell’alfabeto: un
periodo molto vivace dal punto di vista economico, artistico e
culturale, che spiegherebbe l’instaurarsi di un santuario importante in
corrispondenza di un porto altrettanto importante.
La prima destinazione cultuale del sito rivela una struttura tipica
della tradizione micenea di ambiente cretese, con una piattaforma che
85
probabilmente reggeva l’immagine di culto e un’altra, più bassa,
recintata da un muro, che forse, secondo alcuni, era l’altare: 5 si tratta
di un attardamento culturale di tipo miceneo o sub-miceneo di oltre
tre secoli, che si spiega con una continuità riscontrabile soprattutto in
aree periferiche come Cipro, o certe località dell’Eubea, dell’Italia
meridionale 6 e dell’Asia egea. In seguito, le due piattaforme furono
inglobate in un’unica struttura che forse era una cella.
Successivamente, in un periodo non datato con precisione, fu
costruito un vero e proprio tempio, del tipo in antis, cioè con i muri
lunghi della cella che si prolungano creando una specie di area di
rispetto, il pronaos, prima della cella vera e propria, il naos. Era
piuttosto grande: 31 x 16 metri, e può anche darsi che avesse una
peristasi. Si tratterebbe in tal caso di un evento importante che
testimonia l'affermazione definitiva della tipologia del tempio greco,
forse contemporaneo o di poco precedente il terzo santuario di
Lefkandi in Eubea. In questo sito si è conservata una straordinaria
stratigrafia che attesta il consolidarsi, attraverso varie evoluzioni, della
pianta templare classica dove le colonne, anziché stare all’interno
come in tutti i templi dell’antico Oriente, vengono spostate all’esterno
affidando la portanza della parte centrale del tetto ai muri della cella.
Qui però c’è una fila di pali al centro che sostenevano un tetto
presumibilmente di paglia. 7
A questo tempio efesino, ne seguì uno ancora più bello, di marmo,
costruito da Creso con grande dovizia di mezzi, probabilmente nel
quadro della sua politica di buoni rapporti nei confronti delle colonie
greche della Ionia. L’edificio, che possiamo supporre sia stato
costruito verso la metà del VI secolo a.C., durò un paio di secoli, fino
al 356 a.C., anno della nascita di Alessandro Magno e anno della sua
distruzione a opera di Herostratos.
Come già abbiamo ricordato, si disse che la dea Artemide non
abbia potuto impedirlo perché impegnata a fare da levatrice alla
regina Olimpias di Macedonia che dava alla luce Alessandro. Il quale,
essendo probabilmente l’autore o il promotore di questo edificante
aneddoto, si offrì anche di sponsorizzare la ricostruzione del tempio,
quando, battuti i persiani al Granico, arrivò a Efeso, ma ricevette un
cortese rifiuto dalle autorità già impegnate nell’opera ricostruttiva. Le
nostre fonti (Vitruvio, III, 2, 7; X, 2, 11-12; II, 9, 13; IV, 1, 7; e Plinio,
86
NH, XXXVI, 95), che si basano a loro volta su tradizioni molto più
antiche, attribuiscono l’opera costruita da Creso a vari architetti, fra i
quali sono forse erroneamente annoverati anche quelli che in realtà
dovettero progettare l’Artemision ricostruito dopo l’incendio. È
comunque accettato dalla maggior parte degli studiosi come
architetto e direttore dei lavori (praefuit, Plinio, NH, XXXVI, 96)
Chersifrone di Cnosso, che si sarebbe ispirato all’Heraion di Samo,
gigantesco santuario costruito da Theodoros, sul quale aveva poi
scritto un trattato. L’attribuzione a Chersifrone di Cnosso
dell’Artemision di Creso è confermata anche da Strabone (XIV, 640).
Di questo santuario si conservano frammenti al British Museum:
alcuni dadi di supporto alle basi delle colonne in cui appaiono in
bassorilievo teorie di sacerdoti, sacerdotesse e serventi alle cerimonie e
anche un’iscrizione che menziona Creso come colui che innalzò
l’imponente edificio. 8
Lungo 115 x 55 metri, il tempio non faceva eccezione fra gli altri
templi greci per quanto riguardava la struttura. Era un diptero 9 che
sulla fronte aveva una terza fila di colonne, ma di numero molto
ridotto (quattro), compresa fra le ante della cella, con tetto a due
spioventi, due timpani triangolari e la cella con l’immagine di culto.
Una tipologia la cui evoluzione, come si è detto, è perfettamente
documentata dagli scavi di Lefkandi in Eubea dove, per un caso
molto più fortunato, si possono leggere in successione stratigrafica
tutte le fasi evolutive del tempio greco. Lo strato più antico ha
permesso di individuare un heroon con pali di sostegno (le future
colonne) interni e un’abside per la sepoltura forse di un eroe.
Successivamente abbiamo la scomparsa dell’abside, poi i pali/colonne
che vengono trasferiti fuori lasciando vuoto e libero l’interno e, da
ultimo, la peristasi colonnata esterna, che sarà la caratteristica
fondamentale del tempio greco per tanti secoli e che attribuisce
all’edificio quell’ariosa leggerezza e quella rigorosa e aritmetica
armonia di pieni e di vuoti che ne fa una delle più affascinanti
architetture di tutti i tempi.
Una volta consolidato, il tempio greco divenne una struttura
praticamente immutabile, regolata da proporzioni rigidissime e rifinita
con correzioni ottiche estremamente sofisticate: il crepidoma, il
colonnato esterno (peristasi), la cella con la statua di culto, la
87
trabeazione con metope e triglifi, i due timpani, il tetto a due spioventi
con gli acroteri sui lati e sul colmo, l’altare esterno per i sacrifici. E
tutto ciò declinato nei tre stili: dorico, ionico e corinzio.
L’Artemision è descritto in modo piuttosto particolareggiato da
Plinio (NH, XXXVI, 95), senza riserve, con vera admiratio, anche se
non si capisce in modo netto se stia parlando di quello fatto costruire
da Creso e progettato da Chersifrone o di quello ricostruito dopo
l’incendio del 356. Plinio infatti riferisce che furono necessari
centoventi anni per edificarlo, e l’intervento di tutta l’Asia; descrive
inoltre, con abbondanza di particolari, come furono create le
fondazioni, dal momento che si scelse di collocarlo in una zona noi
diremmo alluvionale, creata dai sedimenti del Caistro che scorreva
poco più a nord, per evitare che venisse distrutto dai terremoti,
sempre molto frequenti nell’area egea. Racconta infatti, basandosi
evidentemente su fonti molto più antiche, che l’architetto fece scavare
una fossa enorme per le fondazioni e fece distendere sul fondo uno
strato di carbone frantumato e di vello di pecore (di lana
probabilmente).
Questo avrebbe consentito, in caso di scosse telluriche, che
l’enorme edificio slittasse su quel fondo senza opporre resistenza e
assorbisse gli shock sismici. Questa soluzione, secondo Diogene
Laerzio (II, 8, 103), gli sarebbe stata suggerita addirittura da Teodoro,
l’audace architetto dell’Heraion di Samo. Per questo, sia nelle pagine di
Vitruvio (VII, 2, 11, 15 e II, 9, 13) sia in quelle di tanti altri architetti
fino all’età moderna, quell’intervento è celebrato come il primo
esempio di architettura antisismica. Lo spazio rimasto libero sui
fianchi dei blocchi di fondazione sarebbe stato riempito con i
frammenti di lavorazione delle pietre e del marmo. Le dimensioni
dell’Artemision (115 x 55 metri) erano di poco superiori a quelle
dell’Heraion (105 x 52,5), benché Erodoto abbia dichiarato (III, 60) che
l’Heraion era il più grande tempio esistente. È stato ipotizzato 10 che in
effetti l’Artemision non fosse un tempio ma una corte colonnata
attorno alla statua della dea. Un po’ come il santuario di Segesta, sul
quale tuttora si discute se sia un tempio greco incompiuto o una corte
colonnata conclusa che circoscrive un recinto sacro (temenos) di tipo
indigeno.
Nello stesso brano, Plinio fa menzione anche di Skopas, un artista
88
che nacque nei primi anni del IV secolo e quindi non poteva aver
lavorato al tempio eretto da Creso ma solo in quello che si stava
ricostruendo dopo l’incendio del 356 a.C. In ogni caso il nuovo
tempio eretto dopo l’incendio fu quasi del tutto simile al precedente.
Le differenze più evidenti furono lo stile delle sculture ad altorilievo
sulle basi delle colonne e di quelle a tutto tondo all’interno che
rappresentavano amazzoni: nel tempio del VI secolo erano
ovviamente di tipo arcaico mentre nel nuovo erano ioniche di stile
tardo classico. Nel nuovo tempio, inoltre, c’era un crepidoma di dieci
gradini che alzava il tempio a un’altezza di quasi 3 metri sul piano di
campagna.
È possibile che con la ricostruzione dopo l’incendio si sia colta
l’occasione per correggere eventuali segni di sprofondamento, ma allo
stesso tempo si sia voluto dare al grandioso santuario una maggiore
visibilità dal mare. Dove c’è la piana alluvionale del Caistro si apriva
allora un’ansa profonda estesa fino alla base della collina su cui
sorgeva la città di Efeso.
Lo stile dell’architettura, come si è detto sopra, era ovviamente
ionico, molto snello e leggero, con il tipico capitello a volute laterali
che derivano a loro volta da un capitello eolico con motivo
orientalizzante di ispirazione vegetale. 11 Lo stile ionico era snello
perché la colonna era notevolmente più alta e sfilata di quella dorica,
e per di più dotata di una base con gola e collarino che la rendeva
ancora più slanciata. Qui i caratteri di eccezionalità erano, oltre
all’altezza vertiginosa delle colonne – fra i 18 e i 20 metri –, il fatto che
erano otto nel pronao e nove nell’opistodomo, in quanto nel pronao si
volle creare una sorta di passaggio colonnato verso l’uscita che fosse il
prolungamento di quello che si allineava in doppia fila sui fianchi
della cella. Inoltre le colonne avevano le basi a tamburo, piuttosto rare
e insolite, scolpite ad altorilievo.
Un esemplare di queste basi, danneggiato ma di gran lunga il
meglio conservato e leggibile, è custodito al British Museum 12 ed è
datato dal punto di vista stilistico al IV secolo a.C. Rappresenta
Hermes, forse nella sua veste di psicopompo, cioè di accompagnatore
delle anime dei morti, fra due figure femminili avvolte in ricchi
panneggi. Si vede inoltre un giovane nudo con le ali, che porta la
89
spada al fianco, pendente da un balteo che gli attraversa il torace
dalla spalla destra al fianco sinistro.
La qualità molto alta e i caratteri stilistici e plastici di queste figure
in altorilievo hanno fatto pensare alla mano di Skopas, il grande
maestro di Paros che si formò ad Atene e che sarebbe stato chiamato
a decorare, non ancora quarantenne, con le sue sculture un’altra delle
Sette Meraviglie: il Mausoleo di Alicarnasso. In particolare, il volto del
genio alato con la chioma voluminosa e ondulata discriminata al
centro, le occhiaie profonde, la bocca carnosa e semiaperta, richiama
molto da vicino quello di Pothos che ci è pervenuto in una copia
romana dei Musei Capitolini ora esposta alla Centrale Montemartini.
Ma un giudizio definitivo, allo stato attuale delle nostre conoscenze,
non è possibile. Le figure sono di grandezza naturale e dobbiamo
inoltre immaginarle, nell’originale, a colori.
In realtà il colore è sempre stato nelle strutture antiche e gli esempi
che ci sono pervenuti intatti o quasi, come i sarcofagi con scene di
caccia del museo di Çanakkale in Turchia e certi particolari di
policromia conservati nel sarcofago di Alessandro nel Museo
archeologico nazionale di Istanbul, non sono per niente sgradevoli e
anzi sono di grandissimo fascino.
Già negli scavi di Khorsabad si sono rinvenuti grandi pannelli in
pietra scolpita decorati a colori, ed è probabile che fossero policromi
anche i cicli scultorei dei palazzi persiani. Per non parlare dell’ornato
policromo dei monumenti egiziani. La policromia quindi, già
dominante nell’arte e nell’architettura minoica e micenea, era una
tecnica diffusa in tutto il mondo antico: la Ionia e la Grecia non
potevano fare eccezione.
Oltre agli altorilievi delle basi delle colonne dell’Artemision che
erano, come abbiamo visto, di qualità altissima, c’erano anche
numerose sculture all’interno raffiguranti le amazzoni protagoniste di
tanti cicli pittorici, scultorei ed epici. Fra questi cicli era importante a
Efeso quello che voleva le stesse amazzoni fondatrici del santuario.
