Il libro La Grande Piramide di Cheope a Giza, immensa dimora di riposo eterno per il faraone e monumento di tale titanica complessione da sfidare sotto certi aspetti l’umana comprensione: la più antica fra le Sette Meraviglie e l’unica che sopravvive ancora oggi. I Giardini Pensili sospesi sul paesaggio di Babilonia, costruiti da un grande monarca per la sposa che aveva nostalgia delle sue montagne boscose: la più evanescente delle Sette Meraviglie, quella più fantasmatica, invano cercata e inseguita da archeologi e poeti, da epigrafisti e indagatori delle antiche fonti. E poi l’Artemision di Efeso, gigantesco tempio dedicato al culto della dea Artemide, voluto dal munifico re di Lidia Creso. Il Colosso di Rodi, l’enorme statua di bronzo che sorgeva su una piccola isola in mezzo al mare. E ancora, il Mausoleo di Alicarnasso, la monumentale tomba dove riposava il satrapo Mausolo, nell’attuale Bodrum, in Turchia. Il Faro di Alessandria in Egitto, che una volta indicava la via alle mille imbarcazioni che si avvicinavano a quel porto favoloso. E la statua di Zeus a Olimpia, grandiosa creazione del mitico scultore Fidia. Sono queste le Sette Meraviglie del mondo antico. Già indicate come tali diversi secoli prima della nascita di Cristo, furono contemporaneamente visibili solo nel periodo fra il 300 e il 227 a. C.; successivamente andarono a una a una distrutte per cause diverse, salvo appunto l’inattaccabile Piramide di Cheope, scalfita soltanto dalle mani distruttrici degli uomini. Al canone classico Valerio Massimo Manfredi aggiunge la favolosa ipotesi di un’ottava meraviglia, regalandoci il racconto di come sia sorto e di che cosa abbia rappresentato il mausoleo di Commagene, la tomba-santuario del re Antioco, che utilizza come base una montagna intera, alta 2150 metri, nuda, aspra e solitaria: il Nemrut Dagi, nell’Anatolia orientale, vicino al confine con la Siria, la montagna dove secondo il mito Nemrot, il re della torre di Babele, andava a caccia. Lungo pagine avvincenti, dense di racconti favolosi, Valerio Massimo Manfredi si confronta con le massime realizzazioni dell’umanità, e le riporta in vita per noi nel modo più grandioso, 2 raccontandoci i miti e le storie che accompagnarono questi monumenti destinati a entrare nella leggenda. E con il corredo di immagini preziose, la sua epica compie un esperimento strepitoso: restituisce ai nostri occhi, regalandoci l’emozione di visitarle, opere di straordinaria complessità e arditezza, meraviglie mitiche e perdute per sempre nella notte del tempo. 3 L’autore Valerio Massimo Manfredi è un archeologo specializzato in topografia antica. Ha insegnato in prestigiosi atenei in Italia e all’estero e condotto spedizioni e scavi in vari siti del Mediterraneo pubblicando in sede accademica numerosi articoli e saggi. Come autore di narrativa ha pubblicato con Mondadori i romanzi: Palladion, Lo scudo di Talos, L’Oracolo, Le paludi di Hesperia, La torre della Solitudine, Il faraone delle sabbie (premio librai città di Padova), la trilogia Alèxandros pubblicata in trentanove lingue in tutto il mondo, Chimaira, L’ultima legione da cui è tratto il film prodotto da Dino De Laurentiis, L’Impero dei draghi, Il tiranno (premio Corrado Alvaro, premio Vittorini), L’armata perduta (premio Bancarella), Idi di marzo (premio Scanno), Otel Bruni e i due volumi de Il mio nome è Nessuno. Inoltre tre raccolte di racconti e due saggi. Conduce programmi culturali televisivi in Italia e all’estero, collabora al “Messaggero” e a “Panorama”. 4 Valerio Massimo Manfredi 5 Le meraviglie del mondo antico A Paola e Valter Mainetti amici carissimi che condividono con me la passione per un mondo scomparso 6 Pochi uomini hanno braccia così lunghe da poterne abbracciare il pollice. PLINIO, Naturalis Historia, XXXIV, 41 7 Le sette meraviglie Sono le opere più straordinarie e impressionanti del mondo antico, l’orgoglio di tutte le grandi civiltà: giardini sospesi sul paesaggio di Babilonia, costruiti da un grande monarca per la sposa che aveva nostalgia delle sue montagne boscose nell’Elam; una piramide di calcare con il nocciolo di granito, splendente come un diamante sotto il sole dell’Egitto, iperbolica tomba per un uomo solo; una statua di bronzo alta 32 metri, sfida di un discepolo al suo inarrivabile maestro; un dio con la carne d’avorio e le vesti d’oro, assiso in trono dentro il suo tempio, così enorme che se si fosse alzato in piedi avrebbe sfondato il tetto; una torre di luce al centro di un’isola, capace di lanciare un raggio a quasi 50 chilometri nel mare notturno per segnalare il porto sicuro ai naviganti dispersi. E ancora un’altra tomba, spettacolare sepolcro colonnato di un piccolo sovrano pretenzioso, il tempio più grande mai costruito, eretto per la madre di tutte le madri. Di tutte queste meraviglie rimane solo quella più antica, inattaccabile, soltanto scalfita dalla mania distruttiva degli uomini: la Grande Piramide. Questo elenco nacque dalla consapevolezza di un mondo ideale, che esisteva per la prima volta, che non sarebbe esistito mai più. Queste opere, vera e propria sfida all’impossibile, coprono un arco cronologico di oltre venticinque secoli. Una sola sopravvive, la Grande Piramide di Giza, e il fatto che esista ancora significa che solo un dio, o un uomo creduto un dio, ebbe l’autorità e il potere di adunare un popolo intero a lavorare per decenni all’impresa. Non ha ornamenti, non colonnati, fregi, trabeazioni: solo la sua nuda geometria le ha consentito di durare per quarantacinque secoli. Tutte le altre sono andate distrutte in varie epoche e per cause diverse. Cinque di esse sono edifici, due sono statue monumentali di dimensioni eccezionali, descritte dalle fonti antiche con parole di attonito stupore. 8 Molte altre di queste audaci costruzioni furono solo ideate e mai nemmeno incominciate. Si dice che un architetto di nome Dinocrate, mezzo nudo, con la pelle di leone e la clava come Ercole, si sia presentato ad Alessandro, che voleva progettare la prima città con il suo nome sul braccio occidentale del delta del Nilo, proponendogli un progetto iperbolico, una realizzazione che avrebbe dovuto paralizzare di stupore chiunque l’avesse veduta. Si trattava di scolpire nella rupe del monte Athos l’immagine di Alessandro in trono in atto di libare. In una mano avrebbe tenuto la tazza alimentata da un fiume deviato, nell’altra mano l’intera città. Viene da chiedersi come avrebbe mai potuto funzionare un simile insediamento, come i suoi abitanti avrebbero mai potuto uscire e rientrare, approvvigionarsi di cibo, vendere e acquistare. Ma chissà che Dinocrate non avesse già delle idee al riguardo: forse la cascata avrebbe mosso una ruota a pale che a sua volta, con pulegge e altre ruote, avrebbe potuto azionare dei montacarichi. Non lo sapremo mai. Ma quello fu un tempo in cui tutto pareva possibile. Alessandro scartò quell’idea che gli sembrò bislacca; stese la sua clamide macedone per terra vicino alla sponda del Mediterraneo e disse: «Ecco, fammi una città così, disposta in questo modo attorno al golfo». Quello schema a forma di mantello divenne la più grande metropoli del Mediterraneo per oltre quattro secoli. Si costruì un molo lungo più di un chilometro che collegava la terraferma all’isola di Faro e sull’isola sarebbe sorta una torre di segnalazione alta 120 metri che lanciava un raggio di luce a quasi 50 chilometri di distanza: una delle Sette Meraviglie. Sul promontorio di fronte, il Lochias, all’interno del palazzo reale, sarebbe stata costruita la più grande biblioteca del mondo. Poco lontano, sotto un grande tumulo di terra, ci sarebbe stata la camera sepolcrale di Alessandro, il suo sarcofago d’oro massiccio. Quelle idee straordinarie, quelle immagini iperboliche, Dinocrate le aveva avute perché viveva in Egitto e la sua fantasia di greco era stata incendiata dalle immani costruzioni della valle del Nilo. Forse aveva visto i colossi di Abu Simbel o il Ramses del Ramesseum che dovevano averlo affascinato ancora più delle piramidi: esseri giganteschi dal sorriso immortale e immutabile, così grandi perché il popolo fosse certo di essere governato da dèi. Forse lo stesso Alessandro, piccolo di statura, dovette essere ispirato da 9 quell’ideologia del gigantismo quando nella lontana India, muovendo il campo, lasciava dietro di sé armature enormi, spade e lance fuori scala, come per far credere a un’armata di smisurati, invincibili guerrieri. Pur scartando la proposta di Dinocrate, Alessandro dovette rendersi conto che quell’uomo era un visionario, che il colosso che teneva nella mano destra una città e nella sinistra la sorgente di un fiume era un’immagine straordinaria e stupefacente, e per questo meritava comunque di costruire Alessandria. L’elenco più conosciuto, una specie di vulgata delle Sette Meraviglie del mondo antico, è attribuito a Filone di Bisanzio, uno scienziato vissuto a cavallo fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Ma sembra che, sulla base di elementi stilistici e filologici del testo, il suo trattatello sia stato steso nel V secolo d.C. Ma è possibile allora datare la stesura dell’elenco classico delle Sette Meraviglie? L’unico modo è forse di calcolare il lasso di tempo in cui esistettero tutte e sette in contemporanea. È stato osservato che quel periodo va dal 300 circa al 227 a.C., anno in cui un terremoto abbatté il Colosso di Rodi a soli sessantasei anni dalla sua erezione a opera di Carete. La tradizione vuole che il grande architetto-scultore si fosse accorto di aver commesso nella costruzione un errore irrimediabile che prima o poi ne avrebbe provocato il crollo e che si sia suicidato per il dolore. In realtà il Colosso, benché crollato, continuò a esistere ancora per otto secoli, ad attirare migliaia di visitatori da ogni parte del Mediterraneo e a suscitare stupore. Ma perché le meraviglie e perché sette? Non avrebbero potuto essere cinque o dieci o dodici? Ovviamente sì e di certo si tratta di un elenco arbitrario: nel periodo ellenistico e anche durante la decadenza dell’Impero romano furono in auge opere letterarie che narravano non solo grandi monumenti ma anche prodigi, fenomeni inspiegabili. In questi eventi straordinari la gente trovava distrazione dalle preoccupazioni quotidiane, dalla consapevolezza di aver perso, con il tramonto della polis, le libertà politiche e la possibilità di influire sul proprio destino e sul proprio futuro. Quell’elenco era la conta di quanto di più grande e mirabile le civiltà antiche avevano lasciato in eredità. Si trattava di valori ed estetiche incomparabili fra loro, difformi e disparate, che venivano 10 costrette in una lista fortunata, opera di chissà chi, e che ancora oggi ci emoziona. Molte volte si è discusso di quale potrebbe essere l’Ottava Meraviglia o di quali potrebbero essere le Sette Meraviglie del mondo moderno. I piccoli emirati del petrolio innalzano dalle sabbie del deserto grattacieli al cui confronto la Grande Piramide sembra una modesta protuberanza. Oggi non si tratta più di scolpire o innalzare colossi dalle sembianze umane, ma di vincere la gara fra grattacieli che ormai si avvicinano al chilometro di altezza: un traguardo che le civiltà del passato poterono solo sognare con il mito della torre di Babele che perforava le nuvole con la vetta. Inoltre, mentre le nostre più audaci realizzazioni partono dalle dimensioni minori del passato per giungere alle più importanti nel presente, nel mondo antico fu il contrario. La maggiore e la prima delle meraviglie, la Grande Piramide, non fu mai più uguagliata. Bisogna arrivare addirittura alla fine dell’Ottocento per avere nella Mole Antonelliana un edificio in muratura più alto della Grande Piramide. La sommità della cupola di San Pietro in Vaticano arriva a 133,30 metri, circa 14 metri meno della supposta altezza della Piramide. Le componenti di tipo artistico, tecnologico, politico, propagandistico, economico indispensabili per arrivare all’erezione di monumenti così imponenti sono molte e complesse, e non sempre presenti tutte assieme, quindi stilare classifiche non ha molto senso. Ciò che portò all’elenco settemplice delle meraviglie antiche fu sostanzialmente un’emozione, la stessa che aveva portato alla loro costruzione: l’entusiasmo e l’orgoglio di una grandissima realizzazione, la sfida all’impossibile. La nostra civiltà moderna è molto più disincantata, da un certo punto di vista, ma anche più competitiva, e la corsa all’iperbolico, il continuo rincorrere il record (concetto ignoto al mondo antico), non dà mai tregua. Eppure, studi recenti e basati su calcoli affidabili hanno stabilito che, qualora l’umanità si estinguesse, in cinquantamila anni non rimarrebbe più alcuna traccia visibile della nostra civiltà. Il che significa che anche la forza che ha sollevato le montagne dell’Himalaya, della Patagonia e i vulcani della cintura di fuoco, scavato le valli, i mari, gli oceani, plasmato le infinite distese di sabbia e i deserti di ghiaccio, e che a noi sembra veramente invincibile, è destinata come le meraviglie create dall’uomo a soggiacere al tempo. 11 Il giardino impossibile È la prima delle Sette Meraviglie nell’elenco di Filone di Bisanzio, la più evanescente, la più fantasmatica, invano cercata e inseguita da archeologi e poeti, da epigrafisti e indagatori delle antiche fonti: i Giardini Pensili di Babilonia. Eppure il giardino, l’Eden, il pairidaeza, l’hortus è una immagine potente, evocativa, profondamente radicata in tutte le civiltà del Mediterraneo. Il concetto è quasi assente, per ovvi motivi, presso le culture nomadi dell’Asia centrale, mentre in estremo Oriente, specialmente in Giappone, ha una profondità quasi filosofica. Indica un luogo intensamente artificiale che dà all’uomo l’illusione di diventare creatore di un mondo ideale, compiuto, dove tutto è perfetto e concluso, dove l’equilibrio delle specie vegetali, dei suoi abitatori animali, dei colori e delle infinite tonalità di verde comunica una sorta di musica cromatica e di armonia di forme e di profumi che ci fa pensare di essere più capaci e potenti della natura stessa. Il giardino è un’estensione della nostra capacità di immaginare, dove la crescita e il fiorire di ogni pianta ci dà un piacere di un’intensità unica, a volte quasi estatico. Il combinarsi dei profumi, l’odore della terra bagnata, il rigoglio indotto da irrigazioni frequenti, fertilizzazioni ed esperimenti di ibridazione creano l’illusione dello spontaneo e la certezza dell’opera d’arte al cui cospetto proviamo un’emozione continua, che tuttavia muta ogni giorno con il mutare della luce e della stagione, con il cadere della pioggia o con l’addensarsi delle tenebre. Sia in persiano che in greco, ebraico e latino il termine significa “luogo recintato”. Anche l’Eden biblico è in qualche modo recintato, perché ha dei cancelli a guardia dei quali viene posto un angelo con la spada fiammeggiante dopo la cacciata dei progenitori. In ogni caso il giardino è il mito di origine dell’intera umanità ed è alla base delle maggiori religioni monoteiste. La necessità del giardino aumenta con l’aumentare della luce e del 12 calore nell’ambiente in cui si vive fino a diventare spasmodica nelle località aride e deserte, arroventate da un sole impietoso. Forse l’Eden fu concepito nelle meditazioni oniriche di solitari profeti frequentatori delle pietraie infuocate del deserto o forse fu la memoria remota di una terra meravigliosa, di un luogo incantato che prese vita fra la fine dell’ultima glaciazione e l’assestarsi dei sistemi vegetativi e zoologici nelle aree del vicino Oriente e dell’Africa centrosettentrionale. Di quel perduto paradiso terrestre ci conservano memoria i parchi artificiali come i pairidaeza persiani, che si collocano invece in età storica, anche se la loro origine viene fatta risalire a tempi remotissimi. Quel periodo storico corrisponde al passaggio di popoli iranici come Medi e Persiani dalla vita nomade a quella sedentaria. A Pasargade, dove sorge la tomba di Ciro il grande, sono stati rinvenuti sistemi di irrigazione probabilmente destinati ad alimentare uno di quei meravigliosi giardini. Senofonte (Anab., I, 7) descrive il parco di Ciro il giovane nei pressi di Colosse, riserva di caccia con animali selvaggi, attraversata dal Meandro, dove il principe si distrae, si allena e prova i suoi cavalli. 1 Un altro esempio di parco come luogo ideale dello spirito e del corpo doveva essere quello della Domus Aurea di Nerone (Plinio, NH, XXXVI, 111), con paesaggi arcadici, laghetti, piccoli borghi e porticcioli sull’acqua. Sui colli artificiali, movimenti e profili mutevoli di superfici boscate abitate da animali esotici come pavoni e fagiani. Ce ne possiamo fare un’idea soltanto da qualche pittura superstite e da analoghi paesaggi dipinti sui muri delle ville pompeiane ed ercolanensi. Continuando a seguire il filo dei giardini della meraviglia come forma di kosmos, di armonia creata e goduta con lo sguardo e con tutti i sensi, la Villa Adriana di Tivoli dovette essere una sorta di akmé di quel tipo di estetica. L’imperatore aveva voluto concentrarvi i suoi luoghi dell’anima, le vedute che lo avevano commosso ed esaltato durante i suoi viaggi attraverso l’impero, sia opere della natura che dell’uomo. E quindi lo stoà Pecile di Atene, adorno di riproduzioni delle pitture di Zeusi e Parrasio che dovevano campeggiare non in un paesaggio urbano ma in una distesa di verde smagliante, di macchie di alloro e di mirto come un grande murale. E poi la valle di Tempe 13 con le acque limpide che imitavano il fiume Peneo, ricavata in un avvallamento fra i calcari tiburtini a ricordo della leggenda di Orfeo ed Euridice, di Apollo e Dafne. E ancora, il lago del Canopo con il suo portico dove ogni arco incorniciava una statua che nel lago si specchiava evocando Alessandria e il paesaggio nilotico che tanto aveva affascinato l’imperatore Adriano. Quando il mondo antico morì dopo una lunga e dolorosa agonia, si interruppe quel filo che attraversava i millenni, dall’Eden e dalla Mesopotamia dei Giardini Pensili ai giardini di Nerone e Adriano. Ma in Oriente lo scontro fra l’impero romano-bizantino e gli Arabi si trasformò anche in incontro e contaminazione, così che molto dell’eredità antica si trasfuse nella cultura di quei popoli del deserto – il cerchio si chiuse con Aristotele tradotto in arabo – e i meravigliosi giardini di Nerone e Adriano ripresero vita a Damasco e Bagdad, con le palme, i melograni e i sicomori, le rose e i gelsomini. Di là, quelle forme meravigliose giunsero all’estremo Oriente e all’estremo Occidente attraverso il Nordafrica fino nell’Iberia romanizzata. C’è chi vede nei giardini dell’Alhambra di Granada e del Taj Mahal in India due evoluzioni molto lontane nel tempo e nello spazio, ma non molto dissimili, dell’antico pairidaeza persiano, da cui vengono il greco paradeisos e il latino paradisus, con cui si indica il giardino ancestrale dei progenitori dove la terra dava cibo senza chiedere lavoro e sudore della fronte. 2 Un luogo meraviglioso che un giorno sarebbe stato proibito per sempre ai discendenti di Adamo ed Eva. Ma cosa fa dei Giardini Pensili babilonesi qualcosa di così unico e speciale? Essi sono unici e diversi da tutti gli altri per il fatto che non crescono sulla terra né vi affondano le radici, ma sono sospesi su un piano sorretto da colonne o altre strutture di sostegno. Il piano è fatto con tronchi di palma, dice Filone, autore della lista canonica delle meraviglie, 3 perché non marciscono e permettono il drenaggio dell’acqua dallo strato di terra sovrastante dove è stata fatta la piantumazione e realizzato il manto erboso. Il tutto è alimentato da sistemi che fanno salire l’acqua dal fiume Eufrate e la distribuiscono attraverso l’impianto di irrigazione. Quello che non si comprende bene è il motivo di un simile tipo di impianto, visto che c’erano alternative più interessanti in una città che conosceva molto bene le costruzioni a gradoni del tipo ziggurat e 14 disponeva anche di grandi giacimenti di bitume con cui impermeabilizzare le vasche di contenimento dei terreni coltivati. La descrizione di Filone è piuttosto accurata e non priva di senso da un punto di vista agronomico, e farebbe pensare a fonti storiche vicine al periodo in cui furono costruiti i Giardini Pensili, ma non è facile da capire. Sembra più forte nell’autore l’intenzione di evidenziare il paradosso di un’opera artificiale e quasi contro natura che non di fornirci uno schema accessibile della struttura e delle caratteristiche dell’impianto. Flavio Giuseppe (Antichità, 224-26; Contro Apione, 138-41), che basa la sua relazione sulle storie babilonesi di Beroso, un sacerdote del sommo dio Marduk, li ritiene dell’epoca di Nebuchadrezzar, il famoso re di Babilonia che visse dal 604 al 562 a.C., ma, come si è detto non si è trovata menzione di quel manufatto nelle venticinquemila tavolette degli archivi del re e nemmeno in altri importanti documenti come il prisma dell’Oriental Institute di Chicago in cui si elencano le opere del re assiro Sennacherib. D’altra parte Nebuchadrezzar, il re babilonese cui è stata attribuita la realizzazione dei Giardini, è di gran lunga il sovrano più famoso, tanto potente che anche il Dio d’Israele è dalla sua parte. È lui a espugnare Gerusalemme nel 587 a.C., lui a saccheggiare il tempio e a deportare buona parte del popolo ebraico a Babilonia. È dunque facile attribuirgli opere grandiose come le mura gigantesche, come il palazzo reale presso l’Eufrate e infine come i Giardini Pensili. Diodoro Siculo (II, 10, 1-6) fa la descrizione più coerente e logica dei Giardini Pensili, che risultano costruiti su strutture terrazzate che fanno pensare a uno ziggurat. 4 Le murature sono di mattoni cotti, cioè di un materiale più pregiato e resistente dei mattoni di argilla cruda, e che ha anche la qualità di essere parzialmente impermeabile. Il giardino si suppone a base quadrata: quattro pletri, cioè 32 metri, per ogni lato. Considerata la struttura “a teatro”, cioè a gradinata, avremmo sostanzialmente uno ziggurat adattato a giardino pensile, anche se questa ipotesi è dismessa dalla maggior parte degli studiosi. Può anche essere che la descrizione di Diodoro si riferisca a una struttura a U per cui i lati sarebbero tre, uno dei quali si appoggerebbe alle mura babilonesi, apparentemente un modo sensato di progettarlo ed eseguirlo. Le descrizioni che seguono sono 15 meno comprensibili. Le gradinate che ospitavano i giardini avrebbero poggiato su gallerie sottostanti di altezza progressiva fino a quelle centrali, più alte di tutte per sorreggere la terrazza superiore del complesso. Non è facile spiegarsi una struttura di questo genere, che fa pensare alle arcate che reggono la cavea dei teatri e degli anfiteatri romani. La cosa più probabile è che il committente, chiunque sia stato, abbia preferito questo tipo di struttura portante per un giardino terrazzato rispetto a una costruzione piena come uno ziggurat, che forse avrebbe richiesto molto più tempo e molto più materiale. Bisogna anche considerare che per una struttura piena ci sarebbe voluto un numero enorme di mattoni, che i mattoni avrebbero dovuto essere cotti, e che per cuocerli sarebbe stata necessaria una gran quantità di legname, che in Mesopotamia non esiste o è molto raro e costoso perché deve essere importato. Significativi i bassorilievi fatti realizzare da Nebuchadrezzar in una gola del Monte Libano a Wadi Brisa, 5 dove si fa rappresentare da una parte mentre uccide un leone e dall’altra mentre abbatte un cedro del Libano, cioè il più prezioso legname del vicino Oriente, lo stesso che re Hiram di Tiro aveva provveduto a Salomone di Israele per la costruzione del tempio sul Monte Moriah. La citazione dell’epopea di Gilgamesh con il compagno Enkidu al bosco dei cedri vigilato dal mostro Humbaba è evidente e altrettanto lo è la identificazione di Nebuchadrezzar con l’eroe di Uruk, quinto re dopo il diluvio. Si può perfino dire che, per chi viene dalla soffocante bassura mesopotamica anche la foresta del Libano, a suo modo, è un giardino pensile. 6 Per quanto riguarda il sistema di sollevamento dell’acqua Diodoro parla genericamente di macchine (òrgana) che non sono però visibili dall’esterno (Diod. II, 10, 6). La coclea, o vite senza fine, è invece chiamata in causa da Strabone (XVI, 5) come mezzo di sollevamento e attribuita ad Archimede che ne sarebbe stato l’inventore, tanto che è chiamata anche “vite di Archimede”. 7 Fra gli studiosi moderni c’è chi sostiene che senz’altro si sarebbe trattato di una coclea, l’unico sistema di sollevamento dell’acqua che avrebbe potuto rimanere celato, mentre una ruota idraulica si sarebbe vista. 8 In realtà non sarebbe stato difficile incorporare una ruota idraulica nella struttura facendo in modo che non si vedesse. 16 Ancora oggi, se non sono state distrutte dalla guerra in corso, ci sono nei pressi di Hama sull’Oronte in Siria delle ruote idrauliche per il sollevamento dell’acqua in un punto in cui il fiume è fiancheggiato da sponde naturali piuttosto alte. Si chiamano “norie” e si ritiene comunemente che siano state in uso in Mesopotamia dalla fine del III secolo a.C., dopo essere state introdotte dagli Arabi. Il caso vuole che la più grande di esse misuri 20 metri di diametro, la stessa altezza (50 cubiti) che Diodoro e Strabone attribuiscono alla struttura a gradoni che ospitava i Giardini Pensili. Il sistema della ruota idraulica è abbastanza semplice: la corrente spinge contro le pale e la fa ruotare su un perno. Agganciati alla cerchiatura esterna della ruota ci sono dei grandi secchi imperniati su un attacco a cilindro che permette loro di oscillare liberamente a seconda della direzione della gravità. 9 Saranno più o meno verticali nelle fasi di calata e di sollevamento, obliqui in quelle di caricamento e di scarico. I secchi prelevano l’acqua dal basso e la scaricano nella fase discendente dentro una vasca o dentro una conduttura che alimenta una rete di irrigazione. Nel caso dei Giardini Pensili avrebbero caricato un vascone impermeabilizzato con lamine di piombo e asfalto da cui si sarebbero dipartiti i canali di irrigazione che avrebbero distribuito l’acqua per caduta. Il fatto che l’opera più importante di Filone di Bisanzio sia il Pneumatikà, che ha molto a che fare con le pompe idrauliche che creano pressione e depressione, potrebbe indurre in errore facendoci immaginare l’uso di pompe quattro-cinque secoli prima che fossero state inventate e costruite dai meccanici e pneumatici alessandrini. 10 Tutto considerato, si potrebbe forse pensare che la ruota idraulica fosse già nota in Mesopotamia anche prima degli Arabi e che dunque i costruttori dei Giardini Pensili di Babilonia l’avessero impiegata per caricare la vasca di distribuzione dell’impianto idraulico, anche se l’ipotesi di un suo caricamento manuale da parte di un gran numero di schiavi non può essere esclusa a priori. A favore, invece, di un sistema a coclea milita il prisma fittile dell’Oriental Institute di Chicago in cui il re assiro Sennacherib sembra vantare l’uso di una vite senza fine dentro a un cilindro per sollevare l’acqua. 