La grande antichità del luogo di culto è stata poi confermata dagli
scavi dei già citati Wood e Hogarth 13 e di altri archeologi che hanno
portato in luce la complessa stratigrafia che abbiamo sopra descritta
nei particolari.
Nel complesso il tempio o il santuario, come vogliamo chiamarlo,
90
era un edificio di enorme impatto, il primo e il più imponente che
appariva ai visitatori che giungevano dal mare, il più grande del
mondo, più alto e più grande del tempio “G” di Selinunte, che pure
avrebbe potuto contenere quattro partenoni. Il rialzo di quasi 3 metri
che era stato realizzato con la nuova costruzione dopo l’incendio del
356 a.C. enfatizzava ancora di più la sua maestosa imponenza,
accentuava lo sfavillare dei colori, il luccicare dei tripodi e dei
candelabri, lo svettare degli acroteri, il variare delle luci con i mutevoli
riflessi del moto ondoso. A mano a mano che ci si avvicinava prima
all’altare e poi all’immensa gradinata, lo sfilare delle colonne, vera e
propria foresta di pietra, creava un effetto di movimento, in una
prospettiva che mutava quasi a ogni passo. La luce variava
continuamente, sia per il moto del sole che per i riflessi della
superficie del mare.
L’altare che precedeva la facciata del tempio era enorme e
comprendeva i recinti per decine di tori che dovevano essere
sacrificati alla dea quasi ogni giorno. 14 Tutto attorno al santuario poi,
brulicava una miriade di personaggi anch’essi variopinti: uomini,
donne, bambini, mercanti e pellegrini, venditori ambulanti,
cantastorie, mendicanti, artigiani, indovini e giocolieri provenienti da
tutta la grecità mediterranea ma anche dall’Asia e dall’Egitto. Il
santuario era centro di incontri, di scambi, di spettacoli e grandi
manifestazioni di una religiosità clamorosa, sonora e abbacinante
come il sole del Mediterraneo.
Un episodio narrato negli Atti degli Apostoli (XIX, 23) è
interessantissimo per capire quanto la devozione e l’interesse
economico coincidessero perfettamente nei dintorni di un grande
tempio come quello di Artemide efesina, non diversamente da quanto
accadeva a Gerusalemme sulla spianata del tempio di Jahwe o a Delfi
o a Dodona in Grecia o a Siwah in Libia: l’investimento della città o
del clero, o dell’una e dell’altro, nella realizzazione di grandi opere
d’arte e di architettura religiosa era, come del resto oggi, potente
volano economico per lo sviluppo della città e del territorio.
Ora, la predicazione di Paolo e dei suoi discepoli aveva suscitato
grandissima preoccupazione perché demoliva il prestigio della
possente Artemide di Efeso, la dea nella foresta di colonne. “Nessuna
immagine plasmata dall’uomo” tuonava l’apostolo delle genti “può
91
essere un dio ma solo un idolo inerte e falso.” Aveva allora avuto
luogo una sorta di assemblea all’interno del teatro perché chiunque
potesse parteciparvi. Ma l’animatore di quella riunione era il capo
degli argentieri che costruivano delle riproduzioni in argento del
tempio come souvenir da vendere ai pellegrini e ai visitatori. Che cosa
ne sarebbe stato dei loro commerci se la gente si fosse convinta che
Artemide non aveva alcun potere?
Alla fine, i partecipanti si sparsero per la città gridando “Grande è
l’Artemide degli efesini!”, una specie di “Allah Akbar!” in versione
ionica, quasi uno slogan per rassicurare gli abitanti della città e i
pellegrini sul potere della dea, che poi era la fonte dei loro commerci e
dei loro profitti.
Pare ci fosse un’apertura sulla facciata della cella da cui si poteva
vedere il volto della dea, e sicuramente fra i souvenir che si vendevano
attorno al santuario c’erano anche riproduzioni dell’idolo della dea,
per la verità molto strano.
Le copie della statua dovettero essere molto numerose perché ce ne
sono pervenute un certo numero (famose quella dei Musei Vaticani e
quella del Museo archeologico di Istanbul). 15 E tutte rappresentano la
dea con in testa il tipico copricapo orientale a forma di cilindro,
chiamato polos, a tutt’oggi ancora visibile sul capo dei prelati grecoortodossi; indosso ha un peplo e un imation che spunta in basso da
sotto una specie di grembiule ricchissimo di ricami e di motivi
ornamentali a rilievo, le braccia sono aperte in basso con i palmi delle
mani distesi in atteggiamento di accoglienza.
Il corpo è fasciato stretto, come fosse quello di una mummia,
mentre dal petto sembra sporgere, con un effetto decisamente
grottesco per il nostro gusto, come un grappolo di mammelle, o
almeno così sono state sempre interpretate in passato. Più in basso vi
sono cinque strisce orizzontali, dalle quali spuntano delle protomi
taurine: tre nelle prime e due nelle ultime.
In realtà non si tratta di mammelle, bensì degli scroti dei tori che
venivano offerti in sacrificio alla dea. C’è chi ritiene che in tal modo si
volesse affermare il suo dominio sui maschi e la sua natura di vergine
inespugnabile. Resta comunque da spiegare come si sia prodotta una
rappresentazione decisamente ripugnante, che deturpa il profilo della
92
statua. Certo l’idolo risente di forti influssi orientali o egiziani, come
sembra suggerire la forma a mummia del simulacro.
La controprova è che tutte le rappresentazioni di Artemide a noi
pervenute dal mondo antico sono ben altra cosa. La vergine gemella
di Apollo è sempre rappresentata, in età classica, come una giovinetta
snella e scalza, bellissima, vestita di un corto chitone aperto sul petto.
A tracolla porta una cinghia che regge la faretra colma di frecce, e
nella mano destra stringe un arco da caccia. Anche in età arcaica,
comunque, e nella pittura vascolare, la sua immagine risponde a
canoni figurativi di grazia e di armonia. È evidente che lo xoanon di
ebano doveva essere un idolo antichissimo di origine asiatica che solo
a partire da un certo momento, non bene identificabile, è stato
assimilato ad Artemide.
Come abbiamo visto dal passo sopra citato degli Atti degli
Apostoli, l’Artemision di Efeso ancora nel I secolo d.C. era in
grandissima auge, meta di un ricco flusso di pellegrini che
spendevano in acquisti e in offerte, e aveva nel fiorente artigianato
locale uno dei suoi più ferventi e non di certo disinteressati
sostenitori.
Le sue sorti ebbero un primo, durissimo colpo nel 262 d.C. quando
gli Ostrogoti, partiti dalla Crimea (Chersoneso Pontico),
attraversarono gli stretti e scesero saccheggiando le coste dell’Asia
Minore e non risparmiarono di certo Efeso e il suo tempio di
Artemide che era sopravvissuto praticamente indenne per oltre
seicento anni.
Lo saccheggiarono e rovinarono gravemente 16 e quel che ne restò
fu abbandonato al suo destino. All’inizio del IV secolo, l’imperatore
Costantino attuò un repentino mutamento di rotta decidendo di
appoggiare il cristianesimo e di occuparsi di questioni dottrinali in
prima persona. Nel concilio di Nicea, infatti, si impegnò a fondo
affinché fosse messa a punto la professione della vera fede che tuttora
è recitata dai fedeli durante la messa. La situazione dei simboli
pagani, dopo l’effimera battuta di arresto di Giuliano (361-363 d.C.),
peggiorò ulteriormente con le leggi di Teodosio I e Teodosio II che
fecero del cristianesimo la religione di stato e sancirono la pena di
morte per chi fosse sorpreso a offrire e officiare sacrifici in onore degli
idoli pagani. Se in un primo momento Teodosio I consentì ai pagani
93
di riunirsi nei loro templi purché non vi celebrassero sacrifici,
rendendosi conto che i templi erano tesori d’arte e in tal modo
avrebbero ricevuto manutenzione, in seguito dovette cedere alle
pressioni del clero cristiano ed emanò disposizioni che permisero a
bande di fanatici di demolire, bruciare, distruggere i maggiori
santuari, da Alessandria ad Antiochia, da Olimpia a Delfi a Didima,
fino alla stessa Efeso.
Indirettamente, anche il primo concilio di Efeso (431 d.C.), che
sancì la natura della Vergine Maria quale Theotokos, conferì
grandissimo valore e carisma alla sua figura come madre di Dio e di
conseguenza madre dell’intera umanità. Le masse che erano abituate
a venerare divinità femminili, a rivolgersi a loro per chiedere aiuto e
protezione, si rivolsero a Maria e così la madre di Gesù eclissò e
cancellò Artemide, Cibele, Hera, Iside, Afrodite, Vesta e le mille altre
declinazioni della Grande Madre, della Protettrice del parto, della
Custode del fuoco domestico e di ogni altra attribuzione della donna
che ci ha dato la vita, l’amore, il nutrimento e la gioia di vivere.
Con la scomparsa di Artemide anche il suo tempio andò
definitivamente in rovina perché i cristiani non distinguevano fra
l’opera d’arte e l’opera seduttrice del demonio. Il grandioso santuario
fu smantellato lentamente, i marmi scolpiti da eccelsi maestri furono
mutilati o spaccati per farne calce o tagliati per essere utilizzati come
materiale da costruzione, le statue vennero fatte a pezzi. Della grande
foresta di colonne, del podio imponente, delle Amazzoni gloriose dai
turgidi seni, della maestosa gradinata, dei timpani e degli acroteri non
rimase alla fine più nulla.
94
Il Faro di Alessandria
La Tabula Peutingeriana, il più grande monumento cartografico che ci
sia arrivato dall’antichità, è di fatto una carta itineraria a colori che
riproduce il sistema stradale dell’impero romano (cursus publicus) e
rappresenta tutto il mondo conosciuto nel IV secolo d.C. 1 È una
mappa di straordinarie caratteristiche che riporta tutte le distanze fra
una tappa e l’altra in miglia romane ed è illustrata con vignette che
riproducono le città, gli edifici o i complessi più importanti, i rilievi
(anche se in forma molto stilizzata), i fiumi, i laghi e il mare con i porti
principali. In questi impianti portuali si vedono moli, ricoveri per le
navi (navalia) e anche torri di segnalazione. Nell’intero arco del
Mediterraneo (mancano però i settori occidentali che riportavano
Iberia e Britannia) sono rappresentati in modo inconfondibile tre fari.
Uno è a Ostia, nel portus Augusti (cfr. anche Plinio, NH, XXXV, 83),
un altro a Crisopoli, una città sulla costa asiatica del Bosforo, e un
terzo ad Alessandria, benché, stranamente, la città non sia nominata.
Ma è indubbiamente riconoscibile con i suoi due porti nelle vicinanze
dell’ultimo braccio occidentale del delta del Nilo e il faro nel mezzo,
sull’isola omonima. Di fatto, i tre fari sono collocati nei porti delle tre
più grandi città del Mediterraneo antico: Roma, Costantinopoli e
Alessandria.
In realtà, quello di Alessandria fu il primo dei tre a essere costruito
e, visto che nella Tabula è rappresentato con il suo fuoco acceso sulla
cima della torre, potremmo pensare che fosse ancora funzionante
quando la grande carta venne redatta: cioè quasi seicento anni dopo
la sua costruzione. 2 Sappiamo che c’era un altro faro a Ravenna, dove
Augusto aveva stabilito il porto della squadra imperiale che
controllava l’Adriatico, e sappiamo da varie raffigurazioni in
bassorilievo che molti altri ne erano stati costruiti.
La Tabula Peutingeriana non solo rappresenta il Faro ma lo colloca
anche nel posto giusto, ossia sull’isoletta che si estende, oblunga e
parallela alla costa, a chiudere la baia di Alessandria fra due
95
promontori, uno da ovest e l’altro da est. Un particolare interessante è
che la Tabula Peutingeriana, piuttosto accurata nell’iconografia,
rappresenta i fari sormontati da un disco rosso e non da fiamme
come succede in altre rappresentazioni, il che farebbe pensare che vi
fosse una sorta di riflettore.