11 Quanto all’origine della realizzazione dei Giardini Pensili Diodoro parla della concubina “di un re siro” che, avendo nostalgia delle 17 montagne boscose della sua patria, avrebbe chiesto al re di costruirgliene una artificialmente. La bella non avrebbe faticato a ottenere un simile fastoso regalo. Anche questo un tema diffuso in tutto l’Oriente: quello della bella che ottiene dal grande sovrano di cui è amante che sia soddisfatto qualunque suo desiderio. Pensiamo a Ester e Assuero, Salomè ed Erode Antipa, Sharyar e Sheerazade e a tanti altri. Flavio Giuseppe (Contro Apione, I, 138-41) dice che Nebuchadrezzar li avrebbe costruiti per la sua sposa Amytis, una principessa figlia del re dei Medi Astiage, che aveva nostalgia dei monti della sua patria ancestrale coperti di prati e foreste. È proprio dal termine “siro” che parte Stephanie Dalley in un suo recente lavoro per affermare, sulla scorta di documenti epigrafici, che la parola è da intendersi con il significato di “assiro”, come dimostrerebbe una epigrafe bilingue scoperta in Cilicia, 12 arrivando poi, sulla base di una serie di documenti rivisitati in modo più attento e critico che in passato, a una conclusione sorprendente per quanto riguarda l’esistenza e la collocazione dei Giardini Pensili. È vero che la storia di Diodoro Siculo è dell’epoca di Augusto e quindi molto lontana dal nuovo regno babilonese, ma la sua fonte è con ogni probabilità Ctesia di Cnido, 13 un greco che era diventato il medico di corte dell’imperatore persiano Artaserse fra il 415 e il 399 a.C. Ctesia aveva scritto un’opera in ventitré libri chiamata Persikà, di cui i primi sei erano dedicati agli Assiri e ai Medi, ma dagli scarsi frammenti rimasti sembra che l’autore fosse soprattutto interessato all’aneddotica e al folklore. In questo ambito anche la storia di Amytis per cui erano stati costruiti i Giardini Pensili avrebbe potuto essere parte dei primi sei libri dei suoi Persikà. Può anche essere che Ctesia fosse amante dell’aneddotica, ma è pur vero che nei frammenti della sua opera che ci sono riferiti da Plutarco (Vite di Arato e Artaserse) e da Senofonte (Anab., I, 8, 26) troviamo (specialmente nel primo) dei particolari molto accurati che consentono di giudicare Ctesia come un testimone che può essere attendibile. 13 Altri accenni ai Giardini Pensili ci vengono da una citazione di Clitarco, lo storico alessandrino che scrisse una vita di Alessandro in dodici libri. Quest’opera ebbe grande fortuna in ambito romano nel I 18 secolo a.C., quando, dopo la sconfitta di Crasso a Carre (53 a.C.), tornarono di attualità le opere che raccontavano le guerre di Alessandro contro i Persiani. Per quello che si può capire, i giardini vi appaiono semplicemente come quinta ornamentale della scenografia degli ultimi giorni di Alessandro ed è difficile pensare che strutture così sofisticate e probabilmente fragili si fossero conservate per oltre tre secoli. Alla fine, c’è motivo di pensare che non fossero mai esistiti giardini poggianti su una sostruzione architettonica a Babilonia, città che ha incantato centinaia di migliaia di visitatori per secoli e secoli? La Mesopotamia in età storica aveva praticamente le stesse condizioni climatiche e ambientali che ha oggi, con la differenza che la fauna autoctona, in gran parte estinta, era ancora molto presente, con mandrie di antilopi, gazzelle, onagri, ibex e inoltre gruppi di struzzi e otarde e grandi carnivori come leoni, leopardi, iene e licaoni che vediamo raffigurati nei bassorilievi dei palazzi di Khorsabad, Ninive e Nimrud e che in Israele sono stati di recente ripopolati nel parco di En Ghedi per far rivivere la fauna biblica. La ristretta fascia di vegetazione che seguiva il corso dei fiumi doveva comunque consentire ai sovrani e ai nobili di coltivare la passione per i giardini. La presenza dell’Eufrate, poi, consentiva di far crescere piante e fiori di ogni tipo. Nei terrazzamenti in mattoni cotti avrebbero potuto essere ricavati i vasconi impermeabilizzati con il bitume e il piombo, riempiti di terra e poi piantumati. L’acqua dell’irrigazione, sollevata dal fiume con ruote idrauliche o con coclee, avrebbe potuto scorrere verso il basso a rivoli e cascatelle aggiungendo il fascino e l’illusione di ruscelli di montagna. Una volta che le piante fossero cresciute, l’intera struttura avrebbe avuto l’aspetto di una collina boscosa: in altre parole il sogno di Amytis realizzato da Nebuchadrezzar. Ci si può chiedere se ci sia modo di far combinare la descrizione di Filone con quella di CtesiaDiodoro per la quale, come si è visto, propendiamo. Tutto sommato Ctesia non aveva motivo per inventarsi qualcosa che non esisteva ed è molto probabile che la sua lunga permanenza alla corte del Gran Re gli abbia consentito di accedere a testi che non esistono più o che ci sono sconosciuti, e anche a testimonianze della tradizione locale, o che addirittura abbia visto con i propri occhi ciò che restava delle antiche meraviglie. Nel 401 a.C. egli era senza dubbio a Babilonia, che 19 distava da Cunassa solo una ventina di chilometri, e fu nelle retrovie della battaglia fra Artaserse e Ciro il giovane, suo fratello. Quindi di sicuro ha visto e visitato la città. Strabone, che scrive nell’età di Augusto, produce una descrizione abbastanza particolareggiata dei Giardini Pensili (XVI, 1, 5), annoverandoli fra le Sette Meraviglie del mondo visibili al suo tempo. Egli dice infatti che Babilonia era ridotta a un deserto (eremia), in parte per la povertà dei materiali con cui era stata costruita la città, in parte perché i Macedoni non si erano mai molto interessati a restaurare i monumenti, e infine perché la capitale con la corte e tutti gli alti comandi era stata spostata a Seleucia, sul Tigri, per cui Babilonia era in abbandono. In tale condizione, se mai c’erano stati i Giardini Pensili, non erano sicuramente più riconoscibili. Strabone quindi segue con ogni probabilità e, si potrebbe dire, in modo indipendente, Ctesia, visto che è praticamente contemporaneo di Diodoro. È noto poi che Strabone, nonostante le sue affermazioni di grande esperienza sul campo nel prologo dell’opera, si fonda molto di più sulle sue fonti letterarie che sull’esperienza personale. Degna di nota è la relazione di Curzio Rufo che narra l’impresa di Alessandro e che si diffonde con una certa ampiezza nel suo capitolo babilonese (V, 24-39) proprio sul tema dei Giardini Pensili, che però, fin dall’inizio, sono definiti “miraculum Graecorum fabulis vulgatum”: un’espressione, in sostanza, di discredito sia per il “Graecorum fabulis” che potremmo rendere “le storielle dei Greci”, sia per il “miraculum vulgatum” che pure richiama il sensazionalismo dell’aneddotica greca. Fa però contrasto la notevole accuratezza con cui Curzio descrive i Giardini, che senza dubbio alla sua epoca non esistevano più, date le molte vicissitudini che la città di Babilonia aveva dovuto affrontare nella sua lunga storia. Curzio accetta a quanto pare sia la versione colonnata dei Giardini Pensili (V, 34) che quella delle “gallerie”, cioè un piano di lastre di pietra sostenute da colonne massicce ma anche da muraglie (sormontate da archi?) su cui poggiava uno strato di humus e di terriccio e un impianto di irrigazione che era in grado di alimentare alberi della circonferenza di ben otto cubiti (più di 3 metri), alti 50 piedi (circa 15 metri). Su queste caratteristiche della piantumazione 20 torneremo oltre perché esistono elementi agronomici che molti studiosi ignorano o non considerano a sufficienza. Curzio riporta, come si è detto, delle muraglie di sostegno di 6 metri di spessore distanti l’una dall’altra poco più di 3 metri (11 piedi). Alla fine ricorda anche la storia di un re di Siria che costruì i giardini per soddisfare il desiderio della sua sposa. Nei primi anni del Novecento l’archeologo tedesco Robert Johann Koldeway iniziò l’esplorazione del sito di Babilonia – identificato già da tempo ma mai scavato sistematicamente – ottenendo dei risultati straordinari. Individuò la grande via processionale, la famosa e splendida porta di Ishtar, rivestita di mattonelle smaltate in blu scuro con figure di animali in rilievo e a colori naturali, oggi allo Staatliche Museen di Berlino, il palazzo di Nebuchadrezzar, il basamento di Etemenanki, la mitica “torre di Babele” di biblica memoria e quelli che egli individuò come i Giardini Pensili, ossia le sostruzioni dei medesimi. L’identificazione di tali strutture come quelle che reggevano una delle Sette Meraviglie del mondo è stata più volte messa in discussione o anche decisamente respinta. La maggiore delle obiezioni è che distano troppo dall’Eufrate, obiezione che a molti sembra decisiva sia che si pensi a un sistema di sollevamento a coclea, sia che si pensi a ruote idrauliche. Ambedue hanno necessità di un prelievo diretto dell’acqua, il che imporrebbe una vicinanza al fiume che nell’edificio identificato da Koldeway non sussiste. A rigore, però, questo non sarebbe un impedimento, in quanto il meccanismo di sollevamento poteva benissimo versare l’acqua in una condotta di legno o altro materiale da cui a sua volta traeva alimento il sistema di irrigazione dei giardini. In sostanza quindi il problema rimane aperto, ma a nostro avviso non tutte le obiezioni riportate sono determinanti. Sta di fatto che ai nostri giorni di solito prevale l’idea che quelle che Koldeway interpretò come le sostruzioni dei giardini (secondo Diodoro, ma in parte anche Curzio Rufo) fossero in realtà magazzini per derrate alimentari. Vi fu rinvenuta infatti una tavoletta in cuneiforme che registrava l’erogazione di olio al re Joachim di Giuda prigioniero. Dunque si sarebbe trattato di strutture di tipo amministrativo e anche di edifici adibiti a magazzini. La vista, inoltre, da quel luogo, sarebbe 21 stata povera e banale. Non un luogo per la ricreazione ma per attività economiche e annonarie. Recentemente Stephanie Dalley nel suo libro The mystery of the Hanging Garden of Babylon ha ipotizzato che i giardini esistessero, ma fossero non a Babilonia bensì a Ninive. Il re Sennacherib che regnò fra l’VIII e il VII secolo a.C. affermava infatti nelle sue iscrizioni ufficiali di aver portato un acquedotto alla sua capitale con cui si irrigavano bellissimi giardini. Questo di per sé avrebbe una importanza relativa, ma l’assiriologa americana porta a sostegno della sua ipotesi due elementi testimoniali indubbiamente robusti: il primo si riferisce alla testimonianza delle fonti antiche secondo cui un re “siro” o di “Siria” avrebbe costruito i giardini pensili per compiacere la sposa (o una concubina) che veniva dalle montagne dell’Elam coperte di foreste. Come si è già visto, secondo la Dalley il termine “siro” equivarrebbe ad assiro e Siria ad Assiria. Oltre a questo riporta dei disegni fatti da Layard nell’800 che riproducono dei bassorilievi perduti 14 in cui si vedono delle strutture colonnate che sorreggono dei giardini. Un acquedotto con archi a sesto acuto regge un canale sospeso che alimenta un sistema di irrigazione a scorrimento e nelle cui acque nuotano dei pesci. Sembra veramente la soluzione dell’enigma. Il re dell’apologo non è un siro o siriano ma un assiro e i giardini esistevano ma stavano a nord e non a sud, là dove l’acqua dello Zagros e del Tauro arrivava in grande abbondanza in tutte le stagioni dalle cime sempre innevate di quelle altissime montagne. Una controprova sarebbe nel fatto che le fonti riguardanti Nebuchadrezzar, supposto autore dei giardini, pur glorificando il costruttore e restauratore di Etemenanki, del tempio di Marduk, del palazzo reale, tacciono del tutto sulla prima delle Meraviglie del mondo. Dal momento che non può trattarsi di una svista, si può pensare che, per assurdo, quella che era una meraviglia del mondo per la cultura greco-macedone e poi romana non lo fosse per chi l’aveva creata. Forse rappresentava una sorta di costoso divertissement e non certo un santuario o una dimora imperiale o una possente muraglia di difesa, tutte realizzazioni di tipo essenziale. In ogni caso si tratta di un argumentum ex silentio e quindi metodologicamente 22 significativo ma non probante, proprio perché il silenzio non rivela né dichiara alcunché. L’intenzione della Dalley di dimostrare che i giardini di Babilonia non erano in nessun modo simili a quelli descritti dalle fonti dei Giardini Pensili con la rappresentazione di appezzamenti di colture come dimostrate e rappresentate nella tavoletta di Merodach Baladan non regge. 15 Le essenze nominate non sono alberi ma piante officinali come origano, cipolla, aglio, timo e certo non possono competere con le piante di alto fusto dei giardini assiri semplicemente perché non sono piante da parco ma erbacee da orto e destinate alla cucina. Quando poi, per contrasto, si nominano i profumati alberi di montagna che popolano i giardini sulle colline artificiali di Assiria, bisognerà forse essere prudenti e ricordare il clima del nord del moderno Irak, molto simile a quello di ventisette secoli fa negli stessi luoghi. Anche l’osservazione di Creswicke Rawlinson, il padre dell’Assiriologia moderna, di un bassorilievo di Ashurnazirpal che a suo dire riprodurrebbe i Giardini Pensili e a cui si ispirarono le descrizioni posteriori degli autori classici non ci sembra del tutto probante. Che bisogno ci sarebbe stato di macchine per il sollevamento dell’acqua visto che ce n’era in abbondanza che scendeva dai monti circostanti e che esistevano acquedotti come quello che abbiamo sopra descritto? In ogni caso l’elenco di piante da giardino descritte da Ashurnazirpal per il suo parco a Nimrud è impressionante e di fatto corrisponde alle essenze rappresentate nel disegno dal bassorilievo di Layard. Il re cita pini, cipressi e ginepri, mandorli, datteri, ebano, legno di rosa, olivo, quercia, tamarisco, noce, terebinto, frassino, abete, melograno, cotogno, pera, fico, vite. 16 In sostanza si tratta di piante che si possono riconoscere almeno in parte nei disegni da bassorilievo di Layard: si distinguono facilmente le cupressacee in cui possiamo riconoscere sia cipressi veri e propri che ginepri. Le piante dominanti sono certamente le palme che si direbbero del tipo Phoenix dactylifera. I numerosi arbusti si intravvedono ma non si distinguono: potrebbero essere il terebinto, che è un pistacchio, e abeti. Più difficile pensare a querce e frassini che sono di solito piante di alto fusto ma che hanno anche varietà nane e con foglia coriacea. 23 In definitiva al giorno d’oggi la maggior parte degli studiosi sembra credere che i Giardini Pensili di Babilonia non siano mai esistiti o, al massimo, ammesso che siano esistiti, si sarebbero trovati in Assiria e non a Babilonia. Resta il fatto che una tradizione molto forte, che confluisce nelle pagine di storici e geografi importanti come Diodoro, Strabone, Curzio Rufo, Plinio e altri, si esprime a favore dell'esistenza dei Giardini. 17 Si tratterebbe quindi dell’unica su sette delle antiche Meraviglie a essere un’invenzione creata soltanto per compiacere il gusto greco del fiabesco e del meraviglioso orientale, senza contare l’aspetto romantico del grande sovrano che vuole compiacere la sposa che ha nostalgia dei suoi monti boscosi. Se però il trasferimento dei Giardini a Ninive o a Nimrud ha una sua logica in quanto è indubbio che i disegni di Layard che ritraggono bassorilievi perduti riproducono qualcosa di molto simile alla descrizione dei Giardini Pensili così come appaiono nelle pagine dei classici, si può forse escludere categoricamente che qualcosa di simile fosse stata realizzata anche a Babilonia? Si può escludere che le due ipotesi, quella assira e quella babilonese non siano alternative l’una all’altra ma possano coesistere? La mancanza di fonti babilonesi contemporanee non significa necessariamente che i Giardini non siano mai esistiti, visto che la maggior parte delle venticinquemila tavolette dell’archivio di Nebuchadrezzar non sono ancora state tradotte né pubblicate. L’argumentum ex silentio, come è noto, non è infatti metodologicamente proponibile perché infinite possono essere le cause di quel silenzio che comunque viene valorizzato indirettamente dell’affermazione di Irving L. Finkel: “Non esiste un’iscrizione babilonese che abbia riferimento a una costruzione reale, di grande effetto, un giardino che, se dobbiamo credere alle relazioni posteriori che citeremo fra breve, costituiva una straordinaria novità tecnologica”. 18 Se è innegabile che la tavola di Layard riproduca giardini pensili del palazzo reale di Sennacherib, e che quei giardini appaiano frequenti nelle descrizioni dei testi assiri, non si vede perché si dovesse ambientare in un simile meraviglioso luogo la nostalgia di una principessa per i boschi della terra natia, visto che di boschi, parchi e 24 colline dalle parti di Ninive, di Nimrud e Khorsabad non c’era che abbondanza. La storia avrebbe invece molto più senso nella bassura soffocante di Babilonia, dove di giardini si doveva sentire molto di più la mancanza. Le magnifiche realizzazioni dei sovrani assiri dovevano inoltre essere ben note anche nelle terre basse fra il Tigri e l’Eufrate. La testimonianza di Ctesia, sia pur letta in filigrana attraverso le pagine di Diodoro e Strabone, in fin dei conti potrebbe essere valida, o come memoria di qualcosa che era stato realizzato molto prima della sua visita a Babilonia alla fine del V secolo a.C., o come reliquia a malapena riconoscibile di ciò che era stato. Nella vita di Artaserse in Plutarco si riporta la narrazione di Ctesia della cattura ed esecuzione dei comandanti greci dei Diecimila da parte del satrapo Tissaferne. In particolare Ctesia racconta che Clearco, il loro comandante spartano, certo ormai di essere condannato a morte, aveva chiesto un pettine e, ottenutolo, si era mostrato molto soddisfatto. Evidentemente Ctesia ignorava il motivo di quella soddisfazione, ma noi sappiamo che gli Spartani usavano pettinarsi e lavarsi prima di incontrare la morte. Così era accaduto alle Termopili prima dell’ultima battaglia contro i Persiani. Dunque Ctesia poteva anche essere talvolta un testimone affidabile per aver avuto esperienza diretta della materia del suo narrare. Il silenzio di tante fonti importanti, come i testi in cuneiforme, si potrebbe spiegare con il fatto che i Giardini Pensili avrebbero potuto essere una realizzazione tanto ambiziosa e spettacolare quanto poco duratura per l’enorme manutenzione che doveva richiedere e quindi tale da non poter o dover essere tramandata in testi ufficiali. L’obiezione di Romer che il sole babilonese avrebbe distrutto qualunque piantagione su terrazzamenti è da rigettarsi. Cipressi, ginepri e palme avrebbero potuto sopravvivere benissimo anche in poca terra, e così tamerici, euforbie, lentischi, terebinti e melograni, a seconda della disponibilità d’acqua che, nei pressi di un grande fiume, non doveva mancare. L’idea del giardino pensile è talmente suggestiva che ha affascinato molti pittori, soprattutto nell’Ottocento e nel Novecento, ed è interessante notare che le loro ricostruzioni sono sostanzialmente di due tipi: alcuni rappresentano le strutture colonnate che reggono i giardini; cercano cioè di rendere per immagini la descrizione di Filone 25 e di altre fonti antiche. Altri, invece, più numerosi, ispirandosi alla descrizione contenuta nelle pagine di Diodoro, riproducono sostanzialmente strutture piramidali a gradoni sul tipo delle ziggurat, ma con una spianata superiore molto larga che permetteva di passeggiare e ammirare piante di alto fusto, giardini esotici e rivoli d’acqua. Un autentico paradiso nel vero senso del termine. È interessante infine notare che anche nell’architettura moderna del paesaggio i giardini pensili sono molto presenti, sia sui grattacieli e nei condomini urbani che nelle costruzioni dei villaggi turistici e in molte altre situazioni. La tecnologia moderna non ha ovviamente alcuna difficoltà a sollevare l’acqua fino a centinaia di metri di altezza e a creare giochi d’acqua e fontane di grande effetto scenografico. Addirittura, in certi complessi alberghieri di altissimo livello si ricavano, nei profili naturali del terreno, veri e propri torrenti, con ghiaie lavate e talvolta con enormi massi artificiali per movimentarne il corso e per creare effetti di gorghi e cascate. L’uomo contemporaneo insomma, dopo aver creato il deserto urbano negli anni Cinquanta-Settanta del secolo scorso con la diffusione di massa dell’automobile e con i quartieri dormitorio delle città industriali, ha risentito la nostalgia dell’ambiente naturale da cui proviene la nostra specie, creando prima i grandi parchi e poi studiando modi di compenetrare gli edifici di vetro, acciaio e cemento con la vegetazione. È ovvio che, come del resto accadeva nell’antichità, si tratta di un lusso alla portata di pochi. Il gorgogliare dell’acqua, il fruscio delle fronde, il profumo dei fiori e delle piante odorose non sono per i quartieri poveri, che devono accontentarsi dei cosiddetti “giardinetti”. È interessante comunque considerare che queste soluzioni architettoniche riportano sensazioni dimenticate, e il loro carattere artificiale, lungi dall’essere sgradevole, è, se possibile, ancora più emozionante, perché risultato delle tecnologie più avanzate combinate con la sapienza botanica e agronomica di una sensibilità ambientalistica sempre più sviluppata. La colonizzazione vegetale casuale dei ruderi antichi, segno di abbandono e di struggente decadenza, la natura che riconquista spazi un tempo ceduti alle grandiose realizzazioni urbane delle civiltà antiche ha creato nei secoli passati il paesaggio ruderale che ha ispirato Piranesi e tanti suoi seguaci, ma ispira anche ai moderni una nuova, eccitante e tecnologica coesistenza. 26 Il sogno antico di una principessa malinconica diventa realtà per una umanità che sempre più cerca il ritorno alle proprie origini. 27 La Grande Piramide È la sola fra le Sette Meraviglie del mondo a essere sopravvissuta fino a noi quasi intatta, mentre delle altre o non rimane nulla o solo qualche minima traccia. Il problema di queste mirabili costruzioni è sempre stato quello dei periodi di collasso della civiltà e del conseguente impoverimento. Ma anche il fatto che erano costruite con materiali pregiati e in tempi di abbandono venivano assalite, demolite per riciclarle. Quando si tratta di tombe o mausolei (la Grande Piramide lo è) la violazione avviene già in età antica perché era noto che all’interno i corredi funebri erano ricchissimi, sicché la conservazione in toto del corredo di Tutankhamon è una specie di miracolo, un unicum. La Grande Piramide è talmente stupefacente per le dimensioni, la perfezione quasi assoluta, la precisione millimetrica degli incastri e delle sovrapposizioni, l’imponenza e la maestà, il peso esorbitante, l’orientamento astronomico, le proporzioni matematiche, che ha fatto sorgere ogni tipo di assurda ipotesi, soprattutto in tempi relativamente recenti, quando la passione per l’Egittologia, scatenata dall’invasione napoleonica del 1798, ha richiamato nel paese del Nilo una quantità di persone in cerca di forti emozioni, di misteri da indagare, di magie arcane e di tutta la panoplia emotiva tipica del preromanticismo. In età contemporanea le acque non si sono calmate, e anzi, si è arrivati a credere che la Grande Piramide, assieme ovviamente alle sue sorelle minori, sia stata edificata da civiltà aliene venute sulla terra a trasmettere conoscenze straordinarie e irraggiungibili dal genere umano; la fiction letteraria e quella cinematografica hanno fatto il resto. Altri personaggi, ispirati al biblismo anglosassone, non hanno esitato a dichiarare che si trattava dei granai costruiti da Giuseppe figlio di Giacobbe, divenuto gran visir e interprete dei sogni del faraone, per immagazzinarvi il grano in previsione delle sette vacche 28 magre, ossia di un lungo periodo di carestia. Certamente nessuno di loro le aveva mai viste, altrimenti si sarebbe reso conto che all’interno non c’era posto per immagazzinare grano nemmeno per sette mesi. Gli studiosi non hanno mai avuto dubbi che si trattasse di una tomba, perché bastava leggere le fonti antiche che in abbondanza ci sono pervenute per giungere a una simile, elementare conclusione: in particolare Erodoto, che viaggiò in Egitto e interrogò a più riprese i sacerdoti che custodivano la memoria storica del Paese, ma ci resta anche Manetone, che al tempo di Tolemeo II Filadelfo stilò una lista dei sovrani d’Egitto e delle loro dinastie. Le caratteristiche del racconto erodoteo 1, però, ci fanno capire che le sue fonti riportavano anche leggende e storie del folklore locale di cui poi si sono trovati ampi squarci nei testi in geroglifico che in certe situazioni si sono anche rivelati coincidere in modo sorprendente con passi dell’Esodo biblico ambientati in Egitto. 2 Erodoto afferma che la Grande Piramide era la tomba di Cheope, costruita da centomila uomini che avevano lavorato per vent’anni a turni di tre mesi (II, 124). Egli narra inoltre che le spese per la sua costruzione erano divenute così enormi da costringere la figlia a prostituirsi per trovare il denaro per continuare i lavori. A memoria di questa vergogna, la principessa si sarebbe fatta dare una pietra da ciascuno dei suoi clienti con cui avrebbe fatto edificare una delle piccole piramidi che si vedono nei dintorni. Una simile leggenda è stata probabilmente originata dalla memoria di qualche santuario in cui si praticava la prostituzione sacra, abbastanza comune nel mondo antico. In origine, la Grande Piramide, al pari delle altre due di Micerino e di Chefren, era rivestita di lastre di calcare perfettamente levigate che brillavano al sole come pietre preziose ed era rivestita sulla punta (il piramidion) da lamina d’oro. È poi anche possibile che il rivestimento esterno fosse decorato o recasse iscrizioni, ma questa è una circostanza che oggi non è facile verificare. Parte del rivestimento crollò durante il grande terremoto del XIV secolo a.C. Il resto fu rimosso durante il regno del Saladino, ma soprattutto durante quelli del sultano Hassan e del sultano Barkuk fra il 1356 e il 1399, che utilizzarono il calcare levigato per erigere moschee e palazzi al Cairo. Durante l’occupazione araba, il califfo Ma’mun fece trapanare la piramide per cercare la via verso il tesoro che si supponeva fosse 29 custodito all’interno, ma senza risultati. Da quel tunnel entrano oggi i turisti per le loro visite. Da allora la piramide fu utilizzata come una cava di materiali da altri califfi e spogliata completamente di quanto restava del suo rivestimento esterno, che fu adoperato per costruire altri edifici del Cairo fra cui la grande moschea. Solo sulla parte apicale della piramide di Chefren, il figlio di Cheope, ne resta ancora una parte, sufficiente per farsi almeno un’idea dell’aspetto originario delle piramidi. Esaurito il rivestimento – un’operazione che dovette richiedere tempi lunghi –, si iniziò probabilmente lo smontaggio dei blocchi sottostanti, anch’essi di calcare, del peso di almeno quattro tonnellate ciascuno. Ma per fortuna la struttura del monumento non ebbe a soffrirne più di tanto. Oggi la Grande Piramide è di poco superiore a quella di Chefren, mentre nell’antichità la sopravanzava di circa 10 metri. 