Il promontorio orientale si chiamava Lochias e lì sorgeva il
complesso del palazzo reale che s’ingrandiva sempre di più a ogni
successione di un sovrano della dinastia. Tolemeo I era, fra i
successori di Alessandro, il più intelligente. Era stato suo amico
personale e comandante della sua guardia del corpo, e finché il
condottiero era stato vivo ne aveva riconosciuto sempre l’indiscutibile
autorità. Ma quando Alessandro morì, accettò a malincuore il patto
proposto da Perdicca: aspettare tutti che la vedova, la principessa
battriana Roxane, partorisse e, se fosse nato un maschio, preservare
per lui l’integrità e l’unità dell’impero finché non avesse raggiunto
l’età per regnare. Tolemeo, però, non aveva mai creduto nella
possibilità di mantenere unito un impero che si estendeva dal
Danubio all’Indo e appena gli fu possibile si proclamò re della
satrapia che gli aveva affidato Perdicca, l’Egitto, e lasciò che gli altri
facessero lo stesso con le loro.
Nel suo territorio Alessandro aveva fondato la prima delle più di
settanta città con il suo nome, Alessandria, su una lingua di terra che
separava la baia marina a nord dalla palude salmastra a sud chiamata
Mareotide. In capo a mezzo secolo essa diventò la città più grande,
prospera, razionale, monumentale del Mediterraneo. E diventò inoltre
un incredibile, straordinario laboratorio di ogni tipo di innovazione:
urbanistica, tecnologica, scientifica e artistica. I Tolemei, soprattutto il
primo e il secondo, detto Filadelfo perché si era innamorato della
sorella Arsinoe e l’aveva sposata, impostarono l’urbanistica
tracciando attorno al reticolo ippodamico che aveva ideato Dinocrate,
l’eccentrico architetto di Alessandro, una serie di strutture
stupefacenti per la funzione, l’aspetto e le dimensioni. Costituirono
inoltre il primo centro conosciuto di ricerca pura, in cui i più brillanti
cervelli avevano a disposizione la più grande biblioteca del mondo
(oltre seicentomila volumi), e ricevevano una pensione e una borsa di
studio, alloggio e mezzi per realizzare le loro idee. Alla direzione
vennero collocati i più grandi intellettuali dell’epoca, fra cui
Eratostene, autore della misura della circonferenza terrestre,
96
Callimaco, colui che rivoluzionò i canoni della letteratura, e Apollonio
Rodio, suo discepolo e poi antagonista, autore delle Argonautiche.
Qui studiò Aristarco di Samo, l’astronomo che costruì un modello
eliocentrico del sistema solare diciotto secoli prima di Galileo e
Copernico, e probabilmente vi studiò anche Archimede, il più famoso
scienziato dell’antichità. Anche quando non erano ad Alessandria, gli
studiosi e gli scienziati si scambiavano informazioni e si scrivevano,
sottoponendosi l’uno al giudizio dell’altro. 3 Fu l’interazione fra
studiosi di altissimo livello e le strutture create dai Tolemei a produrre
i risultati che poi ebbero riflessi in tutto il Mediterraneo e oltre.
Benché vissuto molto più tardi (nel I secolo a.C.), occorre ricordare
anche Erone di Alessandria che costruì la prima turbina a vapore di
cui si abbia notizia – in grado di aprire automaticamente le porte di
un tempio – e molte altre macchine, alcune delle quali sembrano poco
più che dei giocattoli (come la colomba volante), altre invece sono
strumenti molto preziosi sia dal punto di vista del rilievo topografico,
come il corobate, 4 sia per i lavori di cantiere, come il paranco, la
puleggia e la gru. 5
All’origine di tutto questo vi fu l’azione di Alessandro. Già durante
la sua spedizione le continue esigenze di mezzi bellici dovettero
stimolare l’inventiva e le capacità dei suoi ingegneri tanto che Robin
Lane Fox dichiara che la conquista di Tiro avvenne più al tavolo da
disegno di quanto non si potrà mai immaginare. 6 Ma ciò che più
conta è che unificò, o tentò di unificare, in un unico organismo
politico tutte le antiche civiltà fra il Mediterraneo e il subcontinente
indiano, avviando un processo che non si fermò più. Ad Alessandria
e negli altri grandi centri dell’ellenismo, Antiochia, Rodi, Efeso,
Apamea, Pergamo, si realizzarono in un modo o nell’altro i suoi sogni
di un mondo globalizzato in cui ogni eredità culturale e ogni sapere si
mescolasse come in un crogiolo, dando vita a una civiltà nuova e
originale quale il mondo non aveva mai prima conosciuto. Perciò
Alessandro fu detto “il Grande”: non perché aveva conquistato un
grande impero o perché aveva compiuto grandi imprese, ma perché
pensava in grande. Alessandria fu una città sperimentale dove tutto
divenne possibile, dagli “effetti speciali” delle scenografie
tridimensionali nei più di trecento teatri della città, all’astrofisica, ai
teoremi matematici più avanzati.
97
Il mare ad Alessandria fu urbanizzato contemporaneamente alla
terra. L’isola che concludeva la baia verso nord fu collegata alla
terraferma e quindi alla città di Dinocrate con un molo lungo sette
stadi (chiamato per questo “eptastadion”), pari a circa 1400 metri. Il
molo divise la baia in due specchi d’acqua che divennero due porti, a
destra e a sinistra dell’eptastadion, uno con l’imbocco verso ovest
(eunostos), l’altro con l’imbocco verso est delimitato a ovest dall’isola, a
est dal promontorio Lochias dove sorgeva l’area delle residenze reali
che occupavano, racconterà Strabone, un quarto, se non addirittura
un terzo della città (Geografia, XVII 1, 7-10, in part. 3).
A quel punto fu innalzato da Sostrato di Cnido, e per volontà di
Tolemeo I Soter, l’edificio più alto della città e il secondo più alto del
mondo conosciuto dopo la Grande Piramide. Era una torre che
fungeva da segnalatore per le navi in avvicinamento, alta 134 metri
secondo alcuni, più probabilmente 95 secondo altri, 7 chiamata il
Faro, dal nome dell’isola su cui sorgeva. Racconta Flavio Giuseppe
(Ant. Jud., IV, 612-13) riferendo l’intenzione di Vespasiano di occupare
l’Egitto e convincere le due legioni di presidio a unirsi a lui, che il
paese del Nilo era completamente privo di porti tranne che quello di
Alessandria. Il quale, però, non era certo un obiettivo facile per via di
numerosi scogli affioranti e forse anche, in certi punti, per fondali
bassi e barene molto pericolosi per la navigazione. L’isola di Faro, da
cui prese il nome la torre, era una formazione rocciosa che ben si
prestava a reggere una simile mole mentre tutti i terreni attorno erano
sabbiosi o melmosi. Inoltre la posizione della nuova città era
strategica e destinata a un grande avvenire.
Flavio Giuseppe spiega chiaramente che il Faro, il cui raggio di
notte raggiungeva la distanza di 300 stadi, ossia poco meno di 50
chilometri, non serviva a richiamare le navi, ma a tenerle a distanza di
sicurezza dalle turbolenze del mare che frangeva sugli scogli e contro i
moli, affinché entrassero in porto soltanto con la luce del giorno. La
distanza a cui arrivava il raggio coincide con l’orizzonte della
curvatura terrestre. 8
Sappiamo che Sostrato di Cnido ebbe il permesso dal sovrano
regnante di firmare la sua opera in una iscrizione che ne ha
tramandato il nome fino ai nostri giorni. Decisione non comune,
perché abitualmente il committente si prendeva il merito di tutta
98
l’impresa. Per questo c’è chi pensa che in realtà Sostrato, oltre a
progettare il Faro, ne abbia anche ideato e finanziato la costruzione. 9
L’isola di Faro era già nota a Omero (Od., IV, 335) il che significa a
coloro che frequentavano quelle acque ai tempi in cui fu composta la
Telemachia. Proprio il viaggio di Telemaco in cerca di notizie del padre
disperso è l’ambito in cui l’isola viene nominata. È in quei paraggi
infatti che Menelao è approdato tornando da Troia spinto da un
vento di settentrione. Nell’isola di Faro abitava Proteo, un vecchio che
dava oracoli. Era solito uscire dal mare verso mezzogiorno e mettersi
all’ombra vicino alle rocce con il suo gregge di foche. Era lì che
bisognava sorprenderlo. Il vecchio era bizzoso e si doveva
immobilizzarlo perché vaticinasse. Per sfuggire alla cattura egli poteva
assumere infinite forme, perfino trasformarsi in acqua o in fuoco. Non
bisognava spaventarsi e occorreva invece mantenere salda la presa.
Alla fine egli riprendeva il tranquillo aspetto di vecchio e dava il suo
vaticinio. Questa citazione tanto prestigiosa è dovuta probabilmente
alla presenza della baia, riparo per le navi che incrociavano sulle coste
dell’Egitto, dirette a occidente verso i grandi bacini minerari della
Betica, o spinte colà dai venti che flagellavano il capo Malea.
Secondo le ricostruzioni comunemente accettate, il Faro si
componeva di tre parti: una quadrangolare alta probabilmente una
sessantina di metri, una ottagonale e una terza cilindrica che si
suppone avesse un meccanismo rotante come i fari moderni. Nella
piazza delle Corporazioni, a Ostia, il faro è rappresentato due volte.
La prima come un edificio a tre piani di cui l’ultimo di forma
cilindrica; in sostanza forse una copia di quello di Alessandria, anche
se di dimensioni più contenute e con un fuoco stilizzato sulla cima.
L’altro invece è a quattro piani, sormontato da una statua.
Una riproduzione simile si trova su un sarcofago paleocristiano del
III secolo d.C. 10 Il faro qui è a quattro piani tutti poligonali, per cui
potrebbe non essere quello di Ostia come ipotizzato. Sulla sommità si
vedono dei raggi: non è chiaro se si tratti di fiamme stilizzate di un
fuoco o di raggi luminosi.
Interessante è altresì il mosaico del XIII secolo nella basilica di San
Marco, che rappresenta una scena della vita dell’evangelista
considerato il fondatore della chiesa alessandrina. In quel mosaico è
raffigurata una nave nel momento in cui entra nel porto e infatti uno
99
dei membri dell’equipaggio appare in atto di disalberare mentre un
altro lo coadiuva tenendo il pennone con una sartia. Il santo,
distinguibile per l’aureola, siede invece, benedicente, a poppa. Di
fronte si erge il faro, che ha in tutto tre piani di cui l’ultimo
sormontato da una cupola con tegole. Si direbbe una
rappresentazione di fantasia più che l’aspetto che effettivamente
doveva avere nel Medioevo.
Il Faro era talmente importante ad Alessandria che la principale
divinità dell’Egitto, Isis, aveva l’attributo di Pharia, ossia sua
protettrice, e ci resta una moneta del II secolo che la raffigura di
fronte alla torre. La struttura della costruzione appare incerta, ma vi
si riconoscono i tre piani, l’ultimo dei quali sormontato da una statua,
forse di Zeus o di Poseidone. 11
La grande torre, come è noto, sopravvisse fino al XIII secolo,
quando fu abbattuta da un terremoto. Ma a molti altri dovette
resistere, in tutto quel tempo. Sicuramente resistette al maremoto, un
autentico tsunami, che nel 365 d.C. si abbatté sul porto
scaraventando alcune navi sui tetti delle case e altre a diverse miglia
nell’entroterra. La descrizione che ne fa Ammiano Marcellino è
impressionante: l’acqua del porto dapprima si ritira cosicché molta
gente accorre a vedere il fenomeno, poi arriva la gigantesca ondata di
riflusso ed è la catastrofe. 12 C’è chi pensa che in quell’occasione la
tomba di Alessandro possa aver subito gravi danni, ma di certo
sappiamo che il Faro resistette e continuò a svolgere la sua funzione
per secoli.
Ma qual era il suo funzionamento? C’era solo un fuoco sulla
sommità, come vuole qualcuno? 13 Ed era questo sufficiente a lanciare
un raggio luminoso fino a 48 chilometri di distanza nella notte? Il
fuoco sarebbe stato visibile a tale enorme distanza solo per il fatto di
ardere a 95 o più metri di altezza?
È interessante a questo proposito considerare ciò che avveniva nel
più antico faro d’Europa, costruito nel 1128 a Genova e tuttora il
quinto del mondo per altezza (calcolando anche lo scoglio su cui si
erge, la Lanterna raggiunge infatti i 117 metri). Nei primi tempi la
Lanterna era alimentata con fasci di brugo secco, una pianta molto
simile all’erica, sicuramente ricca di cellulosa, per produrre un fuoco
bianco e molto luminoso. Le navi in ingresso nel porto erano tenute
100
comunque a pagare un contributo per l’acquisto del combustibile e
per la manodopera. In seguito furono apportate numerose migliorie,
fino a adottare ottiche moderne e girevoli su una piattaforma
circolare. Gli addetti erano tenuti a lucidare in continuazione i vetri e
anche a sostituirli quando i fulmini li colpivano o le torsioni e le
oscillazioni dovute alla forza delle tempeste li facevano incrinare o
andare in frantumi. La portata del raggio in queste condizioni era di
20 chilometri.
Questo premesso, possiamo ancora fidarci della testimonianza di
Flavio Giuseppe?
Studi recenti hanno avanzato un’ipotesi audace e affermato che la
vera meraviglia non era la torre in se stessa, che pure sfidò tempeste,
maremoti e terremoti, ma il meccanismo al suo interno. 14
In realtà, come spesso accade, le nostre fonti non ci forniscono dati
tecnici, ma si limitano a ricordare le principali caratteristiche del
monumento che, in questo caso, è una grande torre di segnalazione
che divenne il modello per molti altri fari e che a tutt’oggi rimane
l’archetipo di questo genere di costruzione. È probabile che non si
tratti sempre di distrazione o di differenza di interessi, ma
semplicemente del fatto che si preferiva mantenere i segreti
tecnologici. A Rodi, per esempio, una delle grandi potenze navali
dell’epoca ellenistica, c’era la pena di morte per chi veniva sorpreso a
spiare nei cantieri dove si costruivano navi da guerra di ultima
generazione (Strabone, Geografia, XIV, 2, 5). Né si sono mai saputi i
segreti di Helepolis, la possente macchina ossidionale di Demetrio
Poliorcete. I Cartaginesi avevano un sistema costruttivo simile alle
nostre linee di assemblaggio che consentiva loro di approntare grandi
flotte in tempi relativamente brevi, ma lo si è scoperto solo leggendo i
segni alfabetici sul fasciame della nave di Marsala. 15 Lo stesso segreto
proteggeva le rotte atlantiche dell’oro e dello stagno, e le rotte
transoceaniche recentemente ipotizzate. 16 Russo, nel suo ampio
studio sui risultati scientifici e tecnologici della ricerca ellenistica, fa
notare che, proprio nel periodo in cui si costruiva il Faro, ad
Alessandria e forse in altri centri di ricerca si sviluppava la catottrica,
ossia la scienza della rifrazione della luce, e si metteva a punto la
teoria delle coniche che in seguito permise la realizzazione di specchi
parabolici, quindi, probabilmente, di proiettori. Uno dei grandi miti
101
tecnologici dell’epoca erano i celebri specchi ustori con cui Archimede
avrebbe incendiato le navi di Marcello nel porto di Siracusa sotto
assedio nel 212 a.C.
Oggi quasi nessuno, a parte qualche irriducibile amatore, crede che
il grande scienziato siracusano avrebbe potuto sviluppare una simile
arma e soprattutto specchi di dimensioni enormi quali sarebbero stati
necessari per raccogliere e concentrare nel fuoco della parabola così
tanta energia solare. Questo sistema è oggi alla base della caldaia
solare costruita dal professor Carlo Rubbia in Sicilia e di altre
potentissime caldaie solari in Spagna. Ciò che importa, però, è che in
età ellenistica si parlasse di specchi parabolici. Russo ricorda che
Archimede aveva scritto un trattato di catottrica e che era in
corrispondenza con Dositeo, uno scienziato del Museo che aveva
costruito uno specchio in grado di far convergere i raggi del sole in un
punto. 17
Russo considera attendibile, come si è detto, la portata di 300 stadi
ossia di 48 chilometri riferita da Flavio Giuseppe, perché corrisponde
al limite della curvatura della Terra e all’orizzonte, e la controprova
sarebbe l’altezza eccezionale del Faro che non avrebbe senso se il
sistema della lanterna non avesse avuto la possibilità di rendersi
visibile da tale distanza. Una simile portata, d’altra parte, poteva
essere raggiunta solo tramite un riflettore, cosa che Russo ritiene
sicura perché i viaggiatori arabi che visitarono il Faro videro delle
superfici riflettenti di metallo. 18 È interessante notare che il cosiddetto
“faro di Abusir”, un monumento funebre molto più piccolo ma di
forma molto simile al Faro di Alessandria, distava 48 chilometri dal
suo gigantesco modello, la stessa distanza che Flavio Giuseppe
considera la portata massima della torre alessandrina. Si potrebbe
forse ipotizzare che fosse utilizzato come punto di osservazione per
misurare la portata stessa del Faro?
Russo pensa anche che la forma cilindrica della lanterna
significasse che era dotata di un meccanismo di rotazione per rendere
meglio visibile il raggio luminoso e consentire di distinguerlo da altre
sorgenti di luce, come le stelle. Dice infatti Plinio (NH, XXXVI, 83): “…
Il pericolo del sistema sta nella possibilità che, bruciando in
continuazione, questi fuochi siano scambiati per stelle”.
Non mancano pareri del tutto contrari a questa ipotesi. L’indagine
102
dei Romer, che tuttavia è precedente allo studio di Russo, fa
riferimento alle ipotesi di Thiersch 1909, nonché Thiersch 1915,
sull’uso di specchi e riflettori, definendole fantastiche e influenzate
dalla temperie scientifica e tecnologica dei primi del Novecento, e
nega recisamente che gli scienziati alessandrini ricavassero
applicazioni pratiche dalle loro teorie scientifiche. Ricorda che
l’economia schiavile impediva ogni progresso e che gli stessi scienziati
aborrivano le applicazioni pratiche dei loro studi perché le ritenevano
comunque attività indegne di uno studioso: in tal senso, qualunque
ipotesi di un’apparecchiatura tecnologica nella lanterna del Faro
sarebbe pesantemente viziata dalla mentalità modernista degli
studiosi che l’hanno formulata. 19
L’ipotesi di Russo è in realtà verosimile, e se il meccanismo esisteva,
come tanti indizi farebbero supporre, significa che qualcuno l’aveva
costruito. D’altra parte, la realizzazione di navi gigantesche (le
dimensioni e la stazza della “Siracusana” furono superate solo dalla
Victory di Nelson), di statue colossali, di macchine da guerra
formidabili, di catapulte capaci di lanci stupefacenti, di una torre alta
100 metri, di meccanismi per il sollevamento dell’acqua, di torchi, di
pompe a pistoni, di gru e paranchi, di strumenti topografici di
precisione, di meccanismi di calcolo astronomico come il meccanismo
di Anticitera recentemente sottoposto a TAC per scoprirne le
funzioni, sono indice di un fervore di inventiva che per forza doveva
coinvolgere gli ingegni migliori e manodopera altamente specializzata
e non solo la fatica fisica degli schiavi.
Certo, molti interrogativi restano e le risposte possono essere solo
ipotetiche: di che tipo era il fuoco? Com’era alimentato? Come veniva
trasportato il combustibile fino in cima alla torre? Come si smaltiva il
fumo? Come si evitava che le superfici riflettenti venissero
costantemente oscurate dalla fuliggine? Romer ipotizza che si
utilizzasse dell’olio, visto che il legname in Egitto è scarsissimo e di
pessima qualità, ma si può pensare forse alla nafta che si poteva
importare facilmente dal vicino Oriente o a additivi come cere e
resine. Il fumo avrà avuto le sue vie di fuga nella cupola della lanterna
e la pulizia si sarà fatta a mano come usava nella Lanterna di Genova
già nel XII secolo.
Il faro, come abbiamo detto, fu comunque opera di grande
103
successo, replicata a decine e decine di esemplari lungo tutte le coste
del Mediterraneo e dell’Atlantico, e fu opera longeva che era ancora
in funzione al tempo dell’invasione araba dell’Egitto.
L’ultima edizione italiana commentata di Plinio lo dice distrutto da
un terremoto nel 796, 20 mentre J. Y. Empereur dice che perdette in
quel frangente solo il terzo piano, cioè quello della lanterna. Lo
deduce dal fatto che il sultano Ibn Tulun, un secolo dopo, vi costruì
sopra una moschea, che dovette essere anche minareto, data l’altezza
del manufatto su cui insisteva. Quel primo urto dovette indebolire di
molto la struttura, che in seguito si rivelò assai più fragile, anche in
presenza di scosse di portata minore. Alla metà del secolo X, per
l’allargamento di alcune crepe, il monumento subì un crollo perdendo
22 metri di altezza, e un ulteriore crollo si verificò due secoli dopo. Gli
Arabi, però, cercarono anche di restaurarlo e gli interventi del
Saladino fecero sì che potesse sopravvivere fino al 1303, quando un
terremoto di grande magnitudo percepito in tutto il Mediterraneo lo
distrusse completamente.
Dalle testimonianze dei viaggiatori arabi, Ibn Battuta soprattutto, 21
si intuisce che, dopo quasi sedici secoli da che Sostrato di Cnido
l’aveva costruita e Tolemeo II inaugurata, la grande torre fosse quasi
completamente in rovina. Ma la meravigliosa struttura restò famosa
nel mondo arabo e divenne leggendaria in tutto il Mediterraneo. Nel
posto esatto in cui sorgeva, sull’estremità orientale dell’isola di Faro, e
con il reimpiego di molti materiali attinenti al rudere, verso la metà del
XV secolo fu costruito il forte di Quaitbey.
L’altro
grande
monumento
dell’architettura
urbanistica
alessandrina, l’eptastadion, con l’andare dei secoli è stato
completamente sepolto dai sedimenti marini per cui l’isola di Faro è
diventata una penisola e l’istmo ora ospita uno dei quartieri più
popolosi della città.
Al tempo dell’invasione napoleonica Alessandria era solo un
misero villaggio di pescatori proprio sull’istmo, cosicché l’intera area
urbana antica che si estendeva a sud era libera e avrebbe potuto
essere scavata integralmente. Oggi, purtroppo, una simile operazione
è impensabile.
Nel 1993 il Faro tornò al centro dell’attenzione internazionale
perché il governo egiziano aveva progettato la costruzione di una diga
104
proprio nella zona dove esso sorgeva anticamente. Venne coinvolto
nell’opera di salvataggio il francese Jean-Yves Empereur, un
archeologo subacqueo di grande esperienza, che aveva esplorato vari
siti in Grecia e sulla costa turca. La sua ricognizione ha portato alla
scoperta e al salvataggio di oltre tremila pezzi archeologici di
grandissima importanza: statue colossali, sfingi, leoni, colonne,
capitelli, blocchi di granito probabilmente appartenuti al Faro, uno
dei quali del peso di 75 tonnellate. L’area sulla quale erano disseminati
i pezzi scultorei e architettonici copre un’estensione di oltre 2 ettari in
direzione nordest e con un andamento arcuato e con decrescente
quantità di reperti a mano a mano che ci si allontana dalla costa. Il
che fa pensare a un crollo da terremoto, un po’ come accadde per il
Mausoleo che disseminò i suoi pezzi nell’adiacente “campo
dell’Imam”. Molte sono le sculture, diverse rappresentano divinità e
sovrani tolemaici.
Tanti secoli fa precipitarono in mare per la forza immane del
terremoto che squassò l’opera di Sostrato di Cnido. I grandi blocchi e
le statue affondarono con tonfi scroscianti, il peso della pietra li
trascinò e li adagiò sul fondo fra i riflessi ondulati del sole sulla
sabbia. Poi vi fu il silenzio dei millenni, finché gli stessi piccoli uomini
che avevano innalzato quella meraviglia, che l’avevano vista crollare
impotenti, che avevano saccheggiato il suo rudere enorme,
riapparvero come creature del mare nuotando tutto attorno, li
legarono e li sollevarono di nuovo alla luce accecante del sole perché
ancora una volta si parlasse e si sognasse della Settima Meraviglia, del
Faro di Alessandria.
105
L’Ottava meraviglia?
Non ha le prestigiose testimonianze di Plinio, di Giuseppe Flavio, di
Arriano e di Ammiano Marcellino, non è stato descritto da Pausania
o da Strabone ed è anche per questo che è rimasto nascosto, invisibile
e misterioso in un angolo di mondo remoto e ancora oggi poco
frequentato fra l’Anatolia orientale e la Siria settentrionale. Non
sappiamo il nome dell’architetto che l’ha innalzato, e le sue statue
gigantesche, decapitate dai terremoti durante venti secoli di gelo, di
folgori, di calura e di intemperie non sono state scolpite da scalpelli
famosi. Eppure si tratta di uno dei complessi e dei luoghi più
impressionanti e affascinanti del pianeta.