3 Al suo interno ci sono due corridoi d’accesso, uno verso l’alto e uno verso il basso. Quello verso il basso raggiunge il letto di roccia piena dopo aver percorso 28 metri all’interno della struttura edificata. Gli ultimi 9 metri sono in senso orizzontale per garantire sufficiente spazio a un eventuale corteo processionale per raggiungere la camera sepolcrale, ammesso che di questo si trattasse. Ma è una spiegazione poco convincente: non si capisce infatti come i partecipanti al corteo potessero strisciare all’interno di un cunicolo tanto lungo e stretto (1 metro x 1 metro) per poi alzarsi in piedi solo negli ultimi 9 metri. La prima parte del corridoio fu ricavata lasciando libero lo spazio nella struttura a mano a mano che veniva innalzata, ma i restanti 77 metri furono tutti tagliati nella viva roccia. Il volume del taglio, quindi, è praticamente pari a 77 metri cubi, essendo il corridoio approssimativamente di un metro per un metro, come ricordato. Se consideriamo un metro cubo di calcare pari a circa 1,5 tonnellate avremo in tutto un peso di 115,5 tonnellate. Il taglio di un metro cubo di calcare effettuato oggi con mazza e scalpello d’acciaio temperato richiederebbe circa una settimana di lavoro e quindi il taglio di tutto il cunicolo richiederebbe circa due anni. Calcolando che in uno spazio di un metro per un metro può lavorare soltanto un uomo per volta e considerando che nel 2560 a.C. gli operai avevano a disposizione solo strumenti di pietra o di rame, possiamo pensare che il tempo 30 necessario sia stato almeno il doppio, ma forse anche di più. Tempo che cresce ulteriormente se teniamo conto anche della rimozione dei detriti lasciati dal taglio. Queste nostre molto approssimative considerazioni non pretendono di arrivare ad alcuna conclusione, ma vogliono dare un’idea della mole di lavoro necessaria per tagliare non solo il corridoio della camera inferiore ma tutti i blocchi di calcare che compongono la piramide (un milione e seicentomila, o un milione e duecentomila secondo altri calcoli). Il corridoio inferiore termina con una camera ipogea piuttosto ampia (14 x 8,3 x 4,3 metri). Al centro del vano c’è una specie di pozzo verticale che però gli studiosi non ritengono sia della stessa epoca della costruzione della piramide. È probabile che l’abbia scavato John S. Perring nel 1837 allo scopo di trovare un’altra camera nascosta. Dalla camera ipogea si diparte un altro corridoio che prosegue ancora per circa 18 metri in orizzontale e poi si arresta. La costruzione di questi vani ipogei, dunque, fu a un certo momento interrotta e mai completata, per ragioni che ignoriamo. Forse l’architetto si rese conto di aver commesso un errore o più probabilmente il committente, cioè il faraone in persona, cambiò idea in corso d’opera. Ciò che impressiona è che uno sforzo così enorme sia stato di fatto sprecato e l’opera presumibilmente abbandonata. C’è anche chi pensa che la camera inferiore fosse stata scavata per depistare i saccheggiatori di tombe, oppure che Cheope, dopo aver visto l’opera penetrare nel ventre della collina, avesse preferito essere collocato in un luogo più elevato verso il centro della piramide. In ogni caso, nessuna di queste ipotesi appare soddisfacente e risolutiva e il problema dunque rimane aperto. È interessante notare che la “camera della regina” si trova quasi sulla perpendicolare del vertice della piramide, cioè quasi esattamente al centro, leggermente spostata verso sud. Un altro corridoio, dicevamo, punta invece verso l’alto e verso l’interno della piramide. Al livello in cui comincia la grande galleria si diparte un corridoio orizzontale che arriva alla cosiddetta “camera della regina”, mentre l’altro, quello ascendente, superata la galleria, arriva fino alla camera del re che è sormontata da cinque gigantesche lastre di granito di Aswan, di cui due a V rovesciata che dovevano avere funzione di scarico dell’enorme peso soprastante. Al centro 31 della camera funeraria c’è un rozzo sarcofago danneggiato nell’angolo sudest e apparentemente privo di coperchio. Si è molto discusso del significato e della funzione della grande galleria, ma anche qui con scarsi risultati. Il manufatto è imponente e, quando il visitatore ci arriva, resta stupito per le dimensioni (è alta 8,6 metri e lunga 48,68 metri) e per i sofisticati accorgimenti architettonici. Le pareti, infatti, sono costituite da enormi blocchi che sporgono progressivamente verso il centro con un aggetto di circa 7 centimetri ciascuna per cui lo spazio in alto si riduce notevolmente rispetto alla larghezza del pavimento che è fatto di due gradonate separate da una rampa centrale. Si è ipotizzato che fosse una specie di cattedrale per riti particolari, ma non si vede perché il pavimento sia in salita e diviso in tre fasce. Inoltre non si capisce quale tipo di riti, visto che il cerimoniale funerario dei faraoni era rigidissimo. C’è anche chi pensa a uno spazio per collocare materiali destinati a essere messi in opera successivamente per il bloccaggio della sepoltura del re e per le saracinesche che venivano calate dall’alto una volta chiuso il sarcofago. C’è chi ha pensato che servisse per una impalcatura di legno atta a sostenere i blocchi e che lasciasse passare gli operai di sotto, ma anche questa idea sembra alla maggioranza degli studiosi poco convincente. Essendo quei blocchi giganteschi pesanti dalle 20 alle 80 tonnellate e non potendo essere rimossi finché la piramide non fosse terminata e officiato il funerale, avrebbe finito per cedere creando un disastro. A parte la difficoltà enorme di piazzare i massi di bloccaggio e le saracinesche su una impalcatura alta almeno due metri. Il problema di fondo è che non si capisce il perché di una struttura tanto importante e imponente quando sarebbe bastato prolungare il cunicolo ascendente fino alla camera funeraria. 4 In realtà, un oggetto così impressionante e maestoso come la grande galleria non ha apparentemente alcun significato che noi siamo in grado di comprendere. L’unica struttura che in qualche modo richiama è la camera funeraria della piramide di Snefru, il padre di Cheope, anch’essa realizzata con la tecnica ad aggetto di grandi blocchi laterali. 5 Non c’è da stupirsi tuttavia se la costruzione di questi monumenti 32 presenta tanti problemi interpretativi, perché l’epoca in cui fu eretta la Grande Piramide dista da noi quarantacinque secoli, una distanza temporale immensa, che costituisce una sorta di barriera fra noi moderni e gli uomini che idearono, progettarono e costruirono il monumento. Gli sforzi per proteggere il sonno eterno del faraone si rivelarono comunque del tutto inutili, e la Piramide venne violata, anche se non è stato possibile determinare quando questo sia accaduto. La prima violazione sarà avvenuta certamente in età antica in uno dei periodi di decadenza, quando le strutture dello stato che proteggevano le aree sacre venivano a mancare e i ladri avevano mano libera. Sir William Flinders Petrie, 6 uno dei più grandi archeologi di tutti i tempi, ha fornito una spiegazione affascinante su come i ladri avrebbero scoperto il punto di ingresso alla Piramide, visto che il rivestimento esterno di calcare pregiato era tutto levigato in modo uniforme: il colore. Essendo passato molto tempo fra la posa in opera delle prime lastre di rivestimento e la collocazione di quelle che coprivano l’accesso, queste ultime avevano probabilmente un colore più chiaro, perché non avevano fatto in tempo a ossidarsi. Si potrebbe però obiettare che un saggio architetto come quello che ha diretto i lavori della Piramide potrebbe aver tagliato le pietre dell’ingresso per lasciarle stagionare con le altre e metterle poi in opera assieme a quelle con il colore già ossidato. In ogni caso è noto che c’erano delle complicità fra i custodi delle necropoli e i ladri. Sappiamo che nel Primo Periodo Intermedio fu intensa l’attività dei saccheggiatori e questa può essere stata l’epoca in cui la Grande Piramide subì i primi attacchi. 7 Sappiamo, comunque, che anche i faraoni, in età successive, utilizzarono materiali dalla Piramide, come è avvenuto peraltro nella storia dell’impero romano. La chiusura del cunicolo ascendente di accesso avvenne con incredibile sagacia degli architetti che ricavarono lo spazio nella struttura ascendente della piramide ma celarono la copertura in modo magistrale. Come ancora oggi è possibile vedere, i ladri dovettero tagliare i blocchi di traverso per intercettare il corridoio che conduceva alle camere reali. La camera del re è abbastanza regolare ma non perfetta. Gli angoli 33 fra le pareti e il soffitto da una parte e il pavimento dall’altra non sono esattamente retti e questa è probabilmente una delle cause – assieme al peso spropositato di oltre 100 metri di massa lapidea fino alla sommità – che ha provocato già nell’antichità, forse addirittura a lavori non del tutto ultimati, le fessurazioni nelle pareti. Le misure della camera sono notevoli – 10,45 metri di lunghezza, per 5,23 di larghezza, per 5,08 di altezza –, e creano un vano, cioè un vuoto molto esteso per una sola campata. In teoria i grandi blocchi di copertura avrebbero dovuto cedere al peso, cosa che non avvenne. Come mai? Perché gli architetti del re avevano disposto al di sopra della camera cinque giganteschi blocchi di granito che poggiavano, indipendentemente l’uno dall’altro, sul massiccio della piramide e non semplicemente sui lastroni di contorno alla camera sepolcrale. Al di sopra del quinto vano furono disposte due lastre dello spessore di due metri, segate obliquamente nella parte superiore in modo da combaciare formando una V rovesciata che scaricava il peso sul massiccio. Ma il particolare forse più interessante di questo complesso è che all’interno delle camere di scarico ci sono dei geroglifici in pittura rossa. Essi furono tracciati dai capisquadra che lavorarono a questa incredibile opera e che ci trasmisero in tal modo il nome del faraone che avrebbe dovuto dormire il suo sonno eterno nel cuore di quella montagna di pietra. Khufu, cioè Cheope. Questo stabilito, resterebbe da identificare la destinazione dei vari elementi vuoti all’interno della Piramide. L’enorme monumento è di fatto quasi tutto pieno, esclusi i corridoi – quello discendente e quello ascendente –, le tre camere funerarie – quella sotterranea, quella detta “della regina” e quella detta “del re” –, la grande galleria e il pozzo di scarico. Quest’ultimo manufatto dalla sezione approssimativamente quadrata e abbastanza regolare (metri 0,65 x 0,68) è caratterizzato da uno strano andamento: prima scende quasi verticale, e poi assume una direzione obliqua e va a intercettare il corridoio discendente che porta alla cripta incompiuta scavata dentro la roccia. Si sono fatte parecchie ipotesi di cui una molto suggestiva: il pozzo sarebbe stato scavato di nascosto dagli operai per aprirsi una via di fuga dopo il funerale del faraone quando sarebbero stati messi in opera i blocchi di mascheramento, i massi di bloccaggio e le saracinesche. Si tratta però 34 di una ipotesi improbabile, ispirata forse a opere di fantasia in cui si narra di operai intrappolati a morire di una morte terribile e angosciosa perché il segreto di tesori sepolti non trapeli. Gli egiziani non praticavano simili crudeltà e sempre dimostrarono rispetto per la vita umana. La controprova è che non è mai stata trovata nelle piramidi o in altre tombe monumentali la minima traccia di resti umani che non fossero del defunto che vi era sepolto. Tutte e tre le camere erano evidentemente state preparate per il faraone e poi, o per ripensamenti degli architetti o per diverse decisioni dello stesso faraone, due di esse furono abbandonate ancora prima della rifinitura completa. Ciò non deve stupire, e nemmeno il fatto che, secondo le osservazioni di alcuni studiosi, le lastre di scarico della camera funeraria fossero in massima parte inutili. Quell’opera di immani dimensioni (pensiamo alla Grande Piramide, ma anche a quella di Menkhaure-Micerino, di poco inferiore per altezza e volume) non nacque probabilmente con un piano definitivo e immutabile, ma fu essa stessa palestra di sperimentazione. Il peso esorbitante della struttura, concepita per rendere impossibile il sacrilegio e la violazione della mummia del faraone, dovette essere il problema principale da risolvere, e inoltre si dovette tenere conto anche dei terremoti, frequenti in Egitto. La necropoli di Dahshur mostra chiaramente come gli architetti sperimentassero diverse soluzioni. In primo luogo basta considerare le due piramidi di Snefru, il padre di Cheope, più antiche della Grande Piramide. La prima ha una doppia inclinazione: partita da un progetto che l’avrebbe portata a 128 metri di altezza, mostrò probabilmente dei cedimenti dovuti all’instabilità del terreno e gli architetti inclinarono con un angolo più stretto la seconda parte ottenendo un involontario effetto diamante di grande fascino e bellezza. C’è chi pensa, prosaicamente, anche a un pentimento della stessa corte onde risparmiare sulle spese e sui materiali, oppure a un nuovo calcolo più prudente degli architetti che forse temevano che l’enorme peso avrebbe polverizzato la camera funeraria. La seconda piramide invece, detta per il colore dei suoi materiali “piramide rossa”, fu realizzata con un angolo iniziale di 45° che venne mantenuto fino alla sommità. Il rinvenimento di resti umani all’interno ha fatto pensare che quella sia stata in effetti la vera sepoltura di Snefru. 35 Ma come fu percepita dagli antichi la seconda meraviglia del mondo? Con stupore e ammirazione, ovviamente, ma anche con spirito critico, infatti la leggenda nera di Cheope, rappresentato come un tiranno megalomane e spietato, ha origine per noi già da Erodoto, che scrive nella seconda metà del V secolo a.C. Il ritratto tutto in negativo di Cheope è dovuto al fatto che Erodoto ragiona con la mentalità di un uomo che conosce istituzioni democratiche e sistemi elettivi di governo. E che, comprensibilmente, non si capacita del significato di uno sforzo così immane da apparire mostruoso. D’altra parte, il duro giudizio che diede Auguste Mariette, fondatore del Museo Egizio, delle sue pagine è ancora meno giustificato dei suoi errori e delle sue divagazioni fantastiche. Erodoto veniva da una civiltà in cui i monumenti più grandi e dispendiosi (nulla comunque di fronte a quelli egizi) erano sempre edifici pubblici, mai privati, e in ogni caso non strutture dedicate a un uomo solo. Erodoto, d’altra parte, non è insensibile alle tradizioni dei riti funerari egizi, tanto è vero che descrive in modo molto preciso e dettagliato i vari livelli di imbalsamazione, dai più costosi e ricercati a quelli più elementari e sobri, come mettere il cadavere sotto sale di natron per tre mesi. Quattro secoli dopo, Plinio ragionava in modo analogo considerando gli acquedotti romani molto più ammirevoli della Grande Piramide perché davano acqua potabile a centinaia di migliaia di persone mentre la Piramide era costata sangue, lacrime infinite e fatiche disumane solo affinché un uomo avesse una tomba ineguagliabile. Infine descrive la Grande Piramide come “stolta e inutile ostentazione di ricchezza dei re” (XXXVI, 77). In altri termini, Plinio aveva già ben chiaro il concetto tipicamente romano di opera pubblica, ossia creata per soddisfare i bisogni della comunità. Curiosamente, anche Diodoro siculo, mostrando una sorta di sensibilità “sociale”, si sente più vicino agli operai che costruirono la piramide che al re che la fece costruire: i primi mostrarono a suo dire (I, 1, ss: II, 15-18) più ingegno e capacità del secondo, che si era limitato a spendere enormi quantità di denaro che non aveva guadagnato ma solo ereditato o estorto. Strabone è più interessato ai caratteri tecnici della Piramide, ma la sua descrizione dell’ingresso con una lastra mobile che poteva scendere come una saracinesca a bloccare l’accesso non ha alcuna consistenza (XVII, 1, 33). 36 Il prestigio di questo straordinario monumento dura, comunque, fino alla fine della dinastia tolemaica, con la parentesi delle piramidi di Meroe e Napata innalzate dai sovrani etiopi sotto il chiaro influsso delle piramidi faraoniche del nord del Paese. Ciò che le distingue è però l’ampiezza della camera funeraria interna, a differenza di quelle dei faraoni della IV dinastia in cui le cripte erano destinate esclusivamente a contenere la mummia del faraone e il suo corredo. Dopo i faraoni della IV dinastia, il modello piramidale tornò in voga nell’Egitto propriamente detto con i faraoni della XII dinastia, ma con materiali più poveri e tecnica più approssimativa. Lucano, che scrive al tempo di Nerone, dice che le sepolture dei Tolemei erano tutte “piramides ac mausolea” (Pharsalia, VIII, 696-97). Un’espressione facilmente comprensibile se si considera che i Tolemei dovevano mostrare sia un volto ellenizzante che di cultura egizia. Per questo le loro sepolture dovevano ispirarsi o al Mausoleo di Alicarnasso per la cultura greca o alle piramidi di Giza per la cultura egiziana. Ovviamente queste piramidi avevano ben poco in comune con quelle a cui si ispiravano e dovevano sembrare molto simili alla piramide Cestia presso Porta San Paolo a Roma. Curiosamente, sia l’uno che l’altro modello per le tombe tolemaiche sono annoverati fra le Sette Meraviglie del mondo. L’unica tomba nella necropoli reale che non somigliasse né a una piramide né a un mausoleo era quella di Alessandro Magno, costruita secondo il rito macedone come tomba a camera (effossum descendit in antrum, ibid., X, 19) sormontata da un grande tumulo (extructus mons, ibid., VIII, 694). Allo stesso modo, i Tolemei si facevano ritrarre sia alla maniera greca, con tratti realistici e con il capo cinto dal diadema, che alla maniera egiziana, con le stesse sembianze idealizzate e gli stessi attributi degli antichi faraoni. In sostanza la percezione della Grande Piramide da parte degli antichi era limitata a ciò che vedevano o alle storie che sentivano raccontare. L’enorme montagna di pietra doveva avere su di loro un impatto formidabile che poi era il motivo per cui a sua volta era stata costruita. Il popolo egizio doveva avere netta l’impressione di essere governato da un dio e che non dovesse esserci limite agli sforzi e alle fatiche per costruire al faraone la dimora della sua immortalità. In taluni casi forse anche la superstizione giocò un suo ruolo. Di certo la Grande Piramide fu vista e ammirata da personaggi di 37 altissimo rango come l’imperatore assiro Asharaddon, l’imperatore persiano Cambise, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Marco Antonio, Adriano, la regina Zenobia di Palmira, Settimio Severo e suo figlio Caracalla, Aureliano e tanti altri. Diversa invece è la percezione di noi moderni e della nostra civiltà tecnologica. La vista della Grande Piramide chiaramente desta sempre stupore e fa sorgere una quantità di domande a cui, nonostante i moderni mezzi di indagine, è sempre difficile dare una risposta. Ciò che interessa è il rigore geometrico per cui un lato della piramide si congiunge con l’altro con una deviazione di 2-3 centimetri al massimo, l’enormità del peso, il numero altissimo dei blocchi tagliati, trasportati e messi in opera. Come è riuscita una civiltà che aveva solo utensili di pietra o di rame a tagliare milioni di blocchi di calcare del peso di milioni di tonnellate, e come è stato possibile trasportarli, sollevarli e collocarli in sede usando soltanto rulli e leve? Come è stato possibile posizionare il primo corso del quadrato di base con tanta precisione con cordelle di misurazione piuttosto elastiche, fatte di papiro o di fibre di lino attorte e senza poter tracciare le diagonali essendo l’interno occupato da uno sperone roccioso che non fu presumibilmente rasato? 8 C’è chi ha pensato che in realtà una buona parte dell’interno della Piramide sia occupata dalla roccia che sarebbe stata inglobata nella costruzione, ma la maggior parte degli studiosi ritiene che la roccia, se esiste, sarebbe invece stata tagliata a gradoni su ognuno dei quali sarebbero stati posati i vari corsi di blocchi. È difficile poi immaginare che la Piramide contenga al suo interno una specie di pinnacolo roccioso che geologicamente non ha molto senso. Il taglio e la posa di ciascuno di quei blocchi, il livellamento della base e infine il sollevamento graduale ai successivi livelli devono aver comportato sforzi enormi, molte vittime e invalidi e un tempo molto lungo. È stato calcolato che se fosse vero, come di fatto è probabile che sia, che l’opera sia stata costruita in vent’anni, si sarebbe dovuto montare un blocco da due tonnellate ogni minuto e mezzo, il che è impossibile, a meno di non pensare a decine di migliaia di operai al lavoro contemporaneamente, raggruppati in squadre non troppo numerose e così ben sincronizzate da non intralciarsi le une con le altre. Se così fosse, l’organizzazione del lavoro sarebbe una meraviglia 38 forse più grande dell’opera stessa. E se anche i blocchi fossero solo 1.200.000 e raddoppiando il tempo impiegato nella costruzione a quarant’anni come pure si è ipotizzato, si tratterebbe comunque di un’impresa inimmaginabile, quasi una sorta di miracolo. Clayton, eliminata l’ipotesi di un piano inclinato, che avrebbe dovuto essere lungo più di un chilometro, pensa, in accordo con altri studiosi, a terrapieni di mattoni crudi che sarebbero aumentati d’altezza assieme alla Piramide e che avrebbero fornito lo spazio necessario per le manovre e per la presenza di centinaia di operai. 9 Se la Grande Piramide esiste, però, questo significa una cosa sola: che gli egiziani l’hanno costruita. Si tratta solo di capire come. C’è anche un altro particolare che colpisce se consideriamo le tre camere sepolcrali: la prima, scavata nella viva roccia, non ha alcuna struttura di scarico, e questo è comprensibile proprio perché è inclusa nella massa rocciosa del banco di calcare. La seconda, al livello dell’inizio della grande galleria, ha soltanto due lastre spioventi. La terza è sormontata da una struttura formidabile con cinque vani di scarico, di cui l’ultimo a sua volta sormontato da una struttura a due spioventi, l’unica, secondo i tecnici, veramente necessaria. Ne deriverebbe che la camera detta “della regina” sarebbe più “moderna” di quella detta “del re”, che invece ha cinque vani di scarico, quattro dei quali, per i tecnici, sarebbero superflui. È per questo che sono fiorite tante storie di pseudo archeologia, per questo si lamenta da parte di un certo tipo di giornalismo sensazionalistico l’ottusità della scienza ufficiale che non vuole ammettere forze trascendenti, contatti ultraterrestri e segrete conoscenze nascoste in stanze inaccessibili sotto la sfinge o in altri luoghi magici. La magia esisteva nell’Egitto delle piramidi e anche nelle ere successive, ma si trattava di pratiche religiose tese a ottenere determinati risultati con il favore degli dei e per lanciare maledizioni che non hanno mai fatto male a nessuno. La magia dell’Egitto è la sua realtà, la mole e la perfezione mirabile dei suoi monumenti, la Piramide che per trentotto secoli fu l’edificio più alto del pianeta e il carattere estremo della sua religione, senza la quale la Grande Piramide non si spiega: la religione di un popolo che spendeva la metà del suo reddito per importare dallo Yemen l’incenso verde, il più 39 prezioso in assoluto, che si comprava quasi a peso d’oro per rendere alla divinità l’omaggio che le si conveniva. E la spiegazione della fatica disumana di decine di migliaia di uomini sotto il sole accecante per decine e decine di anni non sta né in una forma di fanatismo estremo, né di credulità ingenua, ma nella convinzione di un popolo che si crede capace di poter realizzare l’impresa più titanica: quella di trasformare un essere umano in un dio destinato a vivere in eterno. Esiste anche un’altra ipotesi, 10 che non ci sentiamo di condividere, e cioè che le piramidi più antiche, quelle di Dashur e Meydum, le necropoli a sud di Saqqara e di Giza, non siano solo monumenti di carattere funerario-religioso ma fossero servite come opere comuni dell’intera nazione da poco unificata con lo scopo di cementare il paese e il popolo, che si sarebbe sentito orgoglioso di aver realizzato tali meravigliose costruzioni. In realtà, fra il fondatore della prima dinastia Narmer e unificatore dell’alto e del basso Egitto (Menes secondo le liste di Manetone) e le piramidi di Dashur ci sono quasi quattro secoli, un tempo del tutto rispettabile, anche se limitato in confronto ai tre millenni della storia d’Egitto. Diciamo che l’ideologia della divinizzazione del faraone andò in parte di pari passo con l’evoluzione delle piramidi e di questo fenomeno la Grande Piramide fu l’esempio più stupefacente e più straordinario, mai più superato in una storia plurimillenaria, in un certo senso il coronamento dell’ideologia della divinità del faraone che sarebbe rimasta immutata fino alla morte di Cleopatra VII nel 30 a.C. Il fatto che tutte le tombe reali siano state violate eccetto una dimostra che per molti la ricchezza e l’oro valevano molto più della fede nell’immortalità e questo è sempre accaduto e accade presso tutti i popoli del mondo. Ed è per questo probabilmente che le piramidi furono abbandonate dopo l’erezione dei giganti di Giza: troppo difficili, troppo costose, ma soprattutto troppo visibili. L’avidità è paziente e sa attendere per mesi e anni, a volte per secoli finché non si presentino le condizioni ideali per violare lo scrigno di pietra che contiene immense ricchezze. Ma esiste anche un’altra spiegazione alla realizzazione della Grande Piramide e all’accumulare tesori immensi nella tomba del faraone o del sovrano, o dell’aristocratico. I corredi funerari, che nelle 40 culture agli albori sono uguali per tutti o al massimo diversi a seconda del sesso, finiscono per differenziarsi in modo netto e in forma ascendente: in basso quelli dei poveri, che si mantengono tali, in alto quelli degli aristocratici e dei sovrani che sempre di più si distinguono per la ricchezza e l’opulenza, fino a raggiungere livelli che hanno dell’incredibile. Già nell’antichità c’era chi esprimeva forti critiche su queste usanze. Erodoto (IV, 72-73) ricorda i costumi funerari degli Sciti reali quando avviene la sepoltura del sovrano. 11 Immolano concubine, cuochi, cavalli, strangolano decine e decine di giovani, uccidono e imbalsamano altrettanti cavalli per formare una guardia equestre al re defunto e depongono nella sepoltura coppe d’oro e d’argento in abbondanza. L’archeologia ha comprovato questi costumi, e lo scavo di tanti kurgan fra la Tracia, il Mar Nero e l’Ucraina ha messo in luce immensi tesori in oro che alla fine dell’Ottocento venivano abitualmente fusi per farne lingotti. Lo stesso è attestato nelle tombe cinesi, nell’Uzbekistan e nel Kazahstan fra popoli diversi per storia, usi e costumi il che fa pensare a una inclinazione particolare delle società umane. Questi tesori, il sacrificio di uomini e donne perché seguano e servano nell’aldilà il loro signore dimostrano solo una cosa: che gli uomini più ricchi e più potenti arrivano a convincersi di poter conservare i loro privilegi anche nella morte e nell’oltretomba e le classi dominanti che sono parte del loro entourage hanno tutto l’interesse a sostenere questa convinzione come veritiera. Il tesoro di Tutankhamon non l’avrebbe mai visto nessuno se la sua tomba non fosse stata scavata da Howard Carter e non è nemmeno immaginabile cosa dovessero essere i corredi funebri dei grandi faraoni se un ragazzo di diciotto anni era circondato di tanto bagliore. Quelle meraviglie non erano destinate a testimoniare il prestigio del sovrano perché venivano sepolte con lui e nessuno poteva vederle. Erano destinate a lui solo, perché nell’ideologia della sua maestà il suo potere si perpetuava nell'oltretomba e anche i suoi privilegi. Ora le molecole di quei tesori sono distribuite e riciclate in tutti gli oggetti d’oro presenti al mondo e, quando gli oggetti si sono conservati, sono stati trasferiti nei musei, esposti a sguardi che tanti secoli fa sarebbero stati ritenuti sacrileghi. Nel canto XI dell’Odissea, quando Ulisse incontra lo spettro di 41 Achille nell’Ade, gli dice: “… e sicuramente anche qui sei un re, hai potere sui morti”. È lo stesso concetto del potere e del privilegio che si perpetua nell’oltretomba, ma Achille è consapevole che l’unico bene è la vita, non il potere e quando la vita finisce resta solo una nebbia triste: “Io preferirei essere un contadino sotto padrone, un uomo da nulla senza ricchezze e diseredato, piuttosto che regnare su tutte le ombre consunte”. Quelle semplici parole disperate sono più forti della montagna di pietra eretta dal popolo d’Egitto attorno alla crisalide disseccata di Cheope: sono l’espressione della consapevolezza che tutti siamo uguali di fronte alla morte. 42 Lo Zeus di Fidia a Olimpia La descrizione più estesa ed efficace dell’Altis di Olimpia ce l’ha lasciata Pausania nella sua Perieghesis (libro VI), una guida coltissima e attenta delle meraviglie dell’Ellade, ed è qui la più estesa descrizione della terza Meraviglia del mondo antico: la colossale statua crisoelefantina di Fidia all’interno del tempio di Zeus Olimpio. Opere di questo tipo erano tanto spettacolari quanto fragili e delicate, al punto che non ne è pervenuta alcuna fino a noi, a meno che non vogliamo prendere in considerazione come simili le maschere di Apollo e Artemide – in pietra ma con capelli e accessori in oro – conservate al Museo archeologico nazionale di Delfi. Lo stile arcaico di queste immagini ci testimonia il gusto per la policromia presente nel mondo antico fin dalle prime stagioni dell’arte e in particolare della scultura. Benché ormai nessuno creda più a una classicità di candido marmo quale Winckelmann ce l’aveva rappresentata, va ricordato che la policromia aveva un senso anche pratico. Immagini scolpite nel marmo bianco nel sole mediterraneo avrebbero perso i contorni e la plasticità. Inoltre, le statue più antiche in assoluto, gli xoana, erano di legno (di olivo la maggior parte) e le fonti sogliono ricordare queste immagini come segno di grandissimo prestigio e dell’età veneranda di un santuario. Gli xoana erano certamente dipinti e a nostro avviso non si può escludere che le statue crisoelefantine fossero concettualmente provenienti dagli xoana come loro versione più ricca. Si può immaginare infatti che gli xoana fossero dipinti in colore chiaro nelle membra, con l’uso di madreperla per gli occhi e metallo prezioso (oro o argento) per i capelli e gli accessori. La tecnica delle statue crisoelefantine si può interpretare come un arricchimento degli xoana utilizzando l’avorio e l’oro per una resa più spettacolare dell’immagine, ma si può configurare una evoluzione indipendente da seguire attraverso materiali di vario genere utilizzati in epoche successive come terracotta e marmo. I cicli statuari 43 marmorei di Olimpia portano ancora le grappe a cui erano assicurate le parti metalliche (scudi, elmi, corazze, schinieri) mentre, ovviamente, la policromia delle superfici è perduta. Tranne nel caso di recenti scoperte come i sarcofaghi del Museo archeologico di Çanakkale in Turchia, dove è possibile ammirare scene di caccia con i colori quasi perfettamente conservati. C’è chi ritiene 1 che le origini delle statue crisoelefantine siano in Oriente e spesso vengono citate due placchette d’avorio di origine siro-fenicia di squisita fattura, una del British Museum e una (ammesso che non sia andata perduta con i saccheggi della guerra del 1990) dell’Iraki Museum. Le due placchette rappresentano una leonessa in un ambiente egittizzante di steli e fiori di loto che azzanna un giovane etiope alla gola. Il ragazzo è già a terra, indossa una tunichetta laminata d’oro, molto aderente, tanto da sembrare un paio di calzoni, ed è a torso nudo. Pure i capelli sono dorati e anche i fiori di loto hanno una doratura. Stiamo parlando comunque di un’immagine di pochi centimetri dove l’oro è un colore, non un elemento plastico come nelle statue crisoelefantine. Pausania (VII, 18, 9) ricorda invece una statua di avorio e oro di Artemide Lafria che Augusto, dopo la battaglia di Azio, fece togliere a Calidone e donare a Patrasso. Riproduceva la dea in veste di cacciatrice ed era opera di Menecmo e di Soidas di Naupatto, “vissuti non molto dopo Canaco di Sicione e Callon di Egina”. Ora, siccome Canaco di Sicione è datato come floruit intorno al 500 a.C., dobbiamo dedurre che i due autori dell’Artemide di Calidone fossero attivi nei primi due decenni del V secolo. 2 Si può pensare quindi che questo tipo di immagini si fossero affermate durante il VI secolo, forse per opera di maestranze ioniche portatrici di influssi orientali, ma che avevano sviluppato una tecnica originale, non solo policroma ma anche polimaterica. La tecnica costruttiva delle statue crisoelefantine monumentali ci è descritta da Pausania: a un grande manichino di legno venivano applicate, come in una lastronatura, le parti sia in avorio che in oro, probabilmente fissate con rivetti o con chiodi. Una tecnica non tanto dissimile si può ancora trovare in certe statue di madonne e di santi nel meridione d’Italia dove si ha un manichino di legno con il volto e 44 le mani di ceramica o di cera policroma mentre il resto è coperto dalle vesti e dalle calzature. Nelle statue crisoelefantine le parti in oro venivano smontate ogni anno per pesarle e controllare se fossero state limate per sottrarre polvere del prezioso metallo. Sappiamo che nella statua dell’Athena Parthenos dentro il Partenone era stata impiegata una tonnellata d’oro (40 talenti secondo Thuc., II, 13). Quelle statue costituivano quindi anche delle riserve finanziarie per i casi di emergenza. Fidia addirittura fu accusato di aver lucrato sull’acquisto dell’oro e messo sotto processo; erano gli anni in cui ad Atene l’opposizione all’egemonia politica di Pericle, non potendo colpire il leader, ancora troppo potente, colpiva le persone più importanti del suo entourage come Aspasia e appunto Fidia. Il grande scultore aveva realizzato nel 438 a.C. su commissione di Pericle la statua di culto del Partenone, ossia l’Athena Parthenos (vergine), di cui possediamo un’accurata descrizione di Pausania (I, 24, 5-7) e forse anche una riproduzione in una famosa statuetta proveniente dal Varvakeion conservata al Museo archeologico nazionale di Atene, 3 le cui caratteristiche corrispondono sostanzialmente alla descrizione di Pausania. La statua era alta 12 metri e rappresentava la dea in posizione stante vestita del peplo con la gorgone sul petto. La sua mano sinistra era appoggiata sullo scudo che toccava terra con l’orlo inferiore, mentre la destra reggeva una Nike alata di grandezza naturale. Sul capo calzava un elmo attico, sormontato da tre creste di crine rette da una sfinge al centro e due pegasi ai lati. 4 Ai piedi indossava sandali con la suola adorna di sculture in bassorilievo rappresentanti un’amazzonomachia. Il volto, il petto, le braccia, le mani e i piedi erano in avorio; l’elmo, il peplo, i sandali, la lancia e lo scudo di 3 metri di diametro erano in lamina d’oro. È probabile che gli occhi fossero in madreperla e la pupilla in pietra dura. È bene ricordare che il culto avveniva sempre fuori dal tempio dove sorgeva l’altare, a causa del carattere cruento dei sacrifici, mentre l’interno era inteso come la dimora stessa della divinità, la sua casa presso gli uomini. All’esterno, sulla sinistra guardando la facciata del Partenone, sorgeva un’altra statua gigantesca di Athena Promachos 45 (combattente) tutta di bronzo e anch’essa opera di Fidia, 5 a eccezione dello scudo istoriato che era opera di Mys, uno straordinario cesellatore più che uno scultore (Paus. I, 28, 2). Fidia diresse inoltre l’esecuzione dell’intero ciclo scultoreo che adornava il Partenone: i frontoni, le metope e la fascia scolpita e continua della cella che raffigurava la processione delle Panatenee, la festa più importante dell’anno liturgico ateniese, ora in possesso del British Museum. Questo dunque era l’uomo che fu chiamato a Olimpia a rappresentare in un colosso crisoelefantino il padre degli uomini e degli dei assiso in trono con il capo cinto da una corona di alloro, e in mano lo scettro con un’aquila sulla sommità. Un uomo al culmine della sua carriera artistica, creatore di uno stile e di una estetica che ancora oggi sono fra i pilastri culturali della civiltà dell’Occidente: lo stile classico che ha nell’armonia, nella solennità dell’espressione e degli atteggiamenti, nella perfezione dei volti e dei profili, nella spontaneità misurata dei gesti, nell’equilibrio dei volumi e delle forme il suo concetto della dignità dell’essere umano, della nobiltà della sua intelligenza e del suo sguardo, della grandezza dei suoi intenti e dei suoi ideali di organizzazione della società. Pausania, al tempo dell’imperatore Marco Aurelio (174 d.C.), vide un edificio, non lontano dal santuario di Zeus, verso Occidente, che era ritenuto il laboratorio di Fidia (Paus. V, I, 14). Pausania, come era giusto, credette che fosse vero benché fossero passati sei secoli da quando il grande artista ateniese aveva portato a termine il gigante che un giorno sarebbe stato annoverato fra le Sette Meraviglie del mondo. Dapprima dovette realizzare il progetto: prendere le misure dello spazio interno del tempio, dell’altezza dal pavimento al soffitto, riportare in scala la collocazione della statua e forse anche costruire un modellino per rendersi conto del rapporto fra i volumi. Poi mise mano all’anima di legno della statua, che ne definiva i confini, l’altezza, la dimensione del piedistallo, l’ingombro del trono, l’aggetto delle mani e delle ginocchia, il volume e l’inclinazione della testa laureata. Non sappiamo esattamente come fosse fatto il supporto ligneo nella statua di Fidia: se si trattava semplicemente di un traliccio realizzato con tante travi incrociate o se si trattava di un grande manichino che rappresentava in scala definitiva l’abbozzo di un 46 modello in piccola scala. Sembrerebbe più probabile la seconda ipotesi, visto che dovevano esserci delle superfici a sostenere i rivestimenti in placche d’avorio e in lamina d’oro martellata su modelli in terracotta prima disegnati dal maestro e non solo dei punti di imbastitura. Di questi modelli in terracotta si sono trovati esemplari nell’atelier di Fidia individuato a poca distanza dal tempio verso sudovest. Ovviamente, se accettiamo l’idea di un supporto ligneo, doveva trattarsi di una forma grezza ma perfetta dal punto di vista dell’ingombro. È possibile che all’interno del modello ligneo vi fossero anche dei tiranti di cuoio o di canapa o altra fibra che mantenevano tensione fra tutte le parti più distanti della statua tramite manganatura, per evitare torsioni, crepe o sbilanciamenti. Ed è anche possibile che a questo scopo venissero posti in opera dei travi in legno fissati sulle pareti a incastro e picchetti di legno nel senso dell’altezza, della larghezza e delle diagonali. Da questo intrico di travi e tiranti dovette venire la descrizione di Luciano (Il Gallo, 24): “Ciascuno di questi (colossi), infatti, dal di fuori è o uno Zeus bellissimo, fatto d’oro e d’avorio, con un fulmine o un lampo o un tridente nella destra, ma se ti chini a guardare l’interno, vedrai stanghe, puntelli, chiodi conficcati da parte a parte, travi, cunei, pece, creta e molta bruttura simile nascosta dentro, e tralascio di dire quante sono le mosche e i topi che talvolta vi dimorano”. D’altra parte, solo il bronzo sopportava torsioni e fuori piombo dei pesi, gli altri materiali erano soggetti a cedimenti. Ed è sicuramente per questo che sia l’Athena Parthenos sia lo Zeus di Olimpia avevano posture molto compatte, inscrivibili l’una in un cilindro, l’altro in un parallelepipedo. Se una simile struttura, impietosamente descritta dal caustico Luciano come un ricettacolo di topi e di mosche, venisse disegnata oggi al computer, avrebbe l’aspetto di un trabecolato completato solo in un secondo momento con delle superfici, ma non possiamo escludere che una simile procedura costruttiva fosse stata ottenuta a mano a forza di misurazioni, un po’ come faceva Canova per realizzare i suoi gessi. È possibile che le “brutture” di cui parla Luciano fossero anche rimasugli di cantiere abbandonati alla rinfusa dopo la fine dei lavori o attrezzi e materiali ammucchiati per eventuali interventi di riparazione. Il contrasto fra esterno e interno è comunque reso molto efficacemente. 47 Di alternative però non ve ne sono tante: la più probabile a nostro avviso è quella di una statua grezza in legno fatta di blocchi grossolanamente sagomati fatti aderire l’uno all’altro a incastri con l’aiuto forse di perni a mo’ di grappa o di picchetti di legno a pressione (i chiodi passanti di Luciano), poi sbozzata all’esterno più accuratamente per poter essere rivestita con precisione dalle placche di avorio e dalle laminature in oro, quindi svuotata all’interno il più possibile con l’uso di scalpelli e sgorbie, non soltanto per alleggerire la struttura, ma per contenere i movimenti del legno vivo e per compensarli con opportune apparecchiature. Solo così si spiega infatti l’impressione sgradevole di Luciano. Ma quel “nido per topi” in realtà era un’opera molto più difficile, sofisticata e impegnativa di qualunque statua in marmo e anche in bronzo. Non a caso la realizzazione richiese cinque anni di lavoro. A parte, probabilmente, si creavano i vari elementi in terracotta disegnati dal maestro, su cui sarebbero state martellate le lamine d’oro per i panneggi, mentre gli aiuti sulle impalcature lastronavano con placche di avorio le superfici scoperte del corpo del dio. L’intera struttura doveva pesare di per sé svariate tonnellate, benché svuotata all’interno il più possibile, perché, come si è detto sopra, doveva anche essere stabilizzata con distanziali e puntelli in legno duro e molto stagionato, come quercia o faggio, o forse anche tiranti di cuoio e canapa manganati. A mano a mano che l’opera procedeva l’enorme macchina si appesantiva sempre di più per l’aggiunta dell’oro, dell’avorio, delle numerose pietre dure e della pasta di vetro con cui si creavano le decorazioni del mantello. Le parti in lamina d’oro, come già accennato, venivano applicate in modo tale da poterle smontare per controllarne il peso. La preziosa testimonianza di Pausania ci fa sapere che il colosso assiso in trono veniva costantemente e abbondantemente unto con olio di oliva, non certo per lucidarlo ma per impregnarne l’avorio e impedire il più possibile che si fessurasse in tante piccole crepe che con il tempo si sarebbero allargate sempre di più fino a far perdere al prezioso materiale le sue caratteristiche. Per l’oro ovviamente non esisteva il problema, ma è probabile che l’olio penetrasse il legno sottostante difendendolo dall’umidità, stabilizzandolo e contrastando in tal modo i movimenti del massello. 48 Il basamento ha lasciato la sua impronta nel pavimento della navata centrale del tempio, per cui ne conosciamo perfettamente le dimensioni: largo 6,65 metri di fronte, lungo 10 e alto circa un metro. L’altezza della statua era fra i 12 e i 13 metri, come una casa di quattro piani; se contiamo anche il piedistallo, 14. Le dimensioni erano tali che Strabone (VIII, 3, 30) ebbe a scrivere che se il dio rappresentato nella statua si fosse alzato in piedi avrebbe sfondato il tetto. Evidentemente Fidia aveva ritenuto di costruire un’immagine senza curarsi che fosse proporzionata al tempio che la conteneva e preoccupandosi soltanto di farne un oggetto di straordinario impatto sul visitatore. L’opera fu probabilmente realizzata in situ (cioè all’interno del tempio) per quanto riguarda la sagoma in legno, mentre nel laboratorio del maestro furono certamente creati i modelli di membra separate o di particolari di grande importanza (pensiamo all’aquila, alla Nike, allo scettro, alla corona d’alloro, alle mani, ai piedi, alla barba e ai capelli, ai panneggi del mantello). Ogni pezzo veniva numerato e poi assemblato all’interno del tempio con l’aiuto di una poderosa impalcatura che consentisse l’accesso ai vari livelli dell’enorme cantiere. Per questi ingombri straordinari il tempio dovette essere inagibile al pubblico per molti anni. Terminata la sagoma si procedette a svuotarla all’interno, non tanto perché il peso della statua intera avrebbe sfondato il pavimento dell’atelier, 6 ma per ridurre gli spessori del massello, e di conseguenza i movimenti del legno, e ricavare all’interno lo spazio per poi applicare i dispositivi atti a compensare le dilatazioni e le ancora più pericolose torsioni. È ovvio che se il legno di cui era fatto il colosso avesse subito dilatazioni, contrazioni o torsioni, le placche di avorio si sarebbero fessurate o addirittura staccate e poi sarebbero cadute sul pavimento. Il legno vivo in espansione sviluppa una potenza enorme, basti pensare che gli antichi egizi quando tagliavano i giganteschi monoliti degli obelischi creavano lungo il banco di granito delle fessure in cui inserivano cunei di legno molto secco che poi bagnavano. I cunei gonfiavano e spaccavano il granito lungo la linea di fessurazione. Ciò significa una pressione di centinaia di tonnellate. Alcuni suggerimenti ci vengono dallo scavo dell’atelier di Fidia 7 che già nel II secolo d.C. era stato mostrato a Pausania durante la sua 49 visita a Olimpia. Si trovava a sudovest del tempio di Zeus, a circa duecento metri, e gli scavi hanno messo in luce frammenti di pasta vitrea, di pietre dure, di avorio, stampi di panneggio in terracotta e un certo numero di strumenti, in particolare scalpelli e raspe, 8 adatti per la lavorazione del legno, il che fa pensare appunto allo svuotamento della parte lignea dello Zeus. Il ritrovamento di una coppa con l’iscrizione “Feidiou eimì” (sono di Fidia) 9 toglie ogni dubbio residuo. Da ultimo, furono applicate le placche di avorio sagomato, fissate al legno con chiodi e rivetti. Una volta in opera, vennero rifinite e corrette e poi l’intera statua fu levigata e lucidata. Non sapremo mai che cosa abbia provato il maestro quando finalmente poté ammirare il suo lavoro finito, né sapremo mai a che ora del giorno o con che luce abbia voluto ammirarlo, ma quel momento passò comunque nella leggenda. L’interno di un tempio dorico era abbastanza scuro; Fidia l’aveva sempre saputo e doveva aver dosato l’oro e l’avorio tenendo conto di quella illuminazione. I pellegrini avevano in ogni caso la possibilità di salire al piano di sopra, in cui era ricavato un portico, tramite una scala a chiocciola. Questa loggia al primo piano consentiva di ammirare la parte superiore della statua più comodamente e di contemplare il volto del dio da vicino. Zeus appariva al visitatore seduto in trono: era quasi a torso nudo e il manto gli copriva la spalla sinistra, il grembo, le ginocchia e le gambe, fino ai piedi che calzavano sandali e poggiavano su uno sgabello sorretto da due leoni. Il manto era decorato con figure di animali e con gigli in pasta vitrea colorata per farli risaltare sul fondo d’oro. Il dio aveva il capo eretto incoronato d’alloro come gli atleti olimpici e gran parte della statua sfavillava d’oro con riflessi cangianti a seconda della luce, dei colori e delle ombre proiettate all’interno dai raggi del sole. Nella mano sinistra teneva uno scettro sormontato da un’aquila, nella destra una Nike, presumibilmente in grandezza naturale, anch’essa in avorio e oro. Il basamento faceva in un certo senso parte a sé. Le sue superfici piane in marmo blu di Eleusi presentavano una decorazione a bassorilievo anch’essa molto ricca e varia, con le figure in oro che dovevano risaltare potentemente sul fondo scuro. Rappresentavano le 50 maggiori divinità dell’Olimpo, il carro solare, la Luna, Zeus ed Hera, Afrodite. Non sappiamo di quale materiale fosse fatto il trono, ma è probabile che fosse di legno massello, eventualmente con rinforzi metallici dato il peso della statua. Pausania dice che era riccamente ornato (poikiloò) con oro e ogni genere di pietre, e inoltre con ebano e avorio (V, 11, 2). Insomma una policromia ricchissima, che al gusto di noi moderni apparirebbe forse eccessiva, ma bisogna sempre tenere presenti la temperie culturale dell’epoca e le esigenze dei committenti che, in tutte le epoche, da un lato hanno reso possibile la realizzazione di opere straordinarie, dall’altro hanno sempre interferito con le intenzioni degli artisti. Vi sono inoltre sia immagini dipinte (grafe memimemena) che in rilievo (agalmata eirgasmena). Quattro Nikai sono rappresentate su ciascuno dei quattro piedi in forma di donne danzanti e altre due alla base di ciascun piede. È un po’ difficile interpretare questo passo della descrizione di Pausania; si dovrebbe pensare a quattro Nikai sulla faccia esterna dei quattro piedi del trono e altre due alla base, presumibilmente delle due facce anteriori, ma nella parte bassa perché la maggior parte dei due frontali (ton podon… ten emprosthen) doveva essere riservata alle scene tebane: vi si vedevano infatti fanciulli tebani assaliti da sfingi mentre sotto le sfingi c’era la scena di Apollo e Artemide in atto di trafiggere con le loro frecce i figli di Niobe. Le gambe del trono, pare di capire, erano tenute insieme da quattro traverse che s’incastravano ciascuna su due piedi ed erano anch’esse decorate. La traversa che guardava l’ingresso, cioè quella che univa i due piedi anteriori del trono, aveva sette figure mentre un'ottava era mancante. Pausania diceva che vi fossero rappresentate delle scene di giochi che non erano ancora in uso all’età di Fidia e che una di queste figure, che rappresentava un giovinetto in atto di cingersi un nastro attorno ai capelli, somigliasse molto a Pantarce, un ragazzo di Elide di cui Fidia era l’amante e che aveva vinto la gara di lotta per ragazzi nella LXXXVI Olimpiade. Il passo di Pausania anche qui è poco chiaro perché l’autore della Perieghesis sapeva benissimo che le competizioni dei ragazzi a Olimpia erano già in voga da più di un secolo e mezzo al tempo di Fidia. Per 51 questo c’è chi l’ha interpretato in un altro modo e cioè nel senso che “Pantarce non aveva ancora raggiunto l’età di un ragazzo al tempo di Fidia”. 10 Si tratterebbe quindi non tanto di una considerazione riguardo al vincitore di una gara nelle Olimpiadi per ragazzi, ma di un’allusione a un rapporto di Fidia con un ragazzo che non aveva ancora raggiunto la pubertà, il che costituiva reato grave, in quanto il bambino non aveva facoltà di scegliere consapevolmente di avere un rapporto con un adulto. Clemente Alessandrino narra che su un dito dello Zeus di Olimpia c’era scritto “Pantarkes kaloò” cioè “Pantarce (è) bello”: ossia una dichiarazione d’amore di Fidia per il ragazzo. 11 Ma quanto grande era un dito di Zeus? Quello di un uomo normale è lungo circa 8 centimetri. Se facciamo una proporzione e consideriamo che la statua fidiaca fosse alta fra i 12 e i 13 metri, un suo dito sarebbe stato lungo poco meno di un metro: un’enormità. Il San Carlo Borromeo di Arona, che è alto 23 metri (quasi il doppio dello Zeus), ha dita della lunghezza di 1,95 metri. C’è poi un altro particolare importante del complesso dello Zeus: le balaustre dipinte dal grande pittore Paneno (Panainoò), fratello di Fidia secondo Pausania, suo nipote secondo Strabone. Queste separavano l’area su cui sorgeva la statua dal resto del tempio, dove si può pensare si accalcassero i visitatori. La prima impressione che essi ricevevano era di trovarsi al cospetto di un essere vivente, sia per l’imponenza quasi scioccante della statua, sia per la policromia che la rendeva in qualche modo “reale”. L’avorio era quanto di più simile si sarebbe potuto utilizzare per simulare l’epidermide, il volto era sicuramente la parte più impressionante, con barba, baffi, occhi colorati, labbra tinte con il cinabro (nelle statue bronzee dei due guerrieri di Riace e nel pugile delle terme si è utilizzata invece lamina di rame), sopracciglia, capelli a cascata. Uno dei pezzi più clamorosi del Museo archeologico di Cirene è una testa di Zeus di età adrianea in marmo policromo di evidente stile fidiaco, dove la voluminosità delle chiome e della barba richiama in modo impressionante le descrizioni che fanno Strabone e Pausania dello Zeus di Olimpia. Data la grande passione di Adriano per l’arte greca e in particolare fidiaca (un’amazzone di Fidia è in copia marmorea nella villa di Tivoli), si potrebbe forse pensare che lo stesso 52 imperatore abbia voluto quella copia in scala minore da dedicare magari nel tempio di Zeus sull’acropoli, ricostruito dagli archeologi italiani che lo stanno completando negli ultimi particolari. La testa fu rinvenuta frammentata in un centinaio di pezzi e ricomposta magistralmente dai restauratori italiani in modo da sembrare quasi perfetta. La straordinaria qualità e intensità dell’opera fa appunto pensare a una copia del più famoso volto di Zeus che esistesse allora al mondo: quello di Olimpia. 