Fino a poco tempo fa, per assistere alla scena indimenticabile della
sua apparizione bisognava affrontare un viaggio malagevole, lungo
una strada polverosa che si inerpicava, tornante dopo tornante, fino
alla base della montagna, bisognava attraversare il ponte
dell’imperatore Settimio Severo, lanciato nel vuoto con un’arcata sola
sopra la corrente vorticosa e trasparente di un fiume di cristallo
liquido e blu nella luce incerta che precede l’alba, per poi arrivare
davanti al mausoleo sulla terrazza orientale al sorgere del sole. È
allora che il torrente Kahta s’incendia come una miccia dalla sorgente
fino alle sponde dell’Eufrate, è allora che le teste gigantesche e
attonite del re e dei suoi dei si animano quasi di un respiro
impercettibile, che i volti si arrossano, che le ombre dei colossi si
allungano sulla collina di pietra, vigilata da aquile e leoni. È allora che
si alza una brezza fredda e tagliente dopo aver sfiorato i picchi nevosi
del Tauro, e i colossi sembrano rabbrividire.
È il mausoleo di Commagene, la tomba-santuario del re Antioco I
Epifane Theos, discendente di Alessandro per parte di madre, di
Dario I il Grande per parte di padre, prediletto di Zeus e di
Ahuramazda, signore di un piccolo regno stretto fra giganti ringhiosi
e aggressivi: l’Impero Partico a est e l’Impero Romano a ovest.
L’idea di chi l’ha costruito è straordinaria perché utilizza come base
106
e sostegno una montagna intera, alta 2150 metri, nuda, aspra e
solitaria che si erge nell’Anatolia orientale vicino al confine con la
Siria: il Nemrut Dagi, la montagna dove, secondo una leggenda, il
mitico Nemrot, il re della torre di Babele, andava a caccia. Il mausoleo
sorge sulla sua vetta in forma di un tumulo conico fatto di breccia, di
scaglie di roccia scalpellate dalla montagna. Per ottenere una forma
perfettamente conica, le pietre non furono ammucchiate, ma versate a
caduta dall’alto cosicché, seguendo la forza di gravità, rotolavano,
scivolando una sull’altra in modo da creare una forma perfetta, di
quelle che solo le forze della natura possono plasmare.
A mano a mano che il cono di breccia si alzava, gli operai, salendo
da rampe di legno poste a intervalli identici l’una dall’altra,
continuavano a versare la breccia dai loro cesti, mentre migliaia di
scalpellini tagliavano la roccia creando in tal modo le spianate su cui
sarebbero stati innalzati i colossi e gli altari. E così, alla fine, il tumulo
raggiunse l’altezza di circa 60 metri e un diametro di 150, a coprire, si
suppone, la cripta funeraria, che peraltro non è mai stata localizzata.
A nord, a est e a ovest del grande tumulo furono create tre terrazze
di cui sono sopravvissute solo quelle a ovest e a est. La terrazza
orientale è la più impressionante. Sul suo lato occidentale si ergono le
cinque statue colossali (9-10 metri ciascuna) che rappresentano il re
attorniato dagli dei, più due aquile e due leoni. A est invece c’è un
altare del fuoco di forma piramidale secondo il rito zoroastriano. Il
recinto sacro era completato da due file di lastre scolpite, solo in
piccola parte conservate, che poggiavano su piedistalli della stessa
pietra grigia. A nord vi erano rappresentati gli antenati persiani di
Antioco fino al re Dario, ciascuno con il suo nome inciso sulla faccia
esterna della lastra, ora in frantumi. Sul lato sud c’era un altro recinto
di lastre su cui erano rappresentati gli antenati macedoni del re fino
ad Alessandro Magno.
In chiave propagandistica e di geopolitica era un messaggio chiaro:
la dinastia di Commagene non poteva essere trascinata a schierarsi né
con l’Oriente né con l’Occidente perché era parte di tutti e due per
ascendenza di sangue. Meglio che la Commagene mantenesse la sua
autonomia ed equidistanza nell’interesse di tutti.
La grande potenza a Oriente era stata dapprima quella dei
Seleucidi, che avevano ereditato l’Asia di Alessandro Magno ma non
erano mai stati in grado di tenerla, poi quella dei Parti, che nel 53 a.C.,
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quando Antioco I regnava da undici anni, sconfissero Crasso a Carre.
Nelle iscrizioni in greco, certamente molto posteriori a quella data,
Antioco aggiunge alla sua titolatura protocollare anche i nomi di
Filoromano e di Filelleno, probabilmente perché i Parti a quel punto
erano molto più temibili, e soprattutto vicini, di quanto non lo fossero
stati i Seleucidi.
Sulla terrazza occidentale c’era di nuovo il re assiso fra gli dei, ma
occorre ricordare che in ognuna di queste divinità in realtà si possono
riconoscere fino a quattro o cinque personificazioni diverse in
accordo con la tendenza sincretistica per cui gli dei sono gli stessi in
tutto il mondo, solo con nomi differenti. È qui, sulla terrazza
occidentale, che si trova il rilievo del leone che in realtà è un
oroscopo. Ci sono diciannove stelle sul cielo e sul corpo del leone e
una mezzaluna sul suo petto, e in alto tre pianeti in congiunzione –
Giove, Mercurio e Marte –, che indicano una data: il 7 di luglio del 62
o del 61 a.C., il giorno in cui Pompeo mise Antioco sul trono. La
terrazza settentrionale aveva lo scopo di collegare la via processionale
che univa la terrazza orientale a quella occidentale.
Anche sulla terrazza occidentale, a causa dei terremoti, le teste dei
colossi giacciono sparse sul terreno ma sono in generale meglio
conservate e conoscono al tramonto lo stesso fenomeno che si verifica
sulla terrazza orientale all’alba. Uno scenario emozionante e
commovente.
Incisa sul piedistallo dei colossi c’è una lunga iscrizione in greco,
scandita con numeri romani, su una superficie di 42 metri quadri, che
proclama la natura divina del re, l’intera sua titolatura e celebra la sua
opera: “Il grande re Antioco, Theos giusto, Epifane, Filoromano e
Filelleno ha scritto in lettere indistruttibili, su questi sacri basamenti e
per tutta l’eternità … Ho retto il mio regno con nobile governo grazie
ai miei pii sentimenti … Ho fatto una sede per tutti gli dei e dopo aver
ornato le rappresentazioni del loro aspetto con tutte le risorse dell’arte
conformi alle antiche tradizioni dei Persiani e dei Greci … Ho reso
loro meravigliosi onori con la celebrazione di sacrifici e di festività
cerimoniali … Dunque ho giustificato la mia intenzione di erigere,
vicino ai troni celesti, e su fondamenta invincibili dagli insulti del
tempo, questa tomba santuario dove il mio corpo dormirà in un
eterno riposo separato dalla sua anima pia che prenderà il volo verso
le regioni celesti di Jupiter Ahuramazda…”.
108
La lunga iscrizione è espressione di uno straordinario e ricco
sincretismo di Oriente e Occidente. La separazione dell’anima dal
corpo come nella tradizione orfica ma anche cristiana, la tradizione
greca e persiana e infine il dio supremo che è Jupiter ma anche
Ahuramazda. L’iscrizione, nelle sue ultime righe, si rivolge a chiunque
in futuro avrebbe preso il potere, intimandogli di rispettare la regola
di quel luogo e anche tutti gli dei e tutti gli spiriti: “Quelli di
sentimenti irreligiosi e contrari al rispetto degli spiriti sappiano che si
faranno nemici gli dei, senza contare la nostra maledizione”.
Ciò che più impressiona è che nessuno sapeva niente di questo
meraviglioso monumento (benché nel Medioevo fosse noto ai cristiani
siriani) fino al 1881 quando un tecnico tedesco, Charles Sester, ne
sentì parlare dai suoi collaboratori curdi e riferì la cosa al console
tedesco a Smirne. Costui fece circolare la notizia negli ambienti
accademici berlinesi. Questi mostrarono di non avere alcun interesse
per quel complesso monumentale sulla vetta di una montagna, ma un
archeologo, Otto Puchstein, accettò di incontrarsi con Sester ad
Alessandria in Egitto. Nel 1883, Puchstein, assieme a Carl Humann
che aveva lavorato al recupero dell’altare di Pergamo, organizzò un
sopralluogo in piena regola, sponsorizzato dal feldmaresciallo Von
Moltke, il vincitore di Sedan.
Tuttavia fu necessario attendere il 1953 perché Theresa Goell
dell’American School of Oriental Research iniziasse a scavare il
tumulo. A quel tempo era una delle pochissime donne che facevano la
professione di archeologo e la sua passione era tale che lasciò marito
e figlio per dedicarvisi a tempo pieno. Sembra che i suoi metodi di
esplorazione fossero piuttosto bruschi: pare abbia usato esplosivo per
aprire il tumulo ottenendo il solo risultato di abbassarlo di una decina
di metri. Era convinta che sotto vi fosse la cripta con le ceneri (o il
corpo) del re e il suo tesoro. Finora le ricerche non hanno dato
risultato.
L’isolamento e la difficile accessibilità hanno protetto il mausoleo
per quasi diciannove secoli anche se, contrariamente ai voti di
Antioco, gli insulti del tempo e anche degli archeologi hanno lasciato i
loro segni. Privati della pelle di intonaco che doveva proteggerli dalle
fortissime escursioni termiche e dalle intemperie e creare le sembianze
delle membra, i colossi mostrano i grandi blocchi di muratura a secco
109
di cui sono fatti. Malgrado ciò, i volti crollati al suolo rivelano il segno
di mani esperte e di uno stile ben riconoscibile del tardo ellenismo.
Purtroppo, un progetto di restauro del santuario di Antioco I
messo in atto già da diversi anni da archeologi turchi e olandesi ha
sollevato le teste maestose appoggiate sulla terrazza orientale e le ha
collocate fra le gambe dei loro originali proprietari, creando un effetto
grottesco, al limite del ridicolo. Lo scopo, a quanto risulta, sarebbe
quello di isolare le teste dal fondo della spianata per proteggerle
dall’umidità e dal gelo. Per questo ognuna di esse è stata appoggiata
su un fondo di breccia come quella del tumulo. L’attuale sistemazione
sarebbe “più razionale”: espressione ben più difficile da interpretare
che le chiare lettere dell’iscrizione di Antioco.*
Se questo non bastasse, per agevolare i turisti, si sono piazzate due
rampe lastronate in cemento grigio chiaro che sfregiano brutalmente
l’integrità della vetta del Nemrut Dagi, lo percorrono dalla base alla
cima e sono visibili da lontano. Per fortuna, la forte escursione
termica tra estate e inverno e fra giorno e notte ha già iniziato la sua
opera di demolizione che, si spera, proceda il più possibile spedita.
Prima esisteva un sentiero acciottolato con gradini lunghi e poco alti,
dello stesso colore della montagna, di fatto quasi invisibile, che
potrebbe essere recuperato.
Quella che qualche studioso in Turchia ha già definito come
l’Ottava Meraviglia del mondo antico sta rischiando non poco. C’è da
augurarsi che le cose vengano ripristinate come erano. La fortissima
delusione di chi ha già visto la terrazza orientale e la rivede ora è il più
eloquente dei commenti.
Da questo viaggio attraverso le meraviglie perdute del mondo
antico, alcune distrutte completamente, altre ridotte a poche schegge
informi, altre ancora spogliate e sfigurate come la Grande Piramide, la
cui mole soltanto ha sfidato la stupidità umana, emerge una
conclusione amara: nessuna opera d’arte, per quanto grande e
mirabile, sopravvive alla civiltà che l’ha creata se i posteri non la
considerano un’eredità preziosa da salvaguardare e da trasmettere a
coloro che verranno. Evitando allo stesso tempo il conservatorismo
estremista, che pure – per altre ragioni – può rivelarsi letale.
Il mausoleo di Commagene, eretto duemila anni fa da un piccolo re
di un piccolo, effimero stato è giunto fino a noi per una specie di
miracolo, così come era accaduto per i Buddha di Bamyan,
110
polverizzati poi dall’esplosivo talebano. Toccherà a noi, uomini del
XXI secolo, impedire ogni forma di scempio e dimostrare di meritare
questa meravigliosa eredità.
* Questa la risposta che fu data a chi scrive dal direttore della missione,
interpellato via mail.
111
Note
112
Il giardino impossibile
1. Anche il governatore di Siria, Belesis, ha un bellissimo parco dove cresce
frutta in ogni stagione (Sen., Anab., I, 4, 10)
2. L’Eden ha un corrispettivo nel “paradiso” che gli autori antichi
immaginavano fosse alle Isole Beate, poste nell’estremo Occidente. Vedi una
rassegna commentata delle fonti principali in Manfredi, 1993 e
aggiornamenti nell’edizione spagnola Manfredi 1997.
3. La lista delle Sette Meraviglie del mondo si ritiene generata intorno al 140 a.C.
da Antipatro di Sidone, ma l’elenco primo e completo deve essersi generato
prima, fra gli inizi del III secolo, quando era stato inaugurato il Faro di
Alessandria nel 280, e il 227 quando un terremoto abbatté il Colosso di Rodi
(che però, anche abbattuto, continuò a essere oggetto di meraviglia). L’opera
De septem orbis spectaculis è attribuita a Filone di Bisanzio, uno scienziato e
ingegnere, forse allievo di Ctesibio e probabile frequentatore del Museo e
della Grande Biblioteca. Si data il suo floruit intorno alla fine del III secolo.
La sua opera, molto vasta, ci è pervenuta solo in minima parte. Non pochi
studiosi sono convinti che la paternità dell’elenco dei septem spectacula gli sia
stata attribuita da un autore tardo (V secolo d.C.) per conferire autorevolezza
alla propria opera. Cfr. Philo Byzantii, De septem orbis spectaculis, con note
critiche e indici di R. Hercher, s.v. “Hortus pensilis”, Parisiis MDCCCLVIII.
4. Diodoro smentisce subito le storie dei Greci (Ctesia?) che attribuiscono a
Semiramide la costruzione dei Giardini. In generale, a proposito di questa
mitica regina identificata dagli assiriologi con Samurammat, vedi Pettinato,
1985, pp. 381 ss.
5. Vedi le illustrazioni da Dalley, 2013, pp. 24 e 25.
6. Pettinato, cit., p. 17, attribuisce a Nebuchadrezzar i Giardini Pensili; id., 1992,
pp. 162 ss. per l’avventura di Gilgamesh ed Enkidu nella foresta dei cedri
contro il mostro Humbaba.
7. Per i sistemi di sollevamento dell’acqua vedi l’esauriente trattazione di White,
Water raising equipment, 1984, p. 32, e ivi numerose citazioni dalle fonti
antiche. Per la coclea in particolare vedi anche AA. VV., Artifex, 2002, p. 129.
8. Vedi Dalley, cit., p. 32.
9. White, cit., p. 33, fig. 23, la variante vitruviana con catena della ruota a secchi.
Vedi anche per la ruota idraulica, Artifex, cit., pp. 131-33.
10. Vedi la ricostruzione ideale della pompa a pistoni di Ctesibio (maestro di
Filone di Bisanzio) in Artifex, cit., p. 134; schemi grafici di funzionamento e
pezzi originali a p. 136.
11. Dalley, cit., p. 63.
12. Ibid., pp. 3-33. La sua immediata citazione di I. Finkel nel libro di AA. VV.
sulle Sette Meraviglie del mondo antico a cura di P. Clayton 1988 e di J. e E.
Romer, 1995, ambedue contrari all’idea dell’esistenza dei Giardini Pensili a
Babilonia, rivela subito le sue convinzioni.
113
13. A sua volta Ctesia è la fonte principale della vita di Artaserse di Plutarco ed
è nominato da Senofonte nell’Anabasi come mediatore fra il Gran Re e il
comandante dei Diecimila Clearco. Egli avrebbe, per sua stessa affermazione,
curato Artaserse di una ferita riportata nella battaglia di Cunassa (401 a.C.),
contro suo fratello Ciro il Giovane che voleva spodestarlo e possibilmente
ucciderlo. Fu sempre Ctesia (Plutarco, ibid.) a narrare l’esecuzione dei
comandanti greci dell’esercito dei Diecimila caduti in un’imboscata a nord di
Ninive nei pressi dell’attuale città di Zacho.
14. Vedi infra, l’episodio di Clearco e del pettine.
15. Dalley, cit., vedi l’illustrazione a p. 50 che richiama in effetti certe
interpretazioni grafiche con i pilastri e i piani pensili.
16. Ibid., p. 46.
17. In Clayton e Price, cit., p. 42. Nondimeno G. Pettinato ritiene che non ci sia
motivo di pensare che i Giardini Pensili siano realmente esistiti e costruiti da
Nebuchadrezzar: Pettinato, cit., pp. 380 ss.
18. Vedi per confronto l’elenco di Romer, cit., p. 163. Le traduzioni di questi
elenchi restano sempre problematiche per il riconoscimento di una specie
vegetale.
114
La Grande Piramide
1. Erodoto dedica tutto il libro II all’Egitto, esplorando usi, costumi, riti e
cerimonie, mitologia, ma anche minuzie della vita quotidiana, come
proteggersi dalle zanzare o allevare i gatti, e in più descrive il folklore locale.
Dichiara che le sue fonti sono stati soprattutto i sacerdoti dei grandi templi
custodi di tradizioni millenarie. Noi facciamo riferimento all’edizione della
Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1988, con testo, introduzione e commento
a cura di Alan B. Lloyd. Le fonti egiziane sono molto numerose e le citeremo
solo in caso di diretti riferimenti. Quanto a Manetone abbiamo fatto
riferimento all’edizione Loeb e al testo con traduzione a fronte di W.G.
Liddel, London 1940.
2. Chioffi e Ripamonti, 2008, vol. II, I racconti di Cheope, pp. 229 ss.
3. La descrizione di queste strutture si basa prevalentemente sulla rigorosa
analisi di Cimmino, 1990, pp. 146-75.
4. Vedi anche Clayton in Clayton e Price, 2003, p. 30.
5. Vedi quarta figura nell’inserto in Cimmino, cit.
6. Flinders Petrie, 1883, p. 197.
7. Cimmino, cit., p. 147.
8. Clayton, cit., pp. 21-22.
9. Ibid., pp. 22 ss. Una serie di proposte interessanti e sensate.
10. Mendelsson, in Clayton e Price, cit., p. 179.
11. Vedi, in generale e con ampia documentazione iconografica, Schiltz, 1991, e
trad. it. 1995.
115
Lo Zeus di Fidia a Olimpia
1. Per una panoramica prevalentemente descrittiva su questo genere di
immagini vedi EAA, s.v. “Crisoelefantina, tecnica”.
2. Canaco aveva creato anche un’altra statua crisoelefantina di Afrodite a
Sicione: “L’Afrodite è in oro e avorio, porta sulla testa un polos e ha in una
mano un papavero, nell’altra un pomo” (Paus., II, 10, 5). È interessante notare
che la dea porta il polos come l’Artemide efesia.
3. Riprodotta in EAA, s.v. “Atene”, vol. I, p. 804, fig. 1008.
4. Grifoni secondo Pausania (I, 24, 5).
5. Pausania dice che il pennacchio dell’elmo e la punta della lancia si vedevano
dal Pireo.
6. Cfr. Price, 1988, p. 68.
7. Cfr. Papini, 2014, e ivi bibliografia relativa allo scavo del Deutsches
Archäologisches Institut, 1958.
8. Price, cit., p. 67, figg. 19 e 20.
9. Ibid., fig. 21.
10. Vedi Pausanias, Description of Greece, LCL, libro V, p. 439, nota 1.
11. Clemente Alessandrino (Clem. Al., Protr., IV, p. 47) gioca sul doppio senso:
Pantarke infatti significa letteralmente “Onnipotente”, ma non si riferiva a
Zeus nel senso di “l’Onnipotente (Zeus) è bello” bensì all’amato di Fidia (che
aveva quel nome).
12. Questa fu l’impressione degli studiosi appena la testa fu ricomposta.
L’assoluta perfezione e nobiltà dei lineamenti e lo stile inconfondibile di
Fidia lasciano pochi dubbi che questa sia la riproduzione più prossima al
volto del dio olimpico. Vedi Bonacasa e Ensoli (a cura di), 2000, pp. 137-38 e
fig. a p. 190.
13. Sullo Zeus nel palazzo di Lauso vedi Giorgio Cedreno, Hist. Comp., 1647, p.
322B, vol. I. Di Lauso sappiamo inoltre che fu il committente della Storia
Lausiaca di Palladio di Galazia sulle vite degli eremiti.
116
Il Colosso di Rodi
1. De septem orbis spectaculis è il titolo che ci è pervenuto dell’opera di Filone di
Bisanzio e l’elenco include il Colosso di Rodi. Il racconto inizia con un tono
molto enfatico per poi dedicarsi invece a una descrizione tecnica che si può
considerare interessante per la comprensione del monumento.
2. Gli idoli aniconici sono quasi sempre antichissimi. Nei santuari molto antichi
che giungono fino al Paleolitico si vedono pietre vagamente antropomorfe o
zoomorfe essere oggetto di culto ma ciò è riscontrabile anche in tempi storici.
Nel tempio di Afrodite a Paphos l’immagine della dea era aniconica e a
forma di spirale.
3. Vedi Higgins, 1988, p. 122, e in particolare, per il significato della parola
kolòssos, Benveniste, 1932, p. 118.
4. Così Guidoboni, 1994, p. 140: “This is the disastrous earthquake which caused
the famous colossus of Rhodes to collapse”.
5. Romer, trad. it. 1998, p. 53, opta per la fortezza di San Nicola all’imbocco del
porto.
6. In realtà non abbiamo una sola prova che la testa del Colosso fosse radiata,
ma la cosa è verosimile dal momento che rappresentava Helios, il Sole,
protettore dell’isola.
7. Vedi, sul prodigio dei colossi di Memnone, Bowersock, 1984, pp. 21-33.
8. L’episodio avvenne durante le guerre dei Diadochi e degli Epigoni, quando
Rodi era ricchissima, indipendente e divenne una sorta di provocazione per
l’imperialismo suo e di suo padre Antigono Monoftalmo. Per gli eventi di
quell’anno e per il ruolo di Rodi nell’epoca, vedi CAH, vol. V, trad. it., pp. 430
ss.
9. Lane Fox, 1986 (terza edizione), p. 191: “Diades the Greek … in a work on
technical engineering … is later described as the man who besieged Tyre
with Alexander. The fall of the city perhaps owned more to the drawingboard than will ever been known”.
10. Plinio oppone qui i colossi realizzati in Italia a quelli greci: vedi le note 1-3 a
XXXIV, 43, in Plinio, Torino 1988, p. 157.
11. Grosse pietre erano ancora visibili all’interno del Colosso caduto e spezzato
ai tempi di Plinio (NH, XXXIV, 18, 41): “All’interno si possono vedere pietre di
dimensioni enormi che Carete aveva usato per dare stabilità alla statua
mentre la costruiva”.
12. Diversamente da Higgins, cit., p. 124.
13. Vedi Maryon, 1956, fig. 10, p. 71.
14. Higgins, cit., p. 124, propende, con maggiore verosimiglianza, per
interpretare la figura come quella di un atleta vittorioso che si pone sul capo
la corona della vittoria.
117
15. Vedi fig. 10, p. 81. Ma, in fig. 3, p. 72, dove la sagoma disegnata del Colosso è
chiaramente ispirata al bassorilievo di cui in n. 15 in quanto regge il mantello
con il braccio sinistro, si rappresenta tuttavia il Colosso con il braccio destro
ripiegato ma in atto di pararsi gli occhi dalla luce. Il che appare bizzarro visto
che la statua rappresentava la fonte stessa della luce, il Sole.
16. Probabilmente perché, a partire da una certa quota, solidali con il torso.
17.Maryon, cit., pp. 68-86.
18. L’immagine sul recto dei tetradracmi d’argento del British Museum ha la
testa raggiata. Vedi Maryon, cit., fig. 4, p. 73.
19. Higgins, cit., pp. 127-28.
118
Il Mausoleo di Alicarnasso
1. Lucano, Pharsalia, VIII, 697; la tomba di Alessandro viene rappresentata qui
come un sacratum antrum (ibid., 694), e anche più avanti (X, 19), come un
effossum antrum, nel quale Giulio Cesare discese con trepidazione per rendere
omaggio al grande sovrano.
2. Di questa prima sepoltura danno notizia Curzio Rufo, Storie di Alessandro
Magno, X, 10, 10, e Pausania, Periegesi della Grecia, I, 6, 3, e inoltre un breve
passo del Marmor Parium, un’iscrizione che riporta la cronologia degli eventi
della storia dei Greci dal mitico re Cercope fino a circa la metà del III secolo
a.C. Stando a questa iscrizione, in una data corrispondente al 321-320 a.C.
“Alessandro fu collocato a Menfi…”. Per ulteriori osservazioni e bibliografia,
si rimanda a Manfredi, 2009.
3. Strabone, Geografia, XVII, 1, 8; Zenobio, Proverbi, III, 94; soprattutto Achille
Tazio, Le avventure di Leucippe e Clitofonte, V, 13.
4. Uno scavo su larga scala di quest’area della città è stato eseguito all’inizio
degli anni Sessanta dello scorso secolo dalla missione polacca diretta da K.
Michalowski, per i cui primi rendiconti vedi Michalowski, 1966 e Kubiak,
1966.
5. Vitruvio, De architectura, II, 8, 11.
6. Vedi Newton, 1862.
7. Vedi Aerias, 1961.
8. Vedi Buschor, 1950.
9. J. e E. Romer, 1989, p. 112.
10. Vedi Vlad Borrelli, 1959.
11. Sulla collocazione di tutte le statue del Mausoleo, vedi Waywell, 1988, pp.
113-14, il quale ipotizza per le statue di Mausolo e Artemisia una posizione
fra le colonne del peristilio, pur riconoscendo l’inesistenza di prove a
conferma della sua ipotesi. Vedi anche Waywell, 1978.
12. Luciano, Dialoghi dei morti, 24, fa dire a Mausolo: “Sono alto, bello e forte”.
13. Vedi Gros (a cura di), Vitruvio, 1997, nota 98 a II 8, 11, vol. I, pp. 200-203.
14. Vitruvio, De architectura, II, 8, 1: “… platea ampla facta, in qua media
Mausoleum ita egregiis operibus est factum ut in septem spectaculis nominetur”. È
questo uno dei primi casi in cui il termine latino platea acquisisce il
significato di piazza, slargo, distanziandosi dal greco platèia che indica una
via ampia: vedi Gros (a cura di), Vitruvio, cit., ibid., in part. p. 200.
15. Vedi Waywell, 1989, p. 109.
16. Alla descrizione di Vitruvio attinge senz’altro Plinio, il quale, come Vitruvio,
riferisce di lastre di marmo di Proconneso che ricoprivano le pareti della
reggia costruite in laterizio (NH, XXXVI, 47).
17. Waywell, 1989, p. 115.
119
18. In particolare sulle scene di Amazzonomachia, vedi Keuls, 1993, pp. 44 ss. e
passim, con relativa iconografia.
19. Vedi Gros (a cura di), Vitruvio, cit., nota 98 a II 8, 11, vol. I, in part. p. 201.
20. Cfr. Waywell, 1989, pp. 109-10.
21. Per una ricostruzione del Mausoleo fondata, insieme ai risultati dello scavo,
sull’interpretazione del passo di Plinio (NH, XXXVI, 30-31), è considerato
fondamentale Jeppesen 1986, pp. 13-113, le cui ipotesi hanno tuttavia
suscitato perplessità soprattutto in alcune proposte di misure: vedi Conte (a
cura di), Plinio, 1982-1988, nota 2 a XXXVI 30, vol. V, in part. p. 567.
22. Waywell, 1989, pp. 100-101.
23. Per questa straordinaria scoperta, vedi Andronikos, 1978, e inoltre
Andronikos, 1977 e Andronikos, 1981.
24. Vedi Waywell, 1989, p. 104.
120
L’Artemision di Efeso
1. Vedi AA.VV., 1994, nr. 59, la dea con il grande serpente, medio minoico
periodo III, Museo di Herakleion, cat. 66 e nr. 60, la dea dei serpenti cat. 63.
Figure con animali (serpenti) sono spesso associate alle Menadi che
frequentano i boschi.
2. Vedi Berti e Gasparri (a cura di), 1989 (Dionysos. Mito e Mistero), fig. 39;
Boardman, 1997, Athenian Red Figure Vases, The Archaic Period, fig. 207, e
inoltre l’ansa del cratere François che rappresenta Artemide come potnia
theròn mentre tiene per il collo un cervo e una pantera. A volte l’iconografia
stessa della dea include figure di animali di ogni genere. Anche un leoncino
sulle braccia, (EAA, s.v. “Artemide”, p. 694), elemento iconografico identico a
quello della Menade di fig. 39, Boardman, cit. Anche la dea Cibele, pure di
provenienza asiatica, è sempre rappresentata assieme a fiere. Vedi la
trattazione mitologica in Burkert, 1982, pp. 99 ss.
3. Vedi le prime relazioni di scavo in Wood, 1877.
4. A Wood fa seguito Hogarth, 1908, che riesce a documentare una continuità di
culto molto ampia. Va ricordato che Efeso era una delle più antiche
fondazioni coloniarie della Ionia, legata all’arrivo mitico delle Amazzoni, ma
che la tradizione faceva comunque risalire all’XI secolo in epoca sub micenea
con attribuzione all’eroe eponimo che l’avrebbe fondata. Sulla collina dietro il
teatro sono state trovate tracce di un santuario antichissimo.
5. Vedi Trell, in Clayton e Price, 1988, p. 68.
6. Basti pensare alle tholoi di Sant’Angelo Muxaro, che hanno condotto a
identificarla con la mitica Kamikos, sede del re Sicano Kokalos che avrebbe
dato ricetto a Dedalo fuggiasco dal labirinto di Minosse. La vicina Heraklea
Minoa rinsaldò la convinzione di un aggancio alla tradizione mitologica.
Alcuni elementi di corredo l’hanno riconfermata. Cfr. Orsi, 1932, fig. 3.
7. Vedi Coulton e Catling, 1993 per la seconda fase, in generale le pagine
dedicate all’argomento in Lippolis, Livadiotti e Rocco, 2007, e Stierlin, 1998, p.
42 per il grafico complessivo delle tre fasi successive a partire da una
struttura absidata con pareti di argilla e paglia.
8. L’iscrizione è pubblicata e integrata da Smith, 1928: βα[σιλεύσ] Κρ[οίσοσ]
ανε[θεκ]εν, “Lo innalzò il re Creso”.
9. Vedi in EAA, s.v. “Efeso”, grafico della pianta dell’Artemisio, p. 222. Cfr.
anche Trell, 1988, in Clayton e Price, 1988, p. 77, fig. 24.
10. Vedi G.B. Conte (a cura di), Torino 1988, vol. V, nota 2, pp. 651-53.
11. Evidenziate graficamente in Stierlin, cit., p. 49.
12. Vedi EAA, s.v. “Efeso”, p. 222, fig. 275.
13. Ancora in EAA, s.v. “Artemide”. Cfr. inoltre Trell, cit., in Clayton e Price, cit.,
p. 77 rievoca i grandi scavi di Wood assolutamente pionieristici e che
121
precedettero addirittura quelli di Schliemann. La pianta del tempio riportata
nel testo fa riferimento alle centoventisette colonne menzionate da Plinio,
che gli archeologi hanno dovuto posizionare in maniera logica e accettabile.
Romer, 1995, p. 175, riproduce direttamente il diario di esplorazione e di
scavo di Wood che, con straordinaria determinazione e ostinazione, seppe
fronteggiare ogni difficoltà fino a localizzare il fantomatico Artemision.
14. Trell, 1988, cit. riporta dell’altare una ricostruzione grafica, in Clayton e Price,
cit., p. 77, fig. 24.
15. Si vedano inoltre l’esemplare del Museo dei Conservatori in EAA, s.v.
“Artemide”, p. 692, fig. 888, e quello del Museo Archeologico di Napoli, le
sculture antiche della collezione Farnese, n. 115, la statuetta della collezione
universitaria bolognese, dove al posto del polos c’è una corona di torri, forse a
significare la protezione della dea sulla città di Efeso. Nella stessa figura 24,
(cfr. supra, nota 14) B.L. Trell (cit.) disegna anche la finestrella attraverso la
quale si poteva intravvedere la statua della dea. In un passo dell’Anabasi (V,
3), Senofonte riferisce di aver edificato, in un suo podere a Scillunte, un
tempietto, una sorta di Artemision in scala ridotta, come ex voto della sua
avventura e dei tanti pericoli scampati. Dice anche che nel tempietto aveva
messo uno xoanon di cipresso che somigliava all’Artemide efesina che però
era d’oro (χρυσω), intendendo con questo probabilmente riferirsi alle ricche
vesti di cui era quasi del tutto coperto il simulacro della dea che era uno
xoanon di ebano.
16. Trell, cit., apre il suo capitolo sull’Artemision (p. 75) proprio citando le amare
parole con cui E. Gibbon descrisse lo scempio del santuario efesino
perpetrato dai Goti.
122
Il Faro di Alessandria
1. Vedi Bosio, 1983, per una descrizione completa della Tabula, e inoltre i più
recenti Prontera, 2003 e Talbert, 2010. La mappa, che consiste nell’unione di
undici pergamene, per una lunghezza totale di quasi 7 metri, ed è
attualmente conservata a Vienna nella Österreichische Nationalbibliothek
(Codex Vindobonensis 324, datato al XIII secolo), prende il nome dal suo
secondo proprietario, l’umanista tedesco Konrad Peutinger.
2. La carta è con ogni probabilità il risultato di una stesura progressiva, quasi a
blocchi, che si è protratta forse attraverso un arco di tempo considerevole
come indurrebbero a ritenere alcuni indizi, quali per esempio la
rappresentazione della città di Pompei, che dopo l’eruzione del 79 d.C. non fu
più ricostruita, e quella di Costantinopoli, fondata nel 328 d.C. Tuttavia, si
tende a collocare il momento redazionale più importante e definitivo tra il
365 e il 366 d.C., osservando la rappresentazione personificata di sole tre
città, Roma, Costantinopoli e Antiochia, che proprio in quegli anni furono
contemporaneamente capitali dell’Impero.
3. Ne è un esempio la corrispondenza tra Archimede e Dositeo, matematico
alessandrino, al quale Archimede, rientrato a Siracusa dopo un proficuo
periodo di studi ad Alessandria, indirizza alcune tra le sue opere più
importanti scritte proprio di ritorno da quel soggiorno durato circa tre anni,
accompagnandole con epistole rivolte all’amico, come i trattati sulla sfera e il
cilindro, su conoidi e sferoidi, sulle spirali e sulla quadratura della parabola:
vedi Reviel Netz, 2007, pp. 65-66.
4. Conosciamo il corobate solo attraverso la descrizione che ne fa Vitruvio in
una sezione del libro sugli acquedotti (De architectura, VIII, 5, 1-3): si trattava
di uno strumento utilizzato nel livellamento dei canali e delle condotte
idriche, considerato più preciso della livella ad acqua. Era costituito da un
regolo alle cui estremità erano fissati dei sostegni: al di sotto dei sostegni
erano due traverse con linee tracciate per indicare la perpendicolarità,
mentre appesi al regolo vi erano due o quattro fili di piombo che indicavano
sulle linee delle traverse la posizione orizzontale. Se le informazioni di
Vitruvio sono esatte, il corobate doveva avere la lunghezza di 20 piedi, cioè
circa 6 metri, una dimensione considerevole che lo rendeva non facile da
maneggiare: vedi Adam, 1982, pp. 1025 ss.
5. White, 1984, p. 15, fig. 3 e p. 80, figg. 72, 73, 74.
6. Vedi Lane Fox, 2004, p. 191.
7. Vedi Russo, 2001, p. 144; Clayton e Price, 1989, p. 140, riportano un’altezza di
60 metri per il primo piano, di 30 per il secondo e di 15 fino alla punta del
tridente (o dello scettro) della statua di Zeus Soter, che, nella sua
interpretazione, coronava il terzo piano, per complessivi 105 metri. Tra le
123
molte “letture” del monumento enorme fortuna ha avuto Thiersch, 1909, che
raccolse e analizzò tutte le notizie sul Faro di Alessandria disponibili al suo
tempo provenienti da diverse tipologie di fonti (letterarie, archeologiche,
iconografiche, numismatiche), e propose tentativi di ricostruzione che
ebbero anche influenza sull’architettura moderna degli anni Venti e Trenta
del Novecento: cfr. J. e R. Romer, 1989, p. 93.
8. Vedi Russo, cit., nn. 83-84, p. 144.
9. È Fraser, 1972, riportato in Clayton e Price, 1989, p. 137, che riconosce Sostrato
quale finanziatore, anche sulla scorta di Strabone che riferisce la dedica
scritta sul Faro: “Sostrato di Cnido, amico dei sovrani, ha dedicato questo
edificio per la sicurezza dei naviganti” (Geografia, XVII, 1, 6).
10. In Empereur, 2004, p. 84.
11. Sulle ipotesi di identificazione della statua, o delle diverse statue che nel
corso dei secoli furono collocate alla sommità del faro, cfr. J. e E. Romer, 1989,
p. 92.
12. Rerum gestarum libri, 26, 10, 15-19. Ammiano Marcellino, unico testimone per
noi dello tsunami che si scatenò poco dopo l’alba del 21 luglio 365 d.C., ebbe
esperienza diretta del terribile evento. Sulla sua intensa descrizione, cfr.
Gavin, 2004.
13. Vedi J. e E. Romer, 1989, pp. 96-97.
14. Vedi le osservazioni di Russo, 2001, pp. 144-46.
15. Sulla nave di Marsala e sul significato dei segni alfabetici riscontrati sul suo
fasciame vedi Medas, 2000, pp. 169-84. I segni rappresenterebbero i
riferimenti per una sorta di montaggio in serie che spiegherebbe la capacità
dei Cartaginesi di approntare intere flotte in pochi mesi.
16. In proposito vedi Manfredi, 1993, in particolare il commento a Diodoro, V,
19-20, e p. 54 per quanto concerne la preoccupazione cartaginese di non avere
concorrenti sulle rotte atlantiche, e ancora sull’isola nell’Oceano con fiumi
navigabili e abbondanza di frutti, vedi il commento a Pseudo Aristotele, De
Mirabilibus, pp. 73 ss. Sull’argomento è tornato di recente Russo, 2013 sul
presupposto di una rilettura delle misurazioni tolemaiche della Terra. Vedi
capp. 6-8.
17. Sulla corrispondenza tra Archimede e Dositeo, vedi supra, nota 3. L’esistenza
di un trattato di catottrica scritto da Archimede è testimoniata da Teone, nel
Commento al I libro dell’Almagesto (vedi Theon, 1936, pp. 347-49), e da
Apuleio (Apologia, XVI), che, tra gli argomenti affrontati dallo scienziato di
Siracusa, annovera particolari specchi dotati di questa caratteristica. Sulla
catottrica, vedi Russo, 2001, pp. 82-90.
18. Vedi Russo, cit., n. 13, p. 144 e Fraser, 1972, vol. II, p. 46, che riporta una
rassegna delle fonti arabe sul Faro. Vedi anche Empereur, 2004, p. 87.
19. Vedi J. e E. Romer, 1989, pp. 94-96.
20. Vedi Conte (a cura di), Plinio, 1982-1988, vol. V, p. 637, n. 1.
124
21. Vedi Tresso (a cura di), Ibn Battuta, 2006, p. 18 e inoltre n.1. Ibn Battuta
afferma di aver visitato il Faro e di aver visto solo un “edificio quadrato che si
staglia contro il cielo”, il che farebbe pensare che il piano ottagonale e quello
cilindrico fossero crollati. L’edificio era tuttavia frequentato quotidianamente
e la passerella di tavole di legno era ritirata probabilmente ogni notte così
che non vi potesse entrare nessuno.
125
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128
Inserto fotografico
129
I Giardini Pensili di Babilonia
Ricostruzione dei Giardini Pensili di Babilonia in un dipinto di scuola inglese
del XX secolo. (Collezione privata. Foto © Look and Learn/Bridgeman
Images/Mondadori Portfolio)
130
Due disegni dell’archeologo inglese Austen Henry Layard che riproducono
originali perduti in cui si riconoscono giardini pensili. (Disegni tratti da The
Mystery of the Hanging Garden of Babylon di Stephanie Dalley, Oxford University
Press, 2013)
131
Ricostruzione dei Giardini Pensili in una incisione di Ferdinand Knab (1886).
(Berlin, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte/Foto © Mondadori
Portfolio AKG Images)
132
Ricostruzione dei Giardini Pensili in un disegno del XX secolo. (Foto © North
Wind Picture Archives/Alamy/IPA)
133
La Grande Piramide
La Grande Piramide, particolare dell’incisione di Johann Fischer von Erlach,
1700. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images)
134
Cheope, statuetta d’avorio trovata ad Abido. (Il Cairo, Museo Egizio/Foto ©
DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze)
135
Giza, la Grande Piramide. (Foto © 2014 DeAgostini Picture Library/Scala,
Firenze)
136
Sezione della Grande Piramide in una incisione del XIX secolo: 1) camera
mortuaria; 2) camera della regina; 3) camera rimasta incompleta; 4) entrata; 5)
grande galleria. (Foto © Science Photo Library/Contrasto)
137
Passaggio dalla seconda alla terza galleria nella Grande Piramide in un
acquerello di Luigi Mayer, 1821. (Parigi, Bibliothèque des Arts Decoratifs/Foto ©
The Art Archive/Bibliothèque des Arts Decoratifs/Dagli Orti/Mondadori
Portfolio)
138
La sfinge e la Grande Piramide in una foto del 1865. (Foto © Print
Collection/Getty Images)
139
Lo Zeus di Fidia a Olimpia
Ricostruzione della statua di Zeus a Olimpia, incisione di Johann Fischer von
Erlach, 1700. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images)
140
Frontone orientale del tempio di Zeus a Olimpia raffigurante la corsa con i carri
tra Pelope ed Enomao presieduta da Zeus al centro. (Olimpia, Museo
Archeologico/Foto © Tarker/Bridgeman Images/Mondadori Portfolio)
141
Particolari del frontone orientale. (Olimpia, Museo Archeologico/Foto © AKG
Images/Mondadori Portfolio)
142
Particolari del frontone occidentale. (Olimpia, Museo Archeologico/Foto © John
Hios/AKG Images/Mondadori Portfolio)
143
Frontone occidentale del tempio di Zeus raffigurante il combattimento fra i
Lapiti e i Centauri alle nozze di Piritoo presiedute dalla figura centrale di
Apollo. (Olimpia, Museo Archeologico/Foto © Tarker/Bridgeman
Images/Mondadori Portfolio)
144
Testa di uomo (forse Apollo) in pietra e oro. (Delfi, Museo Archeologico/Foto ©
2014 DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze)
145
Testa di Artemide con diadema e orecchini in oro. (Delfi, Museo
Archeologico/Foto © 2014 DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze)
146
Placchetta in avorio e oro raffigurante una leonessa che azzanna giovane etiope
alla gola. (Baghdad, Iraq Museum/© 2014 Foto Scala, Firenze)
147
Testa policroma di marmo pentelico rinvenuta durante gli scavi del tempio di
Zeus, forse raffigurante lo Zeus di Olimpia. (Cirene, Museo Archeologico/Foto
© Araldo De Luca)
148
Testa policroma di marmo pentelico rinvenuta durante gli scavi del tempio di
Zeus, forse raffigurante lo Zeus di Olimpia. (Cirene, Museo Archeologico/Foto
© Araldo De Luca)
149
Il Colosso di Rodi
Ricostruzione del Colosso di Rodi, incisione di Johann Fischer von Erlach, 1700.
(Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images)
150
Diritto di tetradramma d’argento di Rodi con la testa di Elio raggiata. (Londra,
British Museum/Foto © The Trustees of the British Museum c/o Scala, Firenze)
151
Athena Parthenos, copia del II secolo d.C. della celebre Atena crisoelefantina di
Fidia. (Atene, Museo Archeologico Nazionale/Foto © 2014 Marie Mauzy/Scala,
Firenze)
152
Il Colosso di Rodi in un dipinto di Louis de Caullery (XVI sec.) (Parigi,
Louvre/Foto © Mondadori Portfolio/Leemage)
153
Il Mausoleo di Alicarnasso
Ricostruzione del Mausoleo di Alicarnasso, incisione di Ferdinand Knab (XIX
sec.). (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images)
154
Alcuni fregi in marmo provenienti dal Mausoleo raffiguranti scene di
Amazzonomachia. (Londra, British Museum/Foto © Bridgeman
Images/Mondadori Portfolio - Foto © 2014 The Trustees of the British Museum
c/o Scala, Firenze - Foto Bridgeman Images/Mondadori Portfolio)
155
A sinistra, statua colossale di uomo spesso identificato con Mausolo e, a destra,
ritratto cosiddetto di Artemisia, provenienti dal Mausoleo. (Londra, British
Museum/Foto © 2014 The Trustees of the British Museum c/o Scala, Firenze)
156
Ricostruzione del Mausoleo, incisione di Oskar Mothes, 1890 ca. (Foto ©
Mondadori Portfolio/AKG Images)
157
L’Artemision di Efeso
Ricostruzione del Tempio di Artemide, incisione di Johann Fischer von Erlach,
1700. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images)
158
Tamburo di una colonna del Tempio di Artemide raffigurante Hermes nella sua
veste di psicopompo. (Londra, British Museum/Foto © The Trustees of the
British Museum c/o Scala, Firenze)
159
Particolare con genio alato dello stesso tamburo della figura precedente.
(Londra, British Museum/Foto © 2014 The Trustees of the British Museum c/o
Scala, Firenze)
160
Copia romana del Pothos di Skopas che richiama il volto del genio alato. (Roma,
Musei Capitolini, Centrale Montemartini © Archivio Fotografico dei Musei
Capitolini)
161
Copia romana della statua cultuale di Artemide venerata nel tempio di Efeso.
(Napoli, Museo Archeologico Nazionale/Foto © 2014 Scala, Firenze su
concessione MIBAC)
162
Copia romana di Amazzone ferita, opera di Cresilas. (Berlino, Staatliche
Museen Antikensammlung Foto © E. Lessing/Contrasto)
163
Piante di edifici arcaici del sito di Lefkandi (Eubea) in successione cronologica
rappresentano lo sviluppo del tempio greco dal IX al VII secolo a.C. (Disegno di
© Alberto Berengo Gardin)
164
La predicazione di san Paolo a Efeso in un dipinto di Eustache Le Sueur (1649).
(Parigi, Louvre/Foto Bridgeman Images/Mondadori Portfolio)
165
Il Faro di Alessandria
Ricostruzione del Faro di Alessandria, incisione di Johann Fischer von Erlach,
1700. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images)
166
Modello del Faro realizzato da un artigiano egiziano sulle ricostruzioni grafiche
di Hermann Thiersch all’inizio del XX secolo. (Foto © Alain Lecler)
167
Acquerello di Jean-Claude Golvin che raffigura Alessandria vista da sud. (©
Jean-Claude Golvin)
168
Due immagini degli scavi subacquei sotto il Faro di Alessandria condotti da
archeologi sommozzatori dell’equipe di Jean-Yves Empereur. (Foto © Stephane
Compoint)
169
Alcuni esempi di raffigurazioni di faro nell’antichità: particolare di un sarcofago
paleocristiano del III secolo d.C. (Roma, Museo della Civiltà Romana, sotto
Ostia antica, Piazzale delle Corporazioni)
170
Alcuni esempi di raffigurazioni di faro nell’antichità: mosaico a Ostia antica,
piazzale delle Corporazioni. (Roma, Museo della Civiltà Romana, sotto Ostia
antica, Piazzale delle Corporazioni)
171
Tetradramma dell’imperatore Commodo con la raffigurazione del Faro di
Alessandria (II sec. d.C.). (Foto © Mondadori Portfolio/Leemage)
172
Particolare del mosaico in San Marco a Venezia con l’arrivo dell’apostolo al porto
di Alessandria (Venezia, Basilica di San Marco/Foto © AKG
Images/Cameraphoto/Mondadori Portfolio)
173
Lampade in terracotta a forma di faro realizzate per Tolemeo II (III sec. a.C.).
(Alessandria d’Egitto, Museo Greco Romano/Foto © 2014 DeAgostini Picture
Library/Scala, Firenze)
174
La favolosa ipotesi di un’ottava meraviglia
175
Il mausoleo del re Antioco di Commagene
Le teste colossali degli dei al tramonto sulla terrazza occidentale del Nemrut
Dagi, e testa gigantesca di leone. (Foto © Alamy/IPA)
176
Le teste colossali degli dei al tramonto sulla terrazza occidentale del Nemrut
Dagi, e testa gigantesca di leone. (Foto © Alamy/IPA)
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Teste colossali giacciono fra le rovine della terrazza occidentale del Nemrut
Dagi, la tomba santuario del re Antioco di Commagene. (Foto © C.
Hellier/Corbis)
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Altri rilievi della terrazza occidentale. (Foto © Jane Sweeney/JAI/Corbis)
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Veduta parziale della terrazza orientale, alle spalle dei colossi la vetta a forma di
tumulo fatto di breccia e scaglie di roccia. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG
Images)
180
Suggestiva veduta parziale della terrazza occidentale con la neve. (Foto ©
Mondadori Portfolio/AKG Images)
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Frammenti di rilievi, un leone colossale e torso d’aquila. (Foto © Mondadori
Portfolio/AKG Images)
182
Rilievi della terrazza occidentale fra cui spicca il famoso “leone astrale”,
considerato uno dei più antichi oroscopi del mondo. (Foto © Alamy/IPA e
Mondadori Portfolio/AKG Images)
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Rilievi della terrazza occidentale fra cui spicca il famoso “leone astrale”,
considerato uno dei più antichi oroscopi del mondo. (Foto © Alamy/IPA e
Mondadori Portfolio/AKG Images)
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