12 Tornando a Paneno, sappiamo che aveva dipinto le balaustre con una quantità di soggetti mitologici: diverse fra le fatiche di Ercole, tra cui quella famosa che lo vede lottare con il leone di Nemea, ma anche altre come quella in cui si accinge a sostituire Atlante nel reggere il cielo stellato e quella in cui si batte con l’aquila che divora il fegato a Prometeo. Sono rappresentati inoltre Teseo e Piritoo nelle loro imprese, ma anche Aiace Oileo in atto di stuprare Cassandra, un tema oscuro, preso molto probabilmente da uno dei poemi del ciclo, la Ilioupersis (la caduta di Ilio), e ancora, sempre da un poema del ciclo (l’Etiopide?), l’amazzone Pentesilea che, uccisa da Achille, giace esanime fra le sue braccia. Doveva trattarsi di un ciclo pittorico straordinario perché Paneno era uno dei pittori più famosi del suo tempo e aveva dipinto la battaglia di Maratona nel portico Pecile (stoà poikilè), che significa “portico dipinto, decorato”: uno dei monumenti più famosi di tutta Atene. Nella balaustra erano raffigurate inoltre le nozze di Piritoo e Ippodamia, a cui erano stati invitati anche i centauri che però, ubriachi, cercarono di violentare le donne dei Lapiti. Questa scena era rappresentata anche all’esterno, nel frontone occidentale, con l’apparizione al centro della figura di Apollo che tende il braccio per sedare la mischia. Nel frontone orientale, invece, c’era la scena precedente la partenza della corsa dei carri di Enomao (padre di Ippodamia) e di Pelope, il tredicesimo pretendente. Gli altri dodici erano già stati uccisi e le loro teste inchiodate al portone della reggia di Enomao. Pelope però aveva corrotto l’auriga di Enomao, Mirtilo, promettendogli la prima notte d’amore con Ippodamia. Mirtilo sostituì i perni di ferro delle ruote con perni di cera, che cedettero, ed Enomao fu trascinato dai cavalli sulle rocce e fatto a pezzi. Pelope, 53 tuttavia, non mantenne la promessa fatta a Mirtilo per cui la sua progenie fu maledetta. È impressionante che proprio sul frontone del tempio di Zeus a Olimpia, dove la lealtà doveva essere la virtù suprema e assoluta, venisse rappresentato l’episodio di una gara sanguinaria vinta con l’inganno e la corruzione. La corsa di Enomao era lunga e accidentata: partiva da Olimpia e terminava all’altare di Poseidone a Corinto. Al pretendente di sua figlia, bella da stordire, lasciava un vantaggio: il tempo che impiegava a immolare un ariete a Zeus. Poi il re Enomao partiva frustando i cavalli velocissimi che Ares in persona gli aveva donato, invincibili. Alla fine, immancabilmente, giungeva a ridosso del suo avversario prima della meta, gli piantava una lancia nella schiena, lo decapitava e riportava la testa a Olimpia per inchiodarla alle porte del suo palazzo. Era mai possibile che una storia tanto crudele e tanto brutale dovesse essere rappresentata in un luogo fra i più sacri dell’Ellade? Qual era mai il significato? Il luogo dell’armonia suprema, della bellezza allo stato puro doveva anche ricordare a tutti da dove veniamo, doveva ricordare che la competizione era stata all’origine soltanto scontro bestiale e sanguinoso, membra maciullate, urla di dolore, di odio e di follia. Il tempio comunque era una incredibile concentrazione di arte allo stato supremo, sia all’esterno che all’interno, dove dominava il padre degli dei assiso in trono. Il formidabile complesso frontonale, benché frammentato, è in gran parte conservato: quarantadue statue di uomini e donne, guerrieri e mostri, dei e dee presenti ma non partecipi delle vicende umane, ci trascinano in un vortice di passioni primordiali, di sete di potere, di concupiscenza, di violenza efferata e brutale. I due cicli statuari rappresentati sui frontoni ci sono pervenuti in buona parte conservati: mancano alcuni elementi, i colori, gli accessori metallici (corazze ed elmi, schinieri, lance e scudi lucidati a specchio) e l’interagire di tutto ciò con il sole ellenico, la luce piena e limpida. Per farcene un’idea bisogna immaginare, fatte salve le fortissime differenze cronologiche e stilistiche, certi cicli di ceramica policroma nello stile dei della Robbia, come per esempio l'imponente fregio con figure in grandezza naturale che si può ammirare sulla 54 facciata dell’Ospedale del Ceppo a Pistoia, o certi gruppi monumentali in terracotta policroma del primo Rinascimento. Ma che ne fu dello Zeus di Fidia? Sopravvisse alla civiltà che lo aveva creato? Purtroppo le nostre fonti sono scarse e avare. Sappiamo da Svetonio (Calig., 22) che Caligola aveva dato ordine di portarlo a Roma. L’imperatore non visse abbastanza da vedere realizzata una simile assurdità, per fortuna, ma se diede l’ordine significa che la statua esisteva ancora e che quindi aveva ricevuto fino a quel tempo la manutenzione necessaria, che doveva essere frequente e accurata per le ragioni che abbiamo esposto prima. Al tempo di Caligola lo Zeus esisteva da quasi cinquecento anni, un tempo enorme per un oggetto tanto delicato e fragile. Oggi abbiamo in mostra nei nostri musei opere d’arte che hanno ben oltre i trenta secoli di età, ma si tratta di oggetti di marmo, pietra, oro, bronzo, che in teoria possono durare per un tempo indefinito. Diverso è il caso dello Zeus di Fidia che, come abbiamo visto, era opera estremamente complessa e fatta di materiali come il legno e l’avorio che tendono a deperire e (soprattutto l’avorio) a perdere le loro caratteristiche. Dopo l’accenno alla richiesta di Caligola non abbiamo altre testimonianze, ma è ragionevole pensare che la statua sia rimasta al suo posto almeno fino all’età di Costantino. L’imperatore, che promulgò con il collega Licinio l’editto di Milano del 313 d.C., concesse e garantì a tutti i cittadini dell’Impero la libertà di culto, e dunque anche ai seguaci della religione olimpica, benché personalmente avesse fatto la sua scelta a favore del cristianesimo. Le cose cambiano con le leggi teodosiane del 398 d.C. con cui il cristianesimo diventa religione di stato e i culti pagani vengono proibiti. Da quel momento, chi veniva sorpreso a offrire sacrifici a un dio pagano era passibile di pena di morte. I perseguitati, una volta raggiunte le stanze del potere, si erano presto trasformati in persecutori. Ad Alessandria, nel 415 d.C., il linciaggio e il massacro di Ipazia, colpevole solo di essere donna, di essere bella, colta e indipendente, avvenne proprio in questa temperie di intolleranza e fanatismo religioso. La legge venne interpretata in modi assai diversi a seconda dei luoghi e dei magistrati che l’applicavano. In moltissimi casi i monumenti e le immagini del mondo classico vennero distrutti in 55 quanto manifestazioni impudiche e personificazioni del demonio (Clemente Alessandrino, IV, 46 ss.). Ma il colpo di grazia alle memorie del mondo classico fu inflitto da Teodosio II il 14 di novembre del 435 d.C. quando emanò un decreto con cui ordinava di distruggere tutti i templi pagani esistenti e di decapitare tutte le statue e le immagini degli idoli. Questo, per esempio, fu il destino che toccò ai santuari di Olimpia e alle centinaia di nudi atletici che ci sono pervenuti solo tramite copie romane in marmo. E se per una sorta di miracolo tanti capolavori, pur danneggiati, si sono salvati è dovuto semplicemente al caso. Basti pensare al gruppo marmoreo dell’Hermes detto “di Prassitele” che per molti critici è un originale, anche se per altri si tratterebbe, invece, della copia marmorea di un originale in bronzo andato perduto. In questo panorama desolato che cosa accadde dello Zeus di Fidia? Apprendiamo da una testimonianza di Giorgio Cedreno (Hist. Comp., p. 32 B), storico bizantino del XII secolo, che un alto funzionario dell’Impero bizantino, praepositus sacri cubiculi di nome Lauso, aveva un palazzo e una galleria d’arte in cui conservava, evidentemente con il permesso dell’imperatore, grandi capolavori fra cui l’Afrodite Cnidia di Prassitele e lo Zeus di Fidia. 13 Lauso morì nel 435 e non sappiamo che fine abbia fatto la sua galleria. Forse la salvò proprio Teodosio II? Quello che è certo è che nel 475 Costantinopoli fu in gran parte devastata da un terribile incendio e in quell’occasione andò distrutto anche il palazzo di Lauso che doveva trovarsi, secondo la maggioranza degli studiosi, vicino al lato occidentale dell’ippodromo. Con l’incendio, dunque, ammesso che fosse ancora integra, certamente andò distrutta anche la sua preziosa collezione. Lo Zeus aveva superato indenne otto secoli di rivolgimenti, guerre, scontri di religione, invasioni e terremoti; forse era stato trasportato a Costantinopoli da un imperatore di mentalità eclettica (Costantino?) proprio per salvarlo e l’operazione di trasporto dovette essere incredibilmente complessa. Di certo dovette essere smontato, almeno in parte, il che confermerebbe che la forma lignea era fatta di blocchi e segmenti modellati all’esterno, svuotati e scalpellati all’interno, tenuti insieme da caviglie di legno martellate a pressione e forse anche da incastri. In primis perché non sarebbe passato dalla porta del tempio e poi, quand’anche fosse stato aperto un varco, non sarebbe stato 56 possibile trasportare intera una statua alta 13 metri e pesante molte tonnellate, né per terra né per mare. Dovette poi essere rimontato una volta giunto a destinazione, con un’operazione in tutto simile a quella della sua costruzione. Di un’impresa tanto impegnativa non abbiamo la minima notizia, ma se la statua si trovava a Costantinopoli nel IV secolo evidentemente il trasferimento doveva essere stato effettuato con successo. Una delle opere più straordinarie di tutti i tempi, una delle Sette Meraviglie del mondo, venne dunque a trovarsi nella capitale dell’Impero Romano d’Oriente, il che avrebbe potuto garantirle ancora secoli di sopravvivenza. Così non fu, e il gigante fidiaco che aveva incantato generazioni e generazioni sparì in pochi minuti in un vortice di fiamme. 57 Il Colosso di Rodi Il Colosso di Rodi è forse la più affascinante delle Sette Meraviglie del mondo antico, e una delle più misteriose. Non che manchino le notizie su quest’opera, anzi, ma le difficoltà di interpretazione sono sempre molto elevate, specialmente per i testi di carattere tecnico come quello di Filone di Bisanzio, nostra fonte di riferimento. 1 Filone era un ingegnere, e quindi in teoria particolarmente affidabile, ma se parliamo di un’opera come il Colosso di Rodi dobbiamo considerare che le tecniche coinvolte non sono soltanto quelle di carattere strutturale. Il Colosso era prima di tutto una statua, quindi coinvolgeva la scultura e l’arte tout court; la statua era di bronzo e perciò la sua realizzazione chiamava in causa la tecnica bronzistica; ma era anche struttura muraria e quindi implicava la tecnica costruttiva. La parola “kolòssos”, di matrice dorica in quanto Rodi era una colonia di Argo, era in effetti un termine indigeno del mondo microasiatico che indicava degli idoletti aniconici. 2 Questi rappresentavano il doppio di qualcuno, un po’ come il ka in Egitto, e venivano usati per gettare una maledizione o come forma di magia bianca per operare guarigioni. Con quel termine in seguito si indicarono le statuette votive che i fedeli dedicavano nei santuari, cioè oggetti di pochi centimetri. Successivamente, con il termine “kolòssos” si finì per indicare qualunque statua 3 e finalmente la statua per eccellenza: il gigante di bronzo che rappresentava il dio Helios, patrono dell’isola e della sua capitale, clamorosa realizzazione di uno scultore di nome Carete di Lindo, discepolo del grande Lisippo, l’unico scultore dal quale si facesse ritrarre Alessandro Magno. Lisippo era un uomo che veniva dalla gavetta, nel senso che era stato un operaio fonditore e si era sporcato e bruciato le mani nelle officine dei bronzisti. Era anche un grande innovatore nel gusto e 58 nella composizione, così come lo era il suo omologo nella pittura, Apelle, anche lui esclusivo autore di qualunque opera pittorica che ritraesse Alessandro per volontà stessa del condottiero macedone (famosa quella che lo ritraeva con in mano il fulmine esposta nell’Artemision di Efeso). Sappiamo che Lisippo aveva compiuto opere impressionanti per composizione e per qualità, come per esempio il gruppo perduto della “carica del Granico”, che ritraeva Alessandro con i suoi compagni a cavallo, lanciati al galoppo sfrenato, opera di enorme effetto visivo. Di Carete, che pure era stato suo allievo, non conosciamo altro che non sia lo smisurato gigante di bronzo da lui eretto agli inizi del III secolo a.C., inaugurato forse nel 293 a.C. e crollato per il violento sisma del 227 a.C. stando a quanto riportano Plinio (XXXIV, 41) e Strabone (XIV, 2, 5), secondo i quali la statua cadde dopo sessantasei anni dalla sua erezione, per un terremoto. 4 La sua collocazione è ancora oggetto di discussione ma la statua doveva trovarsi da qualche parte nella capitale, probabilmente in prossimità del porto. 5 Plinio dice che nell’isola di Rodi c’erano un centinaio di colossi, ciascuno dei quali avrebbe fatto l’orgoglio di una città, ma non specifica di quali dimensioni fossero, per cui si può pensare che la dimensione variasse anche di molto a seconda delle committenze e dell’abilità degli esecutori. In realtà la statuaria monumentale in bronzo o in marmo era molto comune nelle città antiche, perché rappresentava il modo per comunicare con il pubblico a livello politico, propagandistico e religioso. Strabone, che ricorda il colosso di Carete abbattuto da un terremoto, indugia prima a descrivere la prosperità dell’isola, l’attenzione dei governi nella gestione della cosa pubblica, i traffici commerciali. In questa ottica, il grande numero di monumenti straordinari, insieme all’ideologia religiosa e politica, potrebbe far pensare a un modo di sviluppare arte, cultura, tecnologie d’avanguardia, a un’attività che, oltre al prestigio, creava un importante volano per l’economia. Ancora oggi nelle nostre città i monumenti sono molto numerosi e spesso anche di grandi dimensioni: alcuni (pochi) giunti fino a noi dall’antichità come il monumento equestre di Marco Aurelio a Roma – prima al centro della piazza michelangiolesca del Campidoglio, ora musealizzato e sostituito con una copia – sopravvissuto perché 59 scambiato per un Costantino, oppure il “colosso di Barletta”, alto 4 metri e mezzo, giunto in città in circostanze non chiare e identificato dapprima con Eraclio, ora più verosimilmente con Teodosio II. Il suo aspetto attuale è dovuto al restauro con cui gli furono restituite gambe e braccia che erano state smontate e fuse nel Medioevo per farne una campana. In realtà si calcola che a Roma vi fossero più di quattrocento statue equestri di soggetto imperiale proprio come quella di Marco Aurelio e quasi tutte di grandi dimensioni. Moltissime furono trasportate a Costantinopoli con la traslazione della capitale dell’Impero, altre durante l’impero di Focas, uomo prepotente, avido e crudele, altre ancora andarono distrutte durante le invasioni barbariche non tanto per vandalismo, cioè per mania distruttiva, quanto perché grandi quantità di bronzo ridotto in lingotti rappresentavano un capitale. Un esempio eloquente è quello dei bronzi dorati di Cartoceto, trovati per caso nei lavori di scasso per una vigna, probabilmente predati da un arco di Pesaro e fatti a pezzi dagli Jutungi sulla via della ritirata. La maggior parte dei monumenti moderni sono riferibili alla volontà di creare una coscienza e una identità nazionale e veicolarne i valori comuni sia civili che religiosi. Quasi tutti, infatti, hanno origine nell’Ottocento quando si sviluppa il concetto di Stato-Nazione. Il primo monumento pubblico dell’antichità a noi noto, opera di Kritios e Nesiotes, è il gruppo dei cosiddetti “tirannicidi” Armodio e Aristogitone, che ad Atene avevano ucciso Ipparco, figlio di Pisistrato. A questo poi se ne accompagnarono altre centinaia nei santuari panellenici in onore degli dei, degli eroi o degli atleti vincitori delle gare olimpiche. Alcune statue erano “colossi” nel senso che noi oggi attribuiamo al termine. Pensiamo all’Athena Parthenos del Partenone, alta 12 metri, e allo Zeus di Fidia a Olimpia, anch’esso di dimensioni colossali (12-13 metri seduto), di cui già si è detto. C’era anche uno Zeus di bronzo a Taranto, “nella sterminata agorà dei Tarentini” come diceva Strabone (V, 278), opera di Lisippo, alto 17 metri, in atto di scagliare la folgore (Plinio, XXXIV, 37), costruito su una base basculante in modo che non offrisse resistenza al vento. Sappiamo che lo scultore aveva penato non poco per ancorarlo al suolo e per ripararlo dalle raffiche della tramontana, essendo il luogo molto ventoso e quindi tale da costituire un pericolo per il gigante di bronzo che rappresentava una vela non da poco con il suo corpo. L’artista 60 aveva di sicuro preso le sue precauzioni se era vero che la statua “non poteva essere abbattuta da alcuna tempesta” (Plinio, XXXIV, 40). Plinio aggiunge che Lisippo aveva fatto erigere un pilastro non distante dalla statua per rompere l’impeto del vento che soffiava da quella direzione. Un altro colosso proveniente da Taranto era un Ercole sull’acropoli, sempre di Lisippo, alto 6 metri, con una muscolatura trionfale ma rappresentato in posizione seduta, come di chi riposa dopo aver compiuto imprese straordinarie. Un atteggiamento in cui traspariva il pathos tipico delle creazioni lisippee. Trasportato a Roma dopo le guerre tarentine fu collocato in Campidoglio, donde però lo rimosse Costantino facendolo trasferire a Costantinopoli, la nuova Roma. Pare tuttavia che la statua fosse divenuta oggetto di culto da parte dei cittadini creando imbarazzo all’imperatore che perciò l’avrebbe fatta collocare nell’ippodromo. Sopravvisse a lungo tanto da essere distrutta in occasione dell’occupazione crociata di Bisanzio nel 1204: venne fusa per coniare monete con cui pagare le truppe. Niceta Coniata nella sua storia commenta così l’evento: “Questi barbari (cioè i Franchi, ossia i crociati) hanno distrutto l’opera del divino Lisippo per farne spiccioli”. Con l’avvento dell’Impero Romano e del culto del genio dell’imperatore o dell’imperatore divinizzato, si realizzarono altri colossi di straordinarie dimensioni di cui si conservano, ai Musei Capitolini, parti (teste, piedi, mani) sia in bronzo che in marmo. Il più famoso di tutti fu il colosso di Nerone che si trovava nel vestibolo della Domus Aurea e che rappresentava l’imperatore con una corona raggiata. Era di bronzo dorato ed era alto fra i 33,5 e i 36,6 metri. Fu costruito dallo scultore Zenodoro che forse si ispirò al Colosso di Rodi cercando, si può pensare, di eguagliarne l’altezza o di superarla addirittura. La corona raggiata si suppone comune ad ambedue 6 e quindi significativa. Zenodoro era stato chiamato a Roma perché aveva già realizzato un colosso per gli Arverni (Plinio, NH, XXXIV, 47). Questa statua, che rappresentava Mercurio, cioè Lùg, il dio supremo presso i Celti, aveva richiesto dieci anni di lavoro ed era costata quaranta milioni di sesterzi. Del gigante neroniano resta solo il basamento in blocchi di tufo nei 61 pressi dell’Anfiteatro Flavio che appunto prese da lui il soprannome di Colosseo. Plinio afferma di essere entrato nell’atelier dello scultore e ci fornisce informazioni preziose: la grande somiglianza del colosso con il suo modello di argilla e la presenza di “bastoncini” che servirono nella prima fase del lavoro. L’autore evidenzia quindi la grande cura che l’artista metteva nella realizzazione del modello che in questo caso possiamo immaginare come una terracotta in grandezza naturale, quindi in proporzione di circa 1/26 con l’opera finita. Inoltre l’uso dei “bastoncini” potrebbe riferirsi alle cannule e quindi alla tecnica della cera persa che era in uso da secoli. Quando Adriano volle spostarlo si dice che lo abbia fatto trainare da ventiquattro elefanti (Vita Hadriani, Hist. Aug.,19). La grande massa di metallo di cui era fatto ne decretò probabilmente la fine. La cosa più probabile è che sia stato ridotto a pezzi per essere riciclato in altri usi. Ma perché allora il Colosso di Rodi fu annoverato fra le Sette Meraviglie? Probabilmente perché prima di esso nessuna statua aveva mai raggiunto quelle dimensioni, nemmeno nell’Antico Egitto dove peraltro si contano diversi colossi, sia a Karnak che ad Abu Simbel. Il solo colosso di Ramses II nel suo tempio funerario di Karnak, oggi spezzato e privo di volto, era alto in origine 17 metri e pesava mille tonnellate. Di un metro più alti, considerato anche il basamento, erano i colossi di Memnone, che in realtà erano immagini di Amenothep III e ricevettero il loro nome attuale dai Greci di età tolemaica che li identificarono con l’eroe etiope figlio dell’Aurora accorso con il suo esercito in aiuto di Priamo. 7 Le statue più a meridione sono quelle di Abu Simbel che rappresentano Ramses II, scolpite nella viva roccia, alte 20 metri ciascuna. La “meraviglia” di Carete dovette la sua fama anche a una serie di altri elementi circostanziali. Il fatto, per esempio, che fosse stato costruito vendendo (o riutilizzando?) i pezzi di Helepolis, una formidabile torre d’assalto fatta costruire da Demetrio Poliorcete; 8 il fatto che crollò dopo soli sessantasei anni dalla sua erezione; il fatto che, secondo una tradizione, Carete, dopo averlo terminato, si sarebbe suicidato per essersi accorto di aver compiuto un errore insanabile: un aneddoto questo che ha tutta l’aria di essere stato concepito post eventum (cioè dopo il terremoto che fece cadere il 62 Colosso). E inoltre il fatto che, quando i Rodii pensarono di ricostruirlo, un oracolo di Delfi li avesse ammoniti di non farlo. Ma quale fu la ragione che indusse i Rodii a innalzare un simile prodigio? Quanto era accaduto nella guerra fra Antigono Monoftalmo e la loro città. Rodi era riuscita a tenersi fuori dalle guerre dei Diadochi e degli Epigoni, i successori di Alessandro, essendo uno stato indipendente nato da un sinecismo fra le tre città stato di Lindo, Camiro e Ialiso, ma non aveva potuto evitare l’ingiunzione di Antigono Monoftalmo di rinunciare ai suoi rapporti con l’Egitto di Tolemeo I. Antigono, infatti, nutriva il sogno di mantenere l’impero di Alessandro unito sotto il suo controllo, e Tolemeo rappresentava il suo più grande e potente oppositore. Rodi non voleva prendere posizione contro Antigono, ma solo conservare i lucrosi rapporti commerciali con l’Egitto, e rifiutò. Antigono, nel 304 a.C., inviò quarantamila uomini con una flotta di duecento navi da battaglia e centosessanta da carico al comando di suo figlio Demetrio Poliorcete (“espugnatore di città”). Demetrio cinse d’assedio la capitale con macchine e artiglierie di ultima generazione fra cui la possente Helepolis (“distruttrice di città”), alta 40 metri, come un palazzo di tredici piani, e irta di arieti e catapulte che potevano letteralmente bombardare dall’alto Rodi. Quella macchina era l’erede dell’ingegneria militare sviluppata da Alessandro e dai suoi tecnici, e gli consentì imprese ritenute impossibili come la presa di Tiro. 9 Ma Rodi resistette caparbiamente senza cedere né venire a patti e alla fine Demetrio si rassegnò a levare l’assedio e a ritirarsi abbandonando le sue attrezzature. A quel punto i Rodii vendettero i materiali, specialmente i metalli, e con i proventi decisero di innalzare una statua votiva al dio Sole più grande di qualunque altra esistente al mondo. Secondo la leggenda, l’isola stava dapprima nascosta sul fondo del mare e fu il Sole a scoprirla. Chiese così agli dei che quando l’avesse fatta emergere gli fosse concessa in custodia. Il dio Sole dunque non era soltanto il protettore di Rodi, ma colui che l’aveva suscitata dal mare. Ovviamente l’erezione del Colosso non fu soltanto un atto di gratitudine votiva verso il dio protettore della città e dell’isola, ma 63 anche un grande gesto propagandistico. Il messaggio era che nessuno poteva permettersi di dare ordini a Rodi, che la città aveva risorse economiche, umane e tecnologiche tali da frustrare qualunque tentativo di imporle comportamenti contrari ai suoi interessi e alla sua volontà. Una dimostrazione di orgoglio simile a quella degli americani quando hanno costruito la Liberty Tower dopo che le torri gemelle del World Trade Center erano state abbattute dall’attentato terroristico più audace di tutti i tempi. L’incarico fu affidato a Carete di Lindo, uno scultore di cui sappiamo abbastanza poco se non che costruì il Colosso e che era allievo di Lisippo. È ancora Plinio però a fornirci elementi per pensare che fosse un grande artista: “C’erano in Campidoglio due teste (colossali?) dedicate dal console Publio Lentulo, di cui una opera di Carete. L’altro scultore l’aveva fatta … di tanto inferiore, se la confrontiamo con quella di Carete, da farlo sembrare il più mediocre degli artisti”. Questo passo è di solito interpretato 10 nel senso che il secondo scultore, ignoto per la lacuna nel testo, doveva essere di infimo livello. Carete ovviamente sapeva con esattezza dove il Colosso sarebbe sorto, sapeva cosa doveva rappresentare, e con tutta probabilità il committente, cioè la città, dovette stabilirne anche le dimensioni. Visto però che la statua era di un’altezza quasi doppia dello Zeus di Lisippo nell’agorà di Taranto, non possiamo escludere che sia stato lui stesso a consigliare quelle misure, con l’ambizione di raddoppiare le dimensioni della massima realizzazione del suo maestro. Le descrizioni di Plinio, Strabone e Filone di Bisanzio sono molto dettagliate, ma non tanto da farci capire dov’era e come era fatto. A questo proposito molti sono condizionati dal fatto che nelle antiche incisioni del Rinascimento e del XVII secolo il Colosso è rappresentato nudo con una spada in mano e con le gambe divaricate sopra l’imbocco del porto mentre le navi passano a vele spiegate. Questa stessa immagine, con qualche variante, era adottata da Sergio Leone nel suo primo film Il Colosso di Rodi, del 1961: un pastone senza capo né coda dove l’enorme statua era stata ricostruita con effetti speciali a cavallo dell’imboccatura di un porto in atto di reggere fra le mani un braciere che serviva da faro per la notte, ma che in caso di bisogno 64 poteva diventare una cascata di fuoco per bloccare l’ingresso a navi nemiche. Quella postura non avrebbe potuto reggere per lo sbilanciamento in avanti e nemmeno probabilmente per la divaricazione delle gambe. Statue a gambe divaricate ne esistono: per esempio, lo Zeus (o meno verosimilmente il Poseidon) dell’Artemision, un bronzo spettacolare di stile severo esposto al Museo Archeologico Nazionale di Atene, è esattamente a gambe divaricate con le braccia aperte in asse con il torso e in atto di scagliare una folgore (o il tridente), il piede sinistro appoggiato completamente e in asse con il corpo, il destro che tocca solo con il metatarso perché il tallone è sollevato da terra. I punti di appoggio hanno un aspetto estremamente naturale, ma in realtà sia l’uno che l’altro piede portano incorporati due “tenoni”, ossia due perni che si incastravano in due fosse scavate nella pietra o nel marmo della base. Il peso della statua poi è limitato, la leva di impatto contenuto e il bilanciamento perfetto. Ma se aumentassimo le proporzioni della statua, che misura 2,09 metri, di circa quindici volte, il peso del tronco, delle braccia e della testa sarebbe tale da spezzarla in due a livello del cinto pelvico, a meno di non adottare strutture di contenimento all’interno di essa, come tiranti e barre. Per non parlare delle braccia aperte, una all’indietro che lanciava il fulmine/tridente, l’altra in avanti a bilanciare: in proporzioni gigantesche queste avrebbero avuto uno sbalzo eccessivo, tale da esercitare una tensione difficilmente sostenibile a livello delle spalle. In teoria la postura a gambe divaricate del Colosso avrebbe potuto reggere, ma avrebbe richiesto un’armatura a Y rovesciato che a sua volta avrebbe richiesto una base quadrata che collegasse le travi, e in ogni caso la distanza di 400 metri fra un molo e l’altro avrebbe reso una tale costruzione impossibile. La scelta di Carete di riempire di pietre 11 le gambe del Colosso mostra che nemmeno dandogli una impostazione compatta e verticale si sentiva tranquillo sulla statica della costruzione. È quindi più probabile che Carete abbia progettato la sua statua in postura verticale e lineare con pochi o nulli elementi fuori sagoma o a sbalzo, come era l’Athena di Fidia nel Partenone, sostanzialmente inscrivibile in un cilindro. Ciò non significa che dobbiamo immaginare una statua di aspetto egittizzante o di tipo arcaico come i kouroi. 12 65 Doveva invece avere una resa importante dell’anatomia e una forte espressività del volto, non certo facile da realizzare in proporzioni così esagerate. C’è chi ha pensato che il Colosso tenesse un braccio alzato (il destro?) sopra la testa a reggere una fiaccola che fungesse da faro per i naviganti, ma non abbiamo un solo elemento che sostenga questa ipotesi. La scultura in pietra che H. Maryon riproduce nel suo articolo 13 rappresenta un bassorilievo da Rodi che raffigura un torso maschile chiomato e con il braccio destro ripiegato sul capo come a reggere qualcosa. Lo studioso definisce quest’opera una riproduzione del Colosso. Se questo fosse vero si potrebbe avvalorare la tradizionale idea che il Colosso avesse anche la funzione di faro, ma è una ipotesi difficile da accettare. Higgins 14 invece interpreta il bassorilievo di Maryon come la raffigurazione di un atleta che si posa sul capo la corona della vittoria e non si può dargli torto: l’atleta di Fano (ex atleta Getty), un bronzo ellenistico stilisticamente lisippeo e quindi della stessa epoca, compie lo stesso identico gesto. Le altre tipologie in nostro possesso rappresentano l’atleta con ambedue le braccia alzate per allacciarsi il diadema, ossia il nastro attorno al capo. Molti ritengono che la Statua della Libertà a New York, che è più alta di sette-otto metri della statua di Carete, sarebbe stata ispirata da una supposta immagine a braccio alzato (ipotesi peraltro non dimostrabile) e anche la collocazione all’ingresso del porto sarebbe stata ispirata da quella del Colosso. Ora immaginiamo di fare una replica marmorea di una statua di bronzo. Poiché il bronzo è elastico lo scultore può permettersi una postura del soggetto anche molto dinamica. Pensiamo al discobolo di Mirone, per esempio, che ha il corpo in torsione a livello delle anche, le braccia ad arco e la testa piegata verso il basso e all’indietro. Gli unici punti di appoggio sono le dita dei piedi. Dell’originale non è rimasto nulla, ma di copie marmoree ne abbiamo diverse, e tutte, dalla prima all’ultima, hanno un puntello, di solito in forma di tronchetto d’albero, a livello dell’innesto della coscia con l’anca. In caso contrario si sarebbero tutte spezzate all’altezza delle ginocchia. Tornando adesso al nostro Colosso, su una cosa le fonti principali sono d’accordo: sul fatto che Carete, per stabilizzarlo, gli abbia 66 riempito le gambe di grosse pietre. Pensava evidentemente al pericolo rappresentato dal vento, e forse anche dai terremoti che nell’Egeo sono sempre stati frequenti. Forse non pensò, però, che le pietre avrebbero comunque comportato una rigidezza delle parti zavorrate, e quindi una linea di frattura rispetto al resto del corpo proprio là dove il riempimento cessava. Filone di Alessandria descrive con notevole precisione il cantiere dell’enorme statua: se ne può immaginare una specie di palancolato di travi e tavole di legno, forse smontato da Helepolis, che veniva riempito di terra fino al punto in cui la statua era arrivata. In tal modo il lavoro era decisamente più comodo di quanto sarebbe stato con una semplice impalcatura di tavole e antenne. In ogni caso Carete dovette montare un traliccio di ferro che fungesse da armatura come Maryon ha accuratamente ricostruito nel suo disegno. 15 Ma come era costruita la figura? Si sagomavano a martellate lamine di bronzo o si colavano in forme le pareti della statua, sezione per sezione, facendo salire nel contempo il terrapieno? Conviene qui seguire la testimonianza di Filone, che in questo caso è abbastanza precisa. Ovviamente, le scelte di interpretazione che noi facciamo possono essere messe in discussione, come peraltro quelle che già sono disponibili, ma abbiamo cercato di interpretare il testo greco aiutandoci anche con la logica del contesto che, fortunatamente, abbiamo abbastanza chiaro per quanto concerne la tecnica usata per realizzare il Colosso. Prima di iniziare la descrizione della costruzione, l’autore fa presente che è maggiore il lavoro che l’opera cela entro di sé di quello che appare esteriormente. L’enorme quantità di ferro impiegato – 300 talenti, pari a circa 12 tonnellate – testimonia il gran numero di travature, di rinforzi, di grappe e di catene messi in opera per armare il Colosso contro il vento, le tempeste e il terremoto. “L’artista creò prima una base in marmo bianco” (che possiamo supporre molto robusta e adeguata al peso che avrebbe dovuto sostenere), “quindi vi fissò con misure esattissime i piedi del colosso fino ai calcagni calibrati tenendo conto del fatto che vi si sarebbe appoggiato un dio alto settanta cubiti” (circa 33 metri e mezzo a seconda di come si calcoli la lunghezza del cubito). “Le sole piante dei 67 piedi infatti superavano già per le dimensioni le altre statue. Il che significa che lo spessore dei piedi era di circa 2 metri.” Filone specifica poi con chiarezza che non sarebbe stato possibile sovrapporre altre parti costruite altrove, ma che “era necessario sovrapporre direttamente le caviglie e i malleoli sicché l’intera opera crescesse su se stessa come quando si costruisce un edificio”. La tecnica quindi differisce sostanzialmente da quella dei bronzisti che prima – fa notare ancora Filone – fondono la parte centrale del corpo, poi separatamente le altre membra, e da ultimo assemblano la statua intera. “Qui invece, completata la prima fusione, vi si aggiungeva subito la seconda; sopra si aggiungeva la terza e quindi quella successiva. Non si potevano infatti staccare le membra metalliche. 16 Terminata la fusione, sulle parti già realizzate non (si potevano) vedere linee di divisione, né attacchi né i giunti (delle graffe) e il contrappeso di quelle pietre che si mettevano e che stabilizzavano l’opera sì che non avesse la minima oscillazione. L’artista versava poi tutto attorno alle membra del Colosso, che dovevano ancora essere completate, un’enorme quantità di terra nascondendo ciò che aveva già costruito sottoterra e costruiva sulla (fusione) già finita la successiva.” Dunque si procedeva con un terrapieno anziché con un ponteggio come faremmo noi, anche perché i blocchi in pietra erano più facili da trascinare su per una rampa, e anche la terra, che forse era sostenuta da una sorta di palancolato di tavole probabilmente smontate da Helepolis. Maryion ha ipotizzato 17 che le varie parti venissero fuse separatamente e martellate e sagomate sul posto, ma non v’è dubbio che la tecnica descritta da Filone nel brano che abbiamo riportato sia la più probabile e non vale opporre la considerazione che il bronzo fuso non lega con il bronzo freddo. Piegare a martellate lamiere di bronzo dello spessore di qualche centimetro è opera molto impegnativa e molto difficile, anche perché realizzando delle parti relativamente piccole e quindi più gestibili si sarebbe però creato una specie di mosaico a grandi quadrettature esteticamente inaccettabile, e si sarebbero moltiplicati a dismisura i problemi di adattamento di una parte con l’altra su ben quattro lati. Inoltre è illuminante la testimonianza di Plinio (NH, XXIV, 43) che 68 ci parla di un altro colosso: un Giove fuso con il bronzo delle armi tolte dal console Carvilio ai Sanniti e collocato in Campidoglio, talmente grande che si poteva vedere dal santuario di Giove Laziale sul Monte Cavo. Plinio narra che il console Carvilio avesse fatto eseguire una statua che lo ritraeva e che fu collocata ai piedi del Giove, realizzata con le limature di rifinitura del colosso. Siamo nel III secolo a.C. quindi non molto lontani dall’esecuzione del Colosso di Rodi e l’artista incaricato dell’opera sarà stato senz’altro un greco. L’enorme quantità di limatura che consentì di fondere un’altra statua in grandezza naturale parla di un intenso e massiccio lavoro di finitura sulla statua principale. E questo si spiega con la presenza di molte sbavature dovute probabilmente all’esecuzione di una colata sovrapposta all’altra e ovviamente legata dall’interno con grappe e rinforzi di vario genere. Interpretando il brano di Filone pare di capire che nel colosso di Carete i ganci e le connessioni fra una fusione e l’altra fossero applicati dall’interno e quindi risultassero invisibili da fuori. Le linee di sutura fra una fusione e l’altra venivano poi probabilmente rifinite a lima. Per questo il console Carvilio, dopo la limatura del colosso di Giove sul Campidoglio, poté usufruire di una tale quantità di bronzo di risulta dalla finitura, che fu sufficiente per far fondere la propria statua. Filone conclude così la sua storia del Colosso di Rodi: “Alla fine, (l’artefice) giunto un po’ per volta alla conclusione della sua opera, come aveva sperato, e avendo utilizzato cinquecento talenti di bronzo e trecento di ferro, costruì un dio simile in tutto a un dio: realizzando un’opera immane con grande audacia, pose di fronte all’universo un secondo Sole”. Si avverte, nelle espressioni quasi ispirate di Filone, una infinita ammirazione per l’artefice di un simile capolavoro, ma non c’è una parola su quello che fu il triste epilogo di quell’impresa, quasi non gli bastasse l’animo di descrivere la catastrofe di un’opera forse più audace nella concezione della stessa Grande Piramide. Il fatto che non abbiamo nemmeno un’immagine del Colosso è stupefacente. Quasi sempre gli stati greci rappresentavano sulle monete i simboli che li rendevano immediatamente riconoscibili perché la moneta era un formidabile veicolo di visibilità – diremmo oggi –, dal momento che finiva nelle mani di tutti. Vero è che una 69 moneta di Rodi forse rappresenta il volto dell’Helios di Carete, 18 o, secondo altri, l’Helios sulla quadriga solare, anch’esso fuso da Lisippo per i Rodii con quei grandi occhi spalancati che gli conferivano uno sguardo quasi scintillante. Ma quand’anche fosse così, manca sempre la rappresentazione delle dimensioni iperboliche della statua. Com’è possibile che non sia mai stato rappresentato il Colosso, onore e vanto di Rodi? A meno di augurabili nuove scoperte numismatiche per il momento dobbiamo limitarci a congetture. Numerose sono le ipotesi sulla collocazione del Colosso. Una delle più accreditate lo vedeva sorgere su uno dei porti della città, dove oggi è il forte di San Nicola, quindi vicino al mare ed esposto a venti anche molto forti nel corso dell’inverno e durante le perturbazioni che spesso si abbattono sull’Egeo. C’è però chi ritiene 19 che si trovasse nel sito della chiesa dei cavalieri di San Giovanni al Colosso. In ogni caso il gigante avrebbe avuto un problema di statica. Come poteva reggersi una statua che poggiava su una superficie minima – quella dei piedi, pari al massimo a 5 o 6 metri quadri – in proporzione a un corpo alto 33 metri e mezzo? Quel corpo smisurato avrebbe esercitato sulla base una leva enormemente vantaggiosa in caso di qualunque tipo di sollecitazione trasversale. In altri termini, se la parte inferiore del corpo poteva sopportare una compressione molto elevata, il corpo intero non avrebbe retto né alla torsione né ad alcun tipo di sollecitazione trasversale. Al problema statico Carete ritenne di ovviare zavorrando le gambe della statua con pietre, per darle stabilità. Decisione in teoria sensata ma in pratica non è detto che non sia risultata più dannosa che utile. È infatti altamente probabile che la zavorra di massi squadrati non arrivasse fino alle quote più alte della statua, ma si fermasse alle gambe: per il resto avrebbe dovuto bastare l’armatura in travi di ferro. In questo modo il Colosso veniva a perdere la sua elasticità proprio nel punto critico delle ginocchia e fu proprio lì che si spezzò sotto l’urto del terremoto (Strabone, XIV, 2, 5). L’impresa immane durò dodici anni, un tempo lungo che dimostra la grande complessità del lavoro intrapreso, ma che supera comunque di soli due anni quello impiegato da Zenodoro per costruire il Mercurio degli Arverni. Come si è visto, il cantiere era concepito in modo da creare, con un tamponamento che si alzava continuamente, 70 una superficie di lavoro piana e facilmente praticabile. Alla fine l’enorme terrapieno venne rimosso partendo dalla cima e a mano a mano il gigante si erse solitario e splendente in tutta la sua maestà, la possente muscolatura in piena luce al cospetto, possiamo immaginare, di migliaia e migliaia di persone in delirio. In quel momento il discepolo del grande Lisippo, l’artista temerario che aveva osato duplicare le proporzioni dell’opera del suo maestro a Taranto, dovette sentirsi simile a un dio, più potente di un re, lui che aveva dato corpo a un sogno che chiunque avrebbe pensato irrealizzabile. Lo firmò, alla base, con due versi: “Sette volte dieci cubiti di altezza / opera di Carete di Lindo”. Per sua fortuna non visse abbastanza da vederlo crollare. Nel 227 a.C. il Colosso fu abbattuto da un terremoto devastante. Ma anche così, crollato e a pezzi, era oggetto di stupore per i visitatori. Racconta Plinio (XXXIV, 41) che pochi uomini avevano braccia abbastanza lunghe per abbracciarne un solo pollice e che le sue dita misuravano come una statua di dimensioni normali. Le membra spezzate mostravano vaste cavità interne e massi che l’artefice aveva utilizzato per stabilizzare il Colosso. Strabone riferisce che non fu ricostruito dai Rodii, benché il re Tolemeo di Egitto si fosse offerto di finanziare il restauro, perché un oracolo di Delfi li aveva dissuasi dal farlo. Così il corpo spezzato del gigante giacque per secoli destando stupore e meraviglia in chiunque lo guardasse. Costantino Porfirogenito (Amministrazione dell’Impero, 20) ci informa che nel 653 d.C. un generale di Othman, di nome Mavia, occupò Rodi, demolì (probabilmente nel senso di fece a pezzi) il Colosso e lo vendette a un mercante ebreo di Edessa (oggi Urfa, in Turchia) che con il bronzo di cui era fatto caricò novecento cammelli. Erano passati quasi mille anni da quando Carete lo aveva eretto. Di quell’opera straordinaria non è mai stato trovato un solo frammento. 71 Il Mausoleo di Alicarnasso Tre secoli dopo la sua costruzione, il Mausoleo di Alicarnasso, il gigantesco sepolcro di Mausolo, dinasta di Caria in Asia Minore, era già diventato un simbolo e il suo nome sinonimo di “tomba monumentale” com’è tuttora. Nel I secolo d.C., all’epoca di Nerone, Lucano, giovane poeta di grande talento e nipote del filosofo Seneca, aveva composto la Pharsalia, una sorta di poema epico sulle guerre civili. In questo poema egli descriveva anche la guerra alessandrina in cui Cesare, partito con troppa precipitazione e con poche forze all’inseguimento di Pompeo sconfitto a Farsalo, si era alla fine trovato assediato all’interno del palazzo Lochias, la reggia dei Tolemei. Lucano con poche parole, ci permette di configurare sia la tomba di Alessandro, che doveva essere nei pressi della necropoli reale, sia quelle dei Tolemei, la dinastia regnante che aveva ormai i giorni contati. La prima risulta essere una tomba a camera sotterranea sormontata da un grande tumulo, le altre invece sono connotate come piramides e mausolea. 1 Queste due parole indicano due tipologie di tombe monumentali molto significative, in quanto fanno anche parte del catalogo delle Sette Meraviglie. Le prime sono di carattere egiziano e si rifanno in forma molto ridotta agli antichissimi e giganteschi sepolcri dei faraoni della IV dinastia. Le seconde sono invece di architettura greca o greco-asiatica e ispirate dalla tomba monumentale di Mausolo, signore di Alicarnasso e satrapo di Caria per conto del Gran Re Artaserse II. Queste tipologie sono spiegabili con il fatto che i Tolemei erano macedoni ma regnavano in qualità di faraoni d’Egitto, e come tali si presentavano all’interno del paese. A livello internazionale invece, apparivano come sovrani di cultura ellenica e sulle monete si facevano rappresentare di profilo e con il capo cinto da un nastro (il diadema) alla maniera dei Greci. Anche le loro necropoli, dunque, dovevano richiamare sia la cultura indigena che quella di origine. 72 Questo significa che sia le piramidi che il Mausoleo, già canonizzati fra le Sette Meraviglie del mondo, avevano influenzato profondamente l’architettura funeraria ad Alessandria. Ma che cos’era il Mausoleo, e per quale motivo era divenuto così famoso e importante nella storia dell’arte e dell’architettura antiche? Per rispondere a questa domanda non solo è necessario risalire al personaggio che vi si era fatto seppellire, ma rifarsi altresì alla cultura della città di Alicarnasso che era un insediamento greco-dorico in territorio indigeno. In quella città era nato Erodoto, il grande storiografo ed etnografo che aveva preceduto Tucidide nella impostazione della storiografia evoluta. Egli era figlio di padre greco e di madre asiatica e per questo la sua interpretazione dell’origine delle guerre persiane era stata in qualche modo equilibrata. Aveva addirittura individuato come prima causa del conflitto (arké kakòn) l’intervento ateniese in aiuto delle colonie ioniche in rivolta contro i Persiani nel 498 a.C. e l’incendio del tempio della Gran Madre degli dei a Sardi. Alicarnasso dunque era una città-stato come altre della costa egea orientale, sorta su un’isoletta prospiciente una baia, di fondazione greca ma di sudditanza persiana. I Persiani, però, riconoscendo la straordinaria peculiarità civile, linguistica, scientifica e letteraria delle città-stato greche dell’Oriente, preferivano governarle con dinasti locali o tramite i cosiddetti tiranni, che erano quasi sempre di etnia e cultura greche come Istieo e Aristagora di Mileto. Era per loro infatti molto più semplice trattare con una persona sola che con una comunità rappresentata da un’assemblea e da un governo cittadino. Le imposte erano contenute e in cambio l’impero garantiva a queste comunità una certa autonomia, il ruolo di terminali del traffico commerciale verso occidente, una rete stradale e un’amministrazione dell’entroterra severa ma efficiente. Quando fu innalzato il Mausoleo, l’Impero Persiano era notevolmente indebolito, tanto che settant’anni prima una spedizione di mercenari greci (i famosi Diecimila di Senofonte) era arrivata, al seguito di Ciro il giovane, un principe ribelle, fin quasi a Babilonia. Una volta che questi era morto, i mercenari erano poi tornati indietro attraverso la Mesopotamia, l’Armenia, la Colchide, il Ponto e la Bitinia fino a Bisanzio senza che i persiani dell’imperatore Artaserse 73 riuscissero a impedirlo. E pochi anni dopo Dario III, l’ultimo dei Gran Re, sarebbe stato sconfitto e privato del regno da Alessandro Magno. Sappiamo esattamente dove si trovava il Mausoleo sulla base degli scavi inglesi della metà dell’Ottocento. Era a destra del teatro e prospiciente la baia. Una simile posizione ha un significato importante che si collega con la tradizione greca, nonostante Mausolo fosse di etnia caria e non avesse nessun legame di discendenza con i fondatori della città. In particolare, si collegava alla tradizione delle colonie greche dell’VIII-VI secolo a.C., dove, al centro della città, sorgeva il monumento funerario dell’ecista, cioè del fondatore che era nominato dall’oracolo delfico e quindi aveva un carisma particolare, una sorta di sacralità. Non si conoscono altri esempi oltre a quello degli ecisti coloniarii. Famoso in particolare era il fondatore di Cirene, Batto, che fu anche il capostipite di una dinastia, i Battiadi, che regnò a lungo sulla città. Un esempio di età posteriore a quella del Mausoleo potrebbe essere quello della tomba di Alessandro, che fu sepolto dapprima a Menfi, in via provvisoria, 2 e in seguito ad Alessandria, in un luogo che è ancora oggetto di animato dibattito. L’interpretazione di certe fonti 3 farebbe pensare al centro della città, nei pressi della moschea di Nabi Daniel o del tumulo di Kom ed Din, 4 all’incrocio delle due vie principali, ma altri importanti indizi riporterebbero il sepolcro del conquistatore macedone nella necropoli reale presso il palazzo Lochias, residenza dei sovrani Tolemei. In ogni caso, come si è detto prima, si trattava di una tomba di rito macedone con una camera sepolcrale sormontata da un tumulo di terra e forse anche da un segnacolo sulla sommità, molto simile, probabilmente, a quella del padre Filippo II scoperta da Manolis Andronikos nel 1977. Nulla a che vedere con il sontuoso e gigantesco sepolcro di Alicarnasso che, invece, stando a Lucano che già abbiamo citato, avrebbe funto da modello per alcune delle tombe dei Tolemei ma non per quella di Alessandro. L’accenno di Lucano comunque è molto importante perché significa che dal IV secolo in poi il sepolcro di Alicarnasso era divenuto il modello per eccellenza delle tombe monumentali soprattutto in Oriente. In Italia, i sepolcri imperiali come quello di 74 Augusto e quello di Adriano sono più vicini a quelli macedoni (ma secondo altri a quelli etruschi), con un tamburo di pietra alla base sormontato da un tumulo su cui spiccava un monumento in bronzo dorato, di solito una quadriga in atto di portare in cielo il genio dell’imperatore divinizzato. Questo particolare specifico era riscontrabile anche nel Mausoleo che aveva sulla sommità una quadriga gigantesca con l’immagine del sovrano. Ma perché a un dinasta locale sarebbe stato innalzato un monumento così imponente e spettacolare da essere considerato uno dei sette più belli e mirabili del mondo conosciuto? 5 In primo luogo va considerato che Mausolo non era propriamente un dinasta locale: approfittando della notevole debolezza dell’impero persiano sotto Artaserse II Noto, partendo dalla sua antica capitale Mylasa, riuscì a espandere notevolmente i suoi territori occupando tutta la Caria, parte della Licia e della Lidia, Rodi, Coo e Chio, Mileto e Alicarnasso e, secondo alcuni, anche Efeso. Artaserse II era riuscito sconfiggere il fratello Ciro il giovane a Cunassa nel 401 a.C., nonostante il valore leggendario dei suoi diecimila mercenari greci, ma fu in gravi difficoltà in Egitto, sul Caspio, e anche a Cipro dove il tiranno Evagora alla fine indusse il suo esercito a ritirarsi. È quindi molto probabile che in questa situazione Mausolo sia riuscito a ritagliarsi una quasi completa indipendenza, riservando alla sovranità del Gran Re un riconoscimento poco più che formale. Se l’attribuzione della magnifica e colossale statua che secondo la maggior parte degli studiosi lo ritrae è giusta, doveva anche essere un uomo bellissimo e molto carismatico. Fu lui a decidere di lasciare Mylasa, l’antica capitale della Caria, per trasferirsi ad Alicarnasso. La città aveva una popolazione mista, un magnifico porto commerciale e una tradizione culturale, tecnica e mercantile di prim’ordine. Mausolo sposò la sorella Artemisia, che dopo la sua morte gli dedicò il sontuoso e monumentale sepolcro che stupì i visitatori per secoli. Sposare la propria sorella era una pratica diffusa nell’antico Oriente e comune nell’Egitto faraonico e anche tolemaico. Artemisia sopravvisse al marito di soli due anni e per questo c’è chi pensa che il Mausoleo sia stato costruito in questo lasso di tempo. Ma 75 è difficile crederlo data l’enormità dell’impresa, il numero e le dimensioni delle colonne e la ricchezza delle sculture che di certo saranno state ultimate nel volgere di qualche anno ancora. Si suppone quindi che l’edificio sia stato iniziato quando Mausolo era ancora vivo. Fu certamente lui a scegliere lo spiazzo a destra del teatro, nell’incavo di una collina e in posizione dominante. A differenza dell’Artemision, il Mausoleo fu sì eretto in una posizione prospiciente il porto ma su un fondo piuttosto duro e compatto e fu probabilmente questo a preservarlo per parecchi secoli. La descrizione più completa del Mausoleo è quella di Plinio (NH, XXXVI, 30-31), che tramanda al lavoro sui quattro lati del monumento quattro fra i più grandi scultori della prima metà del IV secolo: Skopas che ebbe la parte più nobile, cioè il lato est, dove c’era l’ingresso, Leochares che ebbe il lato occidentale, Briaxis che ebbe il lato nord, e Timoteo a cui fu affidato quello meridionale. Sono gli artisti che segnano il passaggio dalla tarda classicità al primo ellenismo, artisti di valore straordinario, la cui perizia e il cui gusto possiamo solo in parte derivare dai frammenti emersi dagli scavi di Charles T. Newton nel 1862 e ora custoditi al British Museum. 6 In particolare, la scena di battaglia attribuita a Leochares 7 è emozionante per il movimento turbinoso delle figure, i panneggi gonfiati dal vento, le posture dei personaggi e le loro trionfali anatomie. Se sono vere le ipotesi di Buschor, 8 si potrebbe individuare una interruzione dei lavori dopo la morte di Artemisia per le turbolenze che sconvolsero la Caria e che portarono al potere Idrieo e Ada, sua sorella e sposa. Costei, rimasta in seguito sola per la morte del marito, fu detronizzata e si ritirò ad Alinda, una fortezza dell’interno, mentre l’armata di Alessandro si avvicinava e cingeva d’assedio la città che gli resistette a lungo e con grande determinazione. I coniugi Romer immaginano che egli scorgesse ogni mattina la sommità del Mausoleo che dominava il panorama, 9 ma è probabile che avesse tutt’altri pensieri per la testa. Dalla sua fortezza, Ada chiese ad Alessandro, dopo che ebbe conquistato Alicarnasso, di poterlo adottare come figlio, e questi non solo accettò (pur rifiutando i dolci che la madre adottiva gli mandava in continuazione con un esercito di cuochi), ma 76 la ricollocò sul trono, sicuro che gli sarebbe sempre rimasta fedele alleata. Dopo di che gli scultori si sarebbero rimessi al lavoro, e sarebbe stata scolpita la cosiddetta coppia di Mausolo e Artemisia del British Museum. Il presunto Mausolo attribuito a Briaxis 10 è un’opera colossale in cui l’artista ha profuso le sue capacità per ritrarre un volto magicamente esotico nella fronte spaziosa, nelle chiome leonine, nelle occhiaie enormi, nelle labbra quasi tumide e nell’anatomia massiccia e disarmonica che s’intravvede avvolta ma non del tutto nascosta dal pesante e sovrabbondante panneggio. Di gran lunga inferiore la perizia di chi ha scolpito la pretesa Artemisia, mutila del viso che comunque la figura tozza e goffa non fa presumere potesse essere più aggraziato. Newton, che le rinvenne, pensò subito che le due statue fossero quelle dei regnanti e che facessero parte della quadriga sommitale. C’è invece chi ritiene che si trovassero all’interno della camera funeraria. 11 L’identificazione stessa dei personaggi ritratti nelle due figure è comunque discussa da tempo e c’è chi pensa che si tratti semplicemente di due offerenti, ipotesi peraltro poco verosimile. Per ora comunque l’identificazione subito proposta da Newton, benché probabile, 12 non ha una prova definitiva. Quanto all’ipotesi di Buschor sull’interruzione dei lavori, va ricordato quello che afferma Plinio, cioè che i quattro scultori, alla morte di Artemisia, continuarono comunque il loro lavoro, consci che quell’opera avrebbe tramandato la fama della loro abilità e del loro talento (Plinio, NH, XXXVI, 31). L’architettura del monumento era firmata da Pitis e Satiro, i quali probabilmente avevano progettato l’intera città dando vita a una sorta di prototipo della città ellenistica con un gusto straordinario per le grandi scenografie. 13 Per il Mausoleo crearono una struttura composita e contaminata come la popolazione di Alicarnasso e di tutta la costa. L’elemento greco era presente nella peristasi di trentasei colonne, che però non sorgeva dal crepidoma, ma si trovava a mezz’aria, sospesa sopra un massiccio pilone in blocchi di granito (un paio dei quali fu rinvenuto da Newton), probabilmente rivestito in marmo, che poggiava su uno zoccolo di cinque gradoni, probabilmente anch’essi di marmo. 77 Il colonnato a sua volta sorreggeva una piramide di ventiquattro gradini che si concludeva alla sommità con una piattaforma su cui poggiava la quadriga di Mausolo. Questa, scolpita da un quinto artista – che era anche uno dei due architetti, Pitis –, di lassù si stagliava contro l’acropoli, dominava il resto della città ed era visibile da lontano. La collocazione del Mausoleo su una spianata 14 di 25.000 metri quadri lo rendeva ancora più imponente e godibile dai visitatori e dagli abitanti della città. L’inclinazione dei lati della piramide non è nota, benché Newton fosse riuscito a trovare alcuni dei gradini, fra cui uno d’angolo, che sono oggi conservati al British Museum. 15 Stranamente Vitruvio (II, 8, 11) concede pochissima attenzione, non più di due righe, al Mausoleo, che pure ricorda fra le Sette Meraviglie del mondo, mentre si dilunga di più a descrivere il palazzo del rex, che dice costruito in mattoni ma con le parti più importanti in marmo. 16 Ai marmi del Mausoleo allude invece Luciano di Samosata nei suoi Dialoghi, dove, facendo discutere il filosofo cinico Diogene con Mausolo di Caria (Dialoghi dei morti, 24), fa dire a quest’ultimo che il suo sepolcro è adorno di statue di marmo splendido (likou tou kallistou). Nel suo scavo, Newton ne trovò i blocchi, e altri ne vide inclusi nei muri del castello di San Pietro eretto dai cavalieri di Rodi. Evidentemente si trattava del rivestimento esterno di tutta la parte del monumento sottostante il portico ionico pensile. Di marmo dovevano essere fatte le colonne, le sculture e i fregi che adornavano la cella e i muri esterni. Si suppone che i grandi leoni a tutto tondo fossero collocati negli intercolumni, ma c’è chi ritiene che adornassero il cornicione, 17 fra la peristasi e la piramide, mentre negli intercolumni ci sarebbero state le statue dei personaggi più in vista della popolazione. Plinio comunque afferma che fu l’opera dei quattro grandi scultori a fare del Mausoleo una delle Sette Meraviglie del mondo (NH, XXXVI, 30). I cicli scultorei erano una amazzonomachia, una centauromachia e una corsa con i carri. Si trattava di tematiche consolidate che si ripetevano con grande frequenza sia su grandi monumenti, sia nella ceramografia, e con molta probabilità anche nelle pitture su tavola che sono andate completamente perdute. Sul significato di queste tematiche i critici e gli storici dell’arte hanno 78 molto dibattuto individuando nella centauromachia la lotta degli esseri umani per liberarsi della loro origine ferina mentre nella amazzonomachia si esprimerebbe e si esorcizzerebbe il timore istintivo che l’uomo ha della donna. 18 Alla base del Mausoleo, disassata verso nordest, c’era la camera funeraria tagliata nella roccia. Lì era alloggiato il feretro con il corredo che si suppone ricchissimo e che andò completamente perduto con la distruzione e il saccheggio del monumento. La sezione del Mausoleo era rettangolare con l’ingresso su uno dei lati corti, cioè quello orientale decorato da Skopas. Plinio dice che i quattro artisti erano in competizione fra di loro (aemuli) e che ancora al suo tempo si discuteva su chi potesse essere considerato il migliore. Le dimensioni del monumento erano imponenti: dallo zoccolo di base al piano del grande portico pensile era alto 22 metri. Sul piano poggiava il colonnato in stile ionico: undici colonne di lato e nove di fronte, che si innalzavano di circa 13 metri. A sua volta, questo colonnato era sormontato da una piramide di ventiquattro gradini alta 7 metri. Sulla piramide poggiava il podio che sosteneva la quadriga, opera di Pitis, con sopra la coppia dei sovrani. In tutto, il Mausoleo, dalla base alla sommità della quadriga, che aveva dimensioni doppie del normale, doveva misurare circa 49 metri. Il testo di Plinio, però, è troppo schematico e stringato, per cui in vari punti diventa di difficile comprensione. Per questo ha dato origine a varie interpretazioni che hanno prodotto schemi diversi di ricostruzione ideale per il monumento. 19 Da un certo punto di vista gli scavi di Newton del 1862 non hanno aiutato a definire le esatte dimensioni del perimetro, perché i metodi di scavo di allora consistevano nel recuperare i resti, poi riempire le parti scavate con i detriti e procedere così. 20 È stato lo scavo più recente di Kristian Jeppesen a riportare alla luce il perimetro del Mausoleo. 21 In ogni caso, i risultati degli scavi di Newton furono straordinari e in gran parte inattesi dal momento che le fonti rinascimentali (De la Tourrette, Guichard etc.) raccontavano con dovizia di particolari lo scempio di uno dei più bei monumenti dell’antichità. A quanto ci consta, il Mausoleo arrivò più o meno in condizioni di integrità fino al XIII secolo, forse perché non era un tempio pagano, o forse perché Mausolo non era un simbolo di quel mondo come lo era invece 79 Alessandro Magno. Quello che stupisce è come non fosse stato demolito prima per cercare i tesori che quasi certamente conteneva, sorte toccata alla maggior parte delle antiche sepolture. I gravi danni subiti dal monumento nel XIII secolo furono provocati da un terremoto e tuttavia quasi tutti i suoi elementi si erano conservati. Era probabilmente crollata la piramide con i leoni che scandivano tutta la lunghezza del suo perimetro di base, ed erano crollate le colonne della peristasi. Lo scempio e la catastrofe totale di quella meraviglia accaddero in seguito. G. Waywell cita una testimonianza di Claude Guichard risalente al 1582 che descrive un ipogeo rivestito di marmi preziosi, colonnato, con ricche raffigurazioni di battaglie, e una camera con un sarcofago di alabastro a doppio spiovente. I cavatori, data l’ora, si erano fermati, ma l’indomani avevano trovato il sarcofago aperto e il terreno sparso di brandelli di stoffa intessuta d’oro. 22 Diedero la colpa ai pirati che, udito del ritrovamento, erano tornati nottetempo a saccheggiare la camera sepolcrale. A proposito dei pezzi di stoffa intessuta con fili d’oro, Waywell non esita a ipotizzare che si trattasse della stoffa in cui erano avvolte le ossa e le ceneri del rogo di Mausolo, esattamente come la stoffa di porpora intessuta d’oro in cui Manolis Andronikos trovò avvolte nel 1977 le ossa di Filippo II di Macedonia nell’urna d’oro con la stella Argeade nel sepolcro di Verghina, l’antica Aigai. 23 Se questo è senz’altro possibile, ciò che lascia dubbioso lo stesso Waywell è una camera tanto ricca posta sopra la cripta, visto che non si è rinvenuto il minimo frammento di un tale meraviglioso apparato. Il cronista può essere stato tentato di fornire una visione emozionante ai suoi lettori, mentre è meno probabile che i vandali demolitori abbiano fatto un lavoro tanto minuzioso da non lasciare il minimo frammento di ciò che aveva descritto Guichard. Fra i tanti atti di vandalismo spicca invece un minimo di senso estetico in uno dei comandanti la piazza di Bodrum che agli inizi del ’500 inserì nel muro del castello una dozzina di piastre scolpite sia con la amazzonomachia sia con un rilievo della battaglia fra centauri e Lapiti, uno degli altri grandi temi della scultura greca a partire dall’epoca arcaica. Altre parti di sculture, come alcuni leoni che venivano dal cornicione superiore del muro di sostegno al portico pensile, furono tolte dai muri del castello e portate al British Museum, 80 dove Newton le vide e si convinse della necessità di fare uno scavo sistematico sul sito. Ma a parte pochi casi isolati di una qualche sensibilità, il vandalismo e lo scempio furono la regola seguita dai cavalieri di Rodi per ridurre a quasi totale annientamento il monumento di Mausolo e Artemisia e i prodigi di Skopas e Leochares, di Timoteo e di Briaxis. I marmi furono bruciati per farne calce, le sculture altrettanto, i blocchi sagomati reimpiegati nelle murature del castello. Newton ebbe l’accortezza di acquisire i terreni confinanti con il perimetro che aveva delimitato come sede del Mausoleo, recuperando frammenti e pezzi di inestimabile valore che, cadendo dall’alto per il terremoto, toccarono terra fuori appunto dal perimetro e rimasero sepolti dai detriti e dai riempimenti successivi del cosiddetto “campo dell’Imam”. Decine e decine di statue e frammenti scultorei vennero ritrovati. Suoi furono la scoperta e il recupero di uno dei cavalli della quadriga, suo il ritrovamento della monumentale coppia identificata come Mausolo e Artemisia e quello di una colonna ionica con il suo capitello. Fra i ritrovamenti più fortunosi quello di un cavallo e di un cavaliere al galoppo di cui non restavano che i torsi, ma che rivelavano una dimensione gigantesca e una grande abilità espressiva dello scultore. Gruppi come quello di cui doveva far parte il cavaliere mutilato adornavano probabilmente le sedi alte del monumento. Newton trovò anche quattro lastre in sequenza dell’amazzonomachia che erano state riutilizzate come copertura di uno scolo fognario. 24 Una quantità rilevante di elementi architettonici e di gradini della piramide trovò spazio nei magazzini del British Museum dove sono ancora oggetto di studio per poter un giorno arrivare a una plausibile ricostruzione virtuale del grandioso sepolcro. Per avere anche solo un’idea di quanto possano divergere le ipotesi di ricostruzione proposte basta considerare quelle di Kahrstedt e quella di Newton e Pullan. Altri recuperi, anche importanti, erano stati fatti in precedenza da solerti e sensibili funzionari britannici che poi avevano messo in salvo i reperti nel British Museum, ottenendo facilmente i permessi dalle autorità turche. Chi oggi visita il sito si trova davanti resti architettonici minimi e linee di tritumi di marmo insignificanti. Gli 81 interventi di Newton prima e di Jeppesen dopo hanno lasciato solo un campo di miseri frammenti. Non v’è dubbio che queste azioni fossero meritorie, ma è anche vero che tra la fine del ’700 e gli inizi dell’800 iniziò il saccheggio sistematico dei siti greci sia nella Grecia continentale che nelle isole, in Asia Minore e in Sicilia. Memorabile è la spoliazione dei rilievi del Partenone a opera di Lord Elgin, che suscitò scandalo anche in Gran Bretagna e fu bollata con parole di fuoco da Lord Byron, fervente filelleno. La polemica si è protratta fino ai nostri giorni fra la Grecia rinata nel 1821 e la Gran Bretagna che non ha più l’impero e ha rischiato recentemente di perdere la Scozia e forse anche il suo nome di Regno Unito. Ma non furono soltanto i britannici ad alimentare i saccheggi: i francesi non furono da meno, e anche i tedeschi, che smontarono completamente l’altare di Pergamo e la porta di Ishtar a Babilonia per rimontare l’uno e l’altra a Berlino. Oggi, in tutta l’Anatolia, l’unico monumento funebre inviolato, di dimensioni ma non di caratteristiche paragonabili al Mausoleo, è quello di Antioco I Epifane di Commagene, risalente al I secolo a.C., che sorge sulla vetta del Nemrut Dagi a oltre duemila metri d’altezza. Il Mausoleo di Alicarnasso in ogni caso diventò un modello per molti monumenti funebri in gran parte dei paesi del Mediterraneo, e questo influsso si protrasse non solo per tutta l’età tolemaica in Egitto, ma anche in altri paesi fino all’età romana. Perfino a Gerusalemme certi monumenti funerari, in particolare quelli di alcuni principi Asmonei, si ispirarono, sia pur liberamente, al grandioso sepolcro di Alicarnasso. Oggi sono chiamati “mausoleo” quello di Teodorico e quello di Galla Placidia a Ravenna, quello di Lincoln a Washington e la stessa tomba di Lenin sulla Piazza Rossa che, sormontata da una piramide a gradoni, riecheggia nel modo e nel nome il remoto archetipo. Fu così che il termine “mausoleo”, da nome proprio (sacrario funebre di Mausolo) si convertì in nome comune assumendo il significato tuttora vigente di “sepolcro monumentale”. Ma è un nome senza corpo: del mirabile originale, giunto miracolosamente fin quasi alle soglie dell’età moderna, non è rimasto che il fantasma. 82 L’Artemision di Efeso L’Artemision di Efeso, annoverato fra le Sette Meraviglie del mondo antico, è in realtà uno dei diversi santuari sorti con lo scorrere dei secoli l’uno sull’altro nel sito a sudovest della collina di Ayasuluk in Asia Minore, presso le foci del Caistro che si gettava in mare poco più a nord, dopo aver strisciato con anse sinuose attraverso la pianura alluvionale che esso stesso si era creato. Il visitatore che, attratto dalla leggenda di questo grandioso santuario, si aggira in quei paraggi, subisce una prima delusione di fronte all’unica colonna rimasta di una intera foresta di centodieci fusti marmorei (centoventisette, secondo altre fonti), e per di più ricostruita con una serie di rocchi molto danneggiati, per cui il senso di desolazione è ancora più forte. Sappiamo infatti che cos’era questo gigantesco edificio, e sappiamo che ebbe due fasi principali: un tempio molto ricco fatto costruire in stile arcaico da Creso, re di Lidia, nel VI secolo a.C. in omaggio alla dea Artemide, e uno in stile ionico, costruito dopo che il precedente era stato incendiato da un tale Herostratos per nessun’altra ragione se non quella di diventare famoso. È la stessa spiegazione che addusse l’individuo che uccise John Lennon a New York nel 1980, e può sembrare strano in un periodo della storia umana in cui le comunità anche molto note come Efeso erano relativamente piccole e all’interno di esse molti degli abitanti si conoscevano fra loro. Ma dobbiamo ammettere che a distanza di venticinque secoli Herostratos ha raggiunto il suo scopo, visto che il suo nome è ancora citato. La costruzione dell’Artemision faceva parte della politica che Creso praticava con le colonie ioniche della costa: buoni rapporti sia politici che commerciali, accontentandosi di un modesto tributo e del riconoscimento della sua autorità. Creso era noto per la sua devozione ai grandi santuari e quando mandò una delegazione a Delfi (Erodoto, I, 53) per sapere se avrebbe dovuto o no scendere in guerra contro i Persiani inviò anche 83 ricchissime offerte. Questo non gli valse che un responso enigmatico, come sempre accadeva: “Se passerai l’Halys (oggi Kizylirmak), un grande impero andrà distrutto”. Non specificò, l’oracolo, di quale impero si trattasse e fu un’amara sorpresa per Creso scoprirlo: il suo e non quello di Ciro il grande. Ciro l’avrebbe risparmiato, secondo Erodoto, mentre la cronaca di Nabonedo, re babilonese con cui Creso si sarebbe alleato, si limita a dire che Ciro conquistò la Lidia e uccise il suo re, ma l’interpretazione del testo cuneiforme è discussa. Il tempio arcaico bruciò, secondo la tradizione, nel 356 a.C., e si disse (Cicerone, De divinatione, I, 3.47 e De natura deorum, II, 17, 69) che fosse il giorno stesso della nascita di Alessandro: la dea non sarebbe intervenuta a salvare il proprio santuario perché sarebbe stata occupata ad assistere il parto di Olimpias e la nascita di Alessandro. Quasi certamente si trattava di un aneddoto edificante per nobilitare la nascita del grande conquistatore, che in ogni caso si offrì di finanziare la ricostruzione nel solco delle tradizioni locali e dell’evergetismo del re di Lidia. Fu quello il tempio che Antipatro di Sidone (Anthologia graeca, IX, 58), oltre a Filone di Bisanzio, incluse fra le Sette Meraviglie del mondo. La dea che veniva venerata e onorata all’interno del santuario era chiamata dai Greci, e ovviamente dagli Efesini, Artemide. Si trattava della dea greca sorella gemella di Apollo, figlia di Leto e di Zeus. Leto avrebbe partorito a Delo e Artemide, nata per prima, avrebbe poi aiutato la madre a partorire il fratellino. Da cui la tradizione che la dea, che era vergine, assistesse le partorienti e l’aneddoto secondo cui avrebbe assistito la regina Olimpias a partorire Alessandro. L’Artemide greca era anche la dea dei monti che cacciava le fiere nelle foreste con arco e frecce, da cui anche un suo aspetto di signora degli animali. Spesso Apollo era identificato con Helios, il Sole, e Artemide (Diana per i Romani) con Selene, la Luna. L’arco infatti, attributo della dea, evocava la luna crescente, la falce di luna. C’è chi ritiene che quella sia l’origine della mezzaluna che prima fu il simbolo di Bisanzio e Costantinopoli e poi, accettata da Maometto il conquistatore, finì per campeggiare sulla bandiera turca, non più verde ma rossa. In epoca più tarda (V secolo) Artemide fu anche identificata con Ecate-Persefone, dea dell’oltretomba e sposa di Hades, il dio degli Inferi. Per questo a Roma e in Italia fu spesso chiamata Ecate Trivia, 84 perché la sua triplice immagine (Ecate, Diana, Selene-Luna) veniva collocata all’incrocio di tre vie. Ancora oggi, in molte località d’Italia, si possono vedere edicole della Vergine Maria all’incrocio di tre vie. Evidentemente un modo praticato dal cristianesimo per sradicare un culto pagano. La dea di Efeso era probabilmente una divinità femminile antichissima, collegata al mito delle amazzoni (Callimaco, Inni, III, 237) che avrebbero fondato il suo tempio in età remote. Poi, in seguito alla colonizzazione greca, fu identificata con Artemide. Il collegamento potrebbe dipendere dal fatto che lo scudo delle amazzoni era a forma di mezzaluna, ed è interessante notare che nell’Iliade, quando anche gli dei entrano in battaglia a favore dei troiani o degli achei, Artemide combatte in favore dei troiani mentre nell’Etiopide, un poema perduto del ciclo troiano, le amazzoni arrivano in soccorso di Priamo guidate da Pentesilea. La caratterizzazione di Artemide come signora degli animali ha origini remote. Nell’Iliade (XI, 470) Artemide è chiamata potnia (miceneo po-ti-ni-ja) theròn, “signora degli animali (selvaggi)”, ma da un punto di vista iconografico la signora degli animali è molto raffigurata sia in pitture micenee che minoiche. 1 In tempi successivi, verso la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., si rivede questa immagine anche nella ceramografia. 2 Che cosa rende così particolare il tempio di Efeso? Due cose soprattutto: le sue straordinarie caratteristiche architettoniche e artistiche, e la stratigrafia assai complessa – portata in luce dagli scavi di Wood nel 1863-1874 e 1883, 3 e quindi di Hogarth agli inizi del ’900 4 –, che documenta una continuità cultuale risalente a prima di Creso. La stratigrafia più profonda ha restituito ex voto in avorio, oro e altri materiali preziosi che rivelano le fasi più antiche della frequentazione religiosa del sito, collocabile nell’VIII secolo, praticamente coeva alla comparsa dei poemi omerici, alla colonizzazione greca dell’Occidente e all’introduzione dell’alfabeto: un periodo molto vivace dal punto di vista economico, artistico e culturale, che spiegherebbe l’instaurarsi di un santuario importante in corrispondenza di un porto altrettanto importante. La prima destinazione cultuale del sito rivela una struttura tipica della tradizione micenea di ambiente cretese, con una piattaforma che 85 probabilmente reggeva l’immagine di culto e un’altra, più bassa, recintata da un muro, che forse, secondo alcuni, era l’altare: 5 si tratta di un attardamento culturale di tipo miceneo o sub-miceneo di oltre tre secoli, che si spiega con una continuità riscontrabile soprattutto in aree periferiche come Cipro, o certe località dell’Eubea, dell’Italia meridionale 6 e dell’Asia egea. In seguito, le due piattaforme furono inglobate in un’unica struttura che forse era una cella. Successivamente, in un periodo non datato con precisione, fu costruito un vero e proprio tempio, del tipo in antis, cioè con i muri lunghi della cella che si prolungano creando una specie di area di rispetto, il pronaos, prima della cella vera e propria, il naos. Era piuttosto grande: 31 x 16 metri, e può anche darsi che avesse una peristasi. Si tratterebbe in tal caso di un evento importante che testimonia l'affermazione definitiva della tipologia del tempio greco, forse contemporaneo o di poco precedente il terzo santuario di Lefkandi in Eubea. In questo sito si è conservata una straordinaria stratigrafia che attesta il consolidarsi, attraverso varie evoluzioni, della pianta templare classica dove le colonne, anziché stare all’interno come in tutti i templi dell’antico Oriente, vengono spostate all’esterno affidando la portanza della parte centrale del tetto ai muri della cella. Qui però c’è una fila di pali al centro che sostenevano un tetto presumibilmente di paglia. 7 A questo tempio efesino, ne seguì uno ancora più bello, di marmo, costruito da Creso con grande dovizia di mezzi, probabilmente nel quadro della sua politica di buoni rapporti nei confronti delle colonie greche della Ionia. L’edificio, che possiamo supporre sia stato costruito verso la metà del VI secolo a.C., durò un paio di secoli, fino al 356 a.C., anno della nascita di Alessandro Magno e anno della sua distruzione a opera di Herostratos. Come già abbiamo ricordato, si disse che la dea Artemide non abbia potuto impedirlo perché impegnata a fare da levatrice alla regina Olimpias di Macedonia che dava alla luce Alessandro. Il quale, essendo probabilmente l’autore o il promotore di questo edificante aneddoto, si offrì anche di sponsorizzare la ricostruzione del tempio, quando, battuti i persiani al Granico, arrivò a Efeso, ma ricevette un cortese rifiuto dalle autorità già impegnate nell’opera ricostruttiva. Le nostre fonti (Vitruvio, III, 2, 7; X, 2, 11-12; II, 9, 13; IV, 1, 7; e Plinio, 86 NH, XXXVI, 95), che si basano a loro volta su tradizioni molto più antiche, attribuiscono l’opera costruita da Creso a vari architetti, fra i quali sono forse erroneamente annoverati anche quelli che in realtà dovettero progettare l’Artemision ricostruito dopo l’incendio. È comunque accettato dalla maggior parte degli studiosi come architetto e direttore dei lavori (praefuit, Plinio, NH, XXXVI, 96) Chersifrone di Cnosso, che si sarebbe ispirato all’Heraion di Samo, gigantesco santuario costruito da Theodoros, sul quale aveva poi scritto un trattato. L’attribuzione a Chersifrone di Cnosso dell’Artemision di Creso è confermata anche da Strabone (XIV, 640). Di questo santuario si conservano frammenti al British Museum: alcuni dadi di supporto alle basi delle colonne in cui appaiono in bassorilievo teorie di sacerdoti, sacerdotesse e serventi alle cerimonie e anche un’iscrizione che menziona Creso come colui che innalzò l’imponente edificio. 8 Lungo 115 x 55 metri, il tempio non faceva eccezione fra gli altri templi greci per quanto riguardava la struttura. Era un diptero 9 che sulla fronte aveva una terza fila di colonne, ma di numero molto ridotto (quattro), compresa fra le ante della cella, con tetto a due spioventi, due timpani triangolari e la cella con l’immagine di culto. Una tipologia la cui evoluzione, come si è detto, è perfettamente documentata dagli scavi di Lefkandi in Eubea dove, per un caso molto più fortunato, si possono leggere in successione stratigrafica tutte le fasi evolutive del tempio greco. Lo strato più antico ha permesso di individuare un heroon con pali di sostegno (le future colonne) interni e un’abside per la sepoltura forse di un eroe. Successivamente abbiamo la scomparsa dell’abside, poi i pali/colonne che vengono trasferiti fuori lasciando vuoto e libero l’interno e, da ultimo, la peristasi colonnata esterna, che sarà la caratteristica fondamentale del tempio greco per tanti secoli e che attribuisce all’edificio quell’ariosa leggerezza e quella rigorosa e aritmetica armonia di pieni e di vuoti che ne fa una delle più affascinanti architetture di tutti i tempi. Una volta consolidato, il tempio greco divenne una struttura praticamente immutabile, regolata da proporzioni rigidissime e rifinita con correzioni ottiche estremamente sofisticate: il crepidoma, il colonnato esterno (peristasi), la cella con la statua di culto, la 87 trabeazione con metope e triglifi, i due timpani, il tetto a due spioventi con gli acroteri sui lati e sul colmo, l’altare esterno per i sacrifici. E tutto ciò declinato nei tre stili: dorico, ionico e corinzio. L’Artemision è descritto in modo piuttosto particolareggiato da Plinio (NH, XXXVI, 95), senza riserve, con vera admiratio, anche se non si capisce in modo netto se stia parlando di quello fatto costruire da Creso e progettato da Chersifrone o di quello ricostruito dopo l’incendio del 356. Plinio infatti riferisce che furono necessari centoventi anni per edificarlo, e l’intervento di tutta l’Asia; descrive inoltre, con abbondanza di particolari, come furono create le fondazioni, dal momento che si scelse di collocarlo in una zona noi diremmo alluvionale, creata dai sedimenti del Caistro che scorreva poco più a nord, per evitare che venisse distrutto dai terremoti, sempre molto frequenti nell’area egea. Racconta infatti, basandosi evidentemente su fonti molto più antiche, che l’architetto fece scavare una fossa enorme per le fondazioni e fece distendere sul fondo uno strato di carbone frantumato e di vello di pecore (di lana probabilmente). Questo avrebbe consentito, in caso di scosse telluriche, che l’enorme edificio slittasse su quel fondo senza opporre resistenza e assorbisse gli shock sismici. Questa soluzione, secondo Diogene Laerzio (II, 8, 103), gli sarebbe stata suggerita addirittura da Teodoro, l’audace architetto dell’Heraion di Samo. Per questo, sia nelle pagine di Vitruvio (VII, 2, 11, 15 e II, 9, 13) sia in quelle di tanti altri architetti fino all’età moderna, quell’intervento è celebrato come il primo esempio di architettura antisismica. Lo spazio rimasto libero sui fianchi dei blocchi di fondazione sarebbe stato riempito con i frammenti di lavorazione delle pietre e del marmo. Le dimensioni dell’Artemision (115 x 55 metri) erano di poco superiori a quelle dell’Heraion (105 x 52,5), benché Erodoto abbia dichiarato (III, 60) che l’Heraion era il più grande tempio esistente. È stato ipotizzato 10 che in effetti l’Artemision non fosse un tempio ma una corte colonnata attorno alla statua della dea. Un po’ come il santuario di Segesta, sul quale tuttora si discute se sia un tempio greco incompiuto o una corte colonnata conclusa che circoscrive un recinto sacro (temenos) di tipo indigeno. Nello stesso brano, Plinio fa menzione anche di Skopas, un artista 88 che nacque nei primi anni del IV secolo e quindi non poteva aver lavorato al tempio eretto da Creso ma solo in quello che si stava ricostruendo dopo l’incendio del 356 a.C. In ogni caso il nuovo tempio eretto dopo l’incendio fu quasi del tutto simile al precedente. Le differenze più evidenti furono lo stile delle sculture ad altorilievo sulle basi delle colonne e di quelle a tutto tondo all’interno che rappresentavano amazzoni: nel tempio del VI secolo erano ovviamente di tipo arcaico mentre nel nuovo erano ioniche di stile tardo classico. Nel nuovo tempio, inoltre, c’era un crepidoma di dieci gradini che alzava il tempio a un’altezza di quasi 3 metri sul piano di campagna. È possibile che con la ricostruzione dopo l’incendio si sia colta l’occasione per correggere eventuali segni di sprofondamento, ma allo stesso tempo si sia voluto dare al grandioso santuario una maggiore visibilità dal mare. Dove c’è la piana alluvionale del Caistro si apriva allora un’ansa profonda estesa fino alla base della collina su cui sorgeva la città di Efeso. Lo stile dell’architettura, come si è detto sopra, era ovviamente ionico, molto snello e leggero, con il tipico capitello a volute laterali che derivano a loro volta da un capitello eolico con motivo orientalizzante di ispirazione vegetale. 11 Lo stile ionico era snello perché la colonna era notevolmente più alta e sfilata di quella dorica, e per di più dotata di una base con gola e collarino che la rendeva ancora più slanciata. Qui i caratteri di eccezionalità erano, oltre all’altezza vertiginosa delle colonne – fra i 18 e i 20 metri –, il fatto che erano otto nel pronao e nove nell’opistodomo, in quanto nel pronao si volle creare una sorta di passaggio colonnato verso l’uscita che fosse il prolungamento di quello che si allineava in doppia fila sui fianchi della cella. Inoltre le colonne avevano le basi a tamburo, piuttosto rare e insolite, scolpite ad altorilievo. Un esemplare di queste basi, danneggiato ma di gran lunga il meglio conservato e leggibile, è custodito al British Museum 12 ed è datato dal punto di vista stilistico al IV secolo a.C. Rappresenta Hermes, forse nella sua veste di psicopompo, cioè di accompagnatore delle anime dei morti, fra due figure femminili avvolte in ricchi panneggi. Si vede inoltre un giovane nudo con le ali, che porta la 89 spada al fianco, pendente da un balteo che gli attraversa il torace dalla spalla destra al fianco sinistro. La qualità molto alta e i caratteri stilistici e plastici di queste figure in altorilievo hanno fatto pensare alla mano di Skopas, il grande maestro di Paros che si formò ad Atene e che sarebbe stato chiamato a decorare, non ancora quarantenne, con le sue sculture un’altra delle Sette Meraviglie: il Mausoleo di Alicarnasso. In particolare, il volto del genio alato con la chioma voluminosa e ondulata discriminata al centro, le occhiaie profonde, la bocca carnosa e semiaperta, richiama molto da vicino quello di Pothos che ci è pervenuto in una copia romana dei Musei Capitolini ora esposta alla Centrale Montemartini. Ma un giudizio definitivo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non è possibile. Le figure sono di grandezza naturale e dobbiamo inoltre immaginarle, nell’originale, a colori. In realtà il colore è sempre stato nelle strutture antiche e gli esempi che ci sono pervenuti intatti o quasi, come i sarcofagi con scene di caccia del museo di Çanakkale in Turchia e certi particolari di policromia conservati nel sarcofago di Alessandro nel Museo archeologico nazionale di Istanbul, non sono per niente sgradevoli e anzi sono di grandissimo fascino. Già negli scavi di Khorsabad si sono rinvenuti grandi pannelli in pietra scolpita decorati a colori, ed è probabile che fossero policromi anche i cicli scultorei dei palazzi persiani. Per non parlare dell’ornato policromo dei monumenti egiziani. La policromia quindi, già dominante nell’arte e nell’architettura minoica e micenea, era una tecnica diffusa in tutto il mondo antico: la Ionia e la Grecia non potevano fare eccezione. Oltre agli altorilievi delle basi delle colonne dell’Artemision che erano, come abbiamo visto, di qualità altissima, c’erano anche numerose sculture all’interno raffiguranti le amazzoni protagoniste di tanti cicli pittorici, scultorei ed epici. Fra questi cicli era importante a Efeso quello che voleva le stesse amazzoni fondatrici del santuario. La grande antichità del luogo di culto è stata poi confermata dagli scavi dei già citati Wood e Hogarth 13 e di altri archeologi che hanno portato in luce la complessa stratigrafia che abbiamo sopra descritta nei particolari. Nel complesso il tempio o il santuario, come vogliamo chiamarlo, 90 era un edificio di enorme impatto, il primo e il più imponente che appariva ai visitatori che giungevano dal mare, il più grande del mondo, più alto e più grande del tempio “G” di Selinunte, che pure avrebbe potuto contenere quattro partenoni. Il rialzo di quasi 3 metri che era stato realizzato con la nuova costruzione dopo l’incendio del 356 a.C. enfatizzava ancora di più la sua maestosa imponenza, accentuava lo sfavillare dei colori, il luccicare dei tripodi e dei candelabri, lo svettare degli acroteri, il variare delle luci con i mutevoli riflessi del moto ondoso. A mano a mano che ci si avvicinava prima all’altare e poi all’immensa gradinata, lo sfilare delle colonne, vera e propria foresta di pietra, creava un effetto di movimento, in una prospettiva che mutava quasi a ogni passo. La luce variava continuamente, sia per il moto del sole che per i riflessi della superficie del mare. L’altare che precedeva la facciata del tempio era enorme e comprendeva i recinti per decine di tori che dovevano essere sacrificati alla dea quasi ogni giorno. 14 Tutto attorno al santuario poi, brulicava una miriade di personaggi anch’essi variopinti: uomini, donne, bambini, mercanti e pellegrini, venditori ambulanti, cantastorie, mendicanti, artigiani, indovini e giocolieri provenienti da tutta la grecità mediterranea ma anche dall’Asia e dall’Egitto. Il santuario era centro di incontri, di scambi, di spettacoli e grandi manifestazioni di una religiosità clamorosa, sonora e abbacinante come il sole del Mediterraneo. Un episodio narrato negli Atti degli Apostoli (XIX, 23) è interessantissimo per capire quanto la devozione e l’interesse economico coincidessero perfettamente nei dintorni di un grande tempio come quello di Artemide efesina, non diversamente da quanto accadeva a Gerusalemme sulla spianata del tempio di Jahwe o a Delfi o a Dodona in Grecia o a Siwah in Libia: l’investimento della città o del clero, o dell’una e dell’altro, nella realizzazione di grandi opere d’arte e di architettura religiosa era, come del resto oggi, potente volano economico per lo sviluppo della città e del territorio. Ora, la predicazione di Paolo e dei suoi discepoli aveva suscitato grandissima preoccupazione perché demoliva il prestigio della possente Artemide di Efeso, la dea nella foresta di colonne. “Nessuna immagine plasmata dall’uomo” tuonava l’apostolo delle genti “può 91 essere un dio ma solo un idolo inerte e falso.” Aveva allora avuto luogo una sorta di assemblea all’interno del teatro perché chiunque potesse parteciparvi. Ma l’animatore di quella riunione era il capo degli argentieri che costruivano delle riproduzioni in argento del tempio come souvenir da vendere ai pellegrini e ai visitatori. Che cosa ne sarebbe stato dei loro commerci se la gente si fosse convinta che Artemide non aveva alcun potere? Alla fine, i partecipanti si sparsero per la città gridando “Grande è l’Artemide degli efesini!”, una specie di “Allah Akbar!” in versione ionica, quasi uno slogan per rassicurare gli abitanti della città e i pellegrini sul potere della dea, che poi era la fonte dei loro commerci e dei loro profitti. Pare ci fosse un’apertura sulla facciata della cella da cui si poteva vedere il volto della dea, e sicuramente fra i souvenir che si vendevano attorno al santuario c’erano anche riproduzioni dell’idolo della dea, per la verità molto strano. Le copie della statua dovettero essere molto numerose perché ce ne sono pervenute un certo numero (famose quella dei Musei Vaticani e quella del Museo archeologico di Istanbul). 15 E tutte rappresentano la dea con in testa il tipico copricapo orientale a forma di cilindro, chiamato polos, a tutt’oggi ancora visibile sul capo dei prelati grecoortodossi; indosso ha un peplo e un imation che spunta in basso da sotto una specie di grembiule ricchissimo di ricami e di motivi ornamentali a rilievo, le braccia sono aperte in basso con i palmi delle mani distesi in atteggiamento di accoglienza. Il corpo è fasciato stretto, come fosse quello di una mummia, mentre dal petto sembra sporgere, con un effetto decisamente grottesco per il nostro gusto, come un grappolo di mammelle, o almeno così sono state sempre interpretate in passato. Più in basso vi sono cinque strisce orizzontali, dalle quali spuntano delle protomi taurine: tre nelle prime e due nelle ultime. In realtà non si tratta di mammelle, bensì degli scroti dei tori che venivano offerti in sacrificio alla dea. C’è chi ritiene che in tal modo si volesse affermare il suo dominio sui maschi e la sua natura di vergine inespugnabile. Resta comunque da spiegare come si sia prodotta una rappresentazione decisamente ripugnante, che deturpa il profilo della 92 statua. Certo l’idolo risente di forti influssi orientali o egiziani, come sembra suggerire la forma a mummia del simulacro. La controprova è che tutte le rappresentazioni di Artemide a noi pervenute dal mondo antico sono ben altra cosa. La vergine gemella di Apollo è sempre rappresentata, in età classica, come una giovinetta snella e scalza, bellissima, vestita di un corto chitone aperto sul petto. A tracolla porta una cinghia che regge la faretra colma di frecce, e nella mano destra stringe un arco da caccia. Anche in età arcaica, comunque, e nella pittura vascolare, la sua immagine risponde a canoni figurativi di grazia e di armonia. È evidente che lo xoanon di ebano doveva essere un idolo antichissimo di origine asiatica che solo a partire da un certo momento, non bene identificabile, è stato assimilato ad Artemide. Come abbiamo visto dal passo sopra citato degli Atti degli Apostoli, l’Artemision di Efeso ancora nel I secolo d.C. era in grandissima auge, meta di un ricco flusso di pellegrini che spendevano in acquisti e in offerte, e aveva nel fiorente artigianato locale uno dei suoi più ferventi e non di certo disinteressati sostenitori. Le sue sorti ebbero un primo, durissimo colpo nel 262 d.C. quando gli Ostrogoti, partiti dalla Crimea (Chersoneso Pontico), attraversarono gli stretti e scesero saccheggiando le coste dell’Asia Minore e non risparmiarono di certo Efeso e il suo tempio di Artemide che era sopravvissuto praticamente indenne per oltre seicento anni. Lo saccheggiarono e rovinarono gravemente 16 e quel che ne restò fu abbandonato al suo destino. All’inizio del IV secolo, l’imperatore Costantino attuò un repentino mutamento di rotta decidendo di appoggiare il cristianesimo e di occuparsi di questioni dottrinali in prima persona. Nel concilio di Nicea, infatti, si impegnò a fondo affinché fosse messa a punto la professione della vera fede che tuttora è recitata dai fedeli durante la messa. La situazione dei simboli pagani, dopo l’effimera battuta di arresto di Giuliano (361-363 d.C.), peggiorò ulteriormente con le leggi di Teodosio I e Teodosio II che fecero del cristianesimo la religione di stato e sancirono la pena di morte per chi fosse sorpreso a offrire e officiare sacrifici in onore degli idoli pagani. Se in un primo momento Teodosio I consentì ai pagani 93 di riunirsi nei loro templi purché non vi celebrassero sacrifici, rendendosi conto che i templi erano tesori d’arte e in tal modo avrebbero ricevuto manutenzione, in seguito dovette cedere alle pressioni del clero cristiano ed emanò disposizioni che permisero a bande di fanatici di demolire, bruciare, distruggere i maggiori santuari, da Alessandria ad Antiochia, da Olimpia a Delfi a Didima, fino alla stessa Efeso. Indirettamente, anche il primo concilio di Efeso (431 d.C.), che sancì la natura della Vergine Maria quale Theotokos, conferì grandissimo valore e carisma alla sua figura come madre di Dio e di conseguenza madre dell’intera umanità. Le masse che erano abituate a venerare divinità femminili, a rivolgersi a loro per chiedere aiuto e protezione, si rivolsero a Maria e così la madre di Gesù eclissò e cancellò Artemide, Cibele, Hera, Iside, Afrodite, Vesta e le mille altre declinazioni della Grande Madre, della Protettrice del parto, della Custode del fuoco domestico e di ogni altra attribuzione della donna che ci ha dato la vita, l’amore, il nutrimento e la gioia di vivere. Con la scomparsa di Artemide anche il suo tempio andò definitivamente in rovina perché i cristiani non distinguevano fra l’opera d’arte e l’opera seduttrice del demonio. Il grandioso santuario fu smantellato lentamente, i marmi scolpiti da eccelsi maestri furono mutilati o spaccati per farne calce o tagliati per essere utilizzati come materiale da costruzione, le statue vennero fatte a pezzi. Della grande foresta di colonne, del podio imponente, delle Amazzoni gloriose dai turgidi seni, della maestosa gradinata, dei timpani e degli acroteri non rimase alla fine più nulla. 94 Il Faro di Alessandria La Tabula Peutingeriana, il più grande monumento cartografico che ci sia arrivato dall’antichità, è di fatto una carta itineraria a colori che riproduce il sistema stradale dell’impero romano (cursus publicus) e rappresenta tutto il mondo conosciuto nel IV secolo d.C. 1 È una mappa di straordinarie caratteristiche che riporta tutte le distanze fra una tappa e l’altra in miglia romane ed è illustrata con vignette che riproducono le città, gli edifici o i complessi più importanti, i rilievi (anche se in forma molto stilizzata), i fiumi, i laghi e il mare con i porti principali. In questi impianti portuali si vedono moli, ricoveri per le navi (navalia) e anche torri di segnalazione. Nell’intero arco del Mediterraneo (mancano però i settori occidentali che riportavano Iberia e Britannia) sono rappresentati in modo inconfondibile tre fari. Uno è a Ostia, nel portus Augusti (cfr. anche Plinio, NH, XXXV, 83), un altro a Crisopoli, una città sulla costa asiatica del Bosforo, e un terzo ad Alessandria, benché, stranamente, la città non sia nominata. Ma è indubbiamente riconoscibile con i suoi due porti nelle vicinanze dell’ultimo braccio occidentale del delta del Nilo e il faro nel mezzo, sull’isola omonima. Di fatto, i tre fari sono collocati nei porti delle tre più grandi città del Mediterraneo antico: Roma, Costantinopoli e Alessandria. In realtà, quello di Alessandria fu il primo dei tre a essere costruito e, visto che nella Tabula è rappresentato con il suo fuoco acceso sulla cima della torre, potremmo pensare che fosse ancora funzionante quando la grande carta venne redatta: cioè quasi seicento anni dopo la sua costruzione. 2 Sappiamo che c’era un altro faro a Ravenna, dove Augusto aveva stabilito il porto della squadra imperiale che controllava l’Adriatico, e sappiamo da varie raffigurazioni in bassorilievo che molti altri ne erano stati costruiti. La Tabula Peutingeriana non solo rappresenta il Faro ma lo colloca anche nel posto giusto, ossia sull’isoletta che si estende, oblunga e parallela alla costa, a chiudere la baia di Alessandria fra due 95 promontori, uno da ovest e l’altro da est. Un particolare interessante è che la Tabula Peutingeriana, piuttosto accurata nell’iconografia, rappresenta i fari sormontati da un disco rosso e non da fiamme come succede in altre rappresentazioni, il che farebbe pensare che vi fosse una sorta di riflettore. Il promontorio orientale si chiamava Lochias e lì sorgeva il complesso del palazzo reale che s’ingrandiva sempre di più a ogni successione di un sovrano della dinastia. Tolemeo I era, fra i successori di Alessandro, il più intelligente. Era stato suo amico personale e comandante della sua guardia del corpo, e finché il condottiero era stato vivo ne aveva riconosciuto sempre l’indiscutibile autorità. Ma quando Alessandro morì, accettò a malincuore il patto proposto da Perdicca: aspettare tutti che la vedova, la principessa battriana Roxane, partorisse e, se fosse nato un maschio, preservare per lui l’integrità e l’unità dell’impero finché non avesse raggiunto l’età per regnare. Tolemeo, però, non aveva mai creduto nella possibilità di mantenere unito un impero che si estendeva dal Danubio all’Indo e appena gli fu possibile si proclamò re della satrapia che gli aveva affidato Perdicca, l’Egitto, e lasciò che gli altri facessero lo stesso con le loro. Nel suo territorio Alessandro aveva fondato la prima delle più di settanta città con il suo nome, Alessandria, su una lingua di terra che separava la baia marina a nord dalla palude salmastra a sud chiamata Mareotide. In capo a mezzo secolo essa diventò la città più grande, prospera, razionale, monumentale del Mediterraneo. E diventò inoltre un incredibile, straordinario laboratorio di ogni tipo di innovazione: urbanistica, tecnologica, scientifica e artistica. I Tolemei, soprattutto il primo e il secondo, detto Filadelfo perché si era innamorato della sorella Arsinoe e l’aveva sposata, impostarono l’urbanistica tracciando attorno al reticolo ippodamico che aveva ideato Dinocrate, l’eccentrico architetto di Alessandro, una serie di strutture stupefacenti per la funzione, l’aspetto e le dimensioni. Costituirono inoltre il primo centro conosciuto di ricerca pura, in cui i più brillanti cervelli avevano a disposizione la più grande biblioteca del mondo (oltre seicentomila volumi), e ricevevano una pensione e una borsa di studio, alloggio e mezzi per realizzare le loro idee. Alla direzione vennero collocati i più grandi intellettuali dell’epoca, fra cui Eratostene, autore della misura della circonferenza terrestre, 96 Callimaco, colui che rivoluzionò i canoni della letteratura, e Apollonio Rodio, suo discepolo e poi antagonista, autore delle Argonautiche. Qui studiò Aristarco di Samo, l’astronomo che costruì un modello eliocentrico del sistema solare diciotto secoli prima di Galileo e Copernico, e probabilmente vi studiò anche Archimede, il più famoso scienziato dell’antichità. Anche quando non erano ad Alessandria, gli studiosi e gli scienziati si scambiavano informazioni e si scrivevano, sottoponendosi l’uno al giudizio dell’altro. 3 Fu l’interazione fra studiosi di altissimo livello e le strutture create dai Tolemei a produrre i risultati che poi ebbero riflessi in tutto il Mediterraneo e oltre. Benché vissuto molto più tardi (nel I secolo a.C.), occorre ricordare anche Erone di Alessandria che costruì la prima turbina a vapore di cui si abbia notizia – in grado di aprire automaticamente le porte di un tempio – e molte altre macchine, alcune delle quali sembrano poco più che dei giocattoli (come la colomba volante), altre invece sono strumenti molto preziosi sia dal punto di vista del rilievo topografico, come il corobate, 4 sia per i lavori di cantiere, come il paranco, la puleggia e la gru. 5 All’origine di tutto questo vi fu l’azione di Alessandro. Già durante la sua spedizione le continue esigenze di mezzi bellici dovettero stimolare l’inventiva e le capacità dei suoi ingegneri tanto che Robin Lane Fox dichiara che la conquista di Tiro avvenne più al tavolo da disegno di quanto non si potrà mai immaginare. 6 Ma ciò che più conta è che unificò, o tentò di unificare, in un unico organismo politico tutte le antiche civiltà fra il Mediterraneo e il subcontinente indiano, avviando un processo che non si fermò più. Ad Alessandria e negli altri grandi centri dell’ellenismo, Antiochia, Rodi, Efeso, Apamea, Pergamo, si realizzarono in un modo o nell’altro i suoi sogni di un mondo globalizzato in cui ogni eredità culturale e ogni sapere si mescolasse come in un crogiolo, dando vita a una civiltà nuova e originale quale il mondo non aveva mai prima conosciuto. Perciò Alessandro fu detto “il Grande”: non perché aveva conquistato un grande impero o perché aveva compiuto grandi imprese, ma perché pensava in grande. Alessandria fu una città sperimentale dove tutto divenne possibile, dagli “effetti speciali” delle scenografie tridimensionali nei più di trecento teatri della città, all’astrofisica, ai teoremi matematici più avanzati. 97 Il mare ad Alessandria fu urbanizzato contemporaneamente alla terra. L’isola che concludeva la baia verso nord fu collegata alla terraferma e quindi alla città di Dinocrate con un molo lungo sette stadi (chiamato per questo “eptastadion”), pari a circa 1400 metri. Il molo divise la baia in due specchi d’acqua che divennero due porti, a destra e a sinistra dell’eptastadion, uno con l’imbocco verso ovest (eunostos), l’altro con l’imbocco verso est delimitato a ovest dall’isola, a est dal promontorio Lochias dove sorgeva l’area delle residenze reali che occupavano, racconterà Strabone, un quarto, se non addirittura un terzo della città (Geografia, XVII 1, 7-10, in part. 3). A quel punto fu innalzato da Sostrato di Cnido, e per volontà di Tolemeo I Soter, l’edificio più alto della città e il secondo più alto del mondo conosciuto dopo la Grande Piramide. Era una torre che fungeva da segnalatore per le navi in avvicinamento, alta 134 metri secondo alcuni, più probabilmente 95 secondo altri, 7 chiamata il Faro, dal nome dell’isola su cui sorgeva. Racconta Flavio Giuseppe (Ant. Jud., IV, 612-13) riferendo l’intenzione di Vespasiano di occupare l’Egitto e convincere le due legioni di presidio a unirsi a lui, che il paese del Nilo era completamente privo di porti tranne che quello di Alessandria. Il quale, però, non era certo un obiettivo facile per via di numerosi scogli affioranti e forse anche, in certi punti, per fondali bassi e barene molto pericolosi per la navigazione. L’isola di Faro, da cui prese il nome la torre, era una formazione rocciosa che ben si prestava a reggere una simile mole mentre tutti i terreni attorno erano sabbiosi o melmosi. Inoltre la posizione della nuova città era strategica e destinata a un grande avvenire. Flavio Giuseppe spiega chiaramente che il Faro, il cui raggio di notte raggiungeva la distanza di 300 stadi, ossia poco meno di 50 chilometri, non serviva a richiamare le navi, ma a tenerle a distanza di sicurezza dalle turbolenze del mare che frangeva sugli scogli e contro i moli, affinché entrassero in porto soltanto con la luce del giorno. La distanza a cui arrivava il raggio coincide con l’orizzonte della curvatura terrestre. 8 Sappiamo che Sostrato di Cnido ebbe il permesso dal sovrano regnante di firmare la sua opera in una iscrizione che ne ha tramandato il nome fino ai nostri giorni. Decisione non comune, perché abitualmente il committente si prendeva il merito di tutta 98 l’impresa. Per questo c’è chi pensa che in realtà Sostrato, oltre a progettare il Faro, ne abbia anche ideato e finanziato la costruzione. 9 L’isola di Faro era già nota a Omero (Od., IV, 335) il che significa a coloro che frequentavano quelle acque ai tempi in cui fu composta la Telemachia. Proprio il viaggio di Telemaco in cerca di notizie del padre disperso è l’ambito in cui l’isola viene nominata. È in quei paraggi infatti che Menelao è approdato tornando da Troia spinto da un vento di settentrione. Nell’isola di Faro abitava Proteo, un vecchio che dava oracoli. Era solito uscire dal mare verso mezzogiorno e mettersi all’ombra vicino alle rocce con il suo gregge di foche. Era lì che bisognava sorprenderlo. Il vecchio era bizzoso e si doveva immobilizzarlo perché vaticinasse. Per sfuggire alla cattura egli poteva assumere infinite forme, perfino trasformarsi in acqua o in fuoco. Non bisognava spaventarsi e occorreva invece mantenere salda la presa. Alla fine egli riprendeva il tranquillo aspetto di vecchio e dava il suo vaticinio. Questa citazione tanto prestigiosa è dovuta probabilmente alla presenza della baia, riparo per le navi che incrociavano sulle coste dell’Egitto, dirette a occidente verso i grandi bacini minerari della Betica, o spinte colà dai venti che flagellavano il capo Malea. Secondo le ricostruzioni comunemente accettate, il Faro si componeva di tre parti: una quadrangolare alta probabilmente una sessantina di metri, una ottagonale e una terza cilindrica che si suppone avesse un meccanismo rotante come i fari moderni. Nella piazza delle Corporazioni, a Ostia, il faro è rappresentato due volte. La prima come un edificio a tre piani di cui l’ultimo di forma cilindrica; in sostanza forse una copia di quello di Alessandria, anche se di dimensioni più contenute e con un fuoco stilizzato sulla cima. L’altro invece è a quattro piani, sormontato da una statua. Una riproduzione simile si trova su un sarcofago paleocristiano del III secolo d.C. 10 Il faro qui è a quattro piani tutti poligonali, per cui potrebbe non essere quello di Ostia come ipotizzato. Sulla sommità si vedono dei raggi: non è chiaro se si tratti di fiamme stilizzate di un fuoco o di raggi luminosi. Interessante è altresì il mosaico del XIII secolo nella basilica di San Marco, che rappresenta una scena della vita dell’evangelista considerato il fondatore della chiesa alessandrina. In quel mosaico è raffigurata una nave nel momento in cui entra nel porto e infatti uno 99 dei membri dell’equipaggio appare in atto di disalberare mentre un altro lo coadiuva tenendo il pennone con una sartia. Il santo, distinguibile per l’aureola, siede invece, benedicente, a poppa. Di fronte si erge il faro, che ha in tutto tre piani di cui l’ultimo sormontato da una cupola con tegole. Si direbbe una rappresentazione di fantasia più che l’aspetto che effettivamente doveva avere nel Medioevo. Il Faro era talmente importante ad Alessandria che la principale divinità dell’Egitto, Isis, aveva l’attributo di Pharia, ossia sua protettrice, e ci resta una moneta del II secolo che la raffigura di fronte alla torre. La struttura della costruzione appare incerta, ma vi si riconoscono i tre piani, l’ultimo dei quali sormontato da una statua, forse di Zeus o di Poseidone. 11 La grande torre, come è noto, sopravvisse fino al XIII secolo, quando fu abbattuta da un terremoto. Ma a molti altri dovette resistere, in tutto quel tempo. Sicuramente resistette al maremoto, un autentico tsunami, che nel 365 d.C. si abbatté sul porto scaraventando alcune navi sui tetti delle case e altre a diverse miglia nell’entroterra. La descrizione che ne fa Ammiano Marcellino è impressionante: l’acqua del porto dapprima si ritira cosicché molta gente accorre a vedere il fenomeno, poi arriva la gigantesca ondata di riflusso ed è la catastrofe. 12 C’è chi pensa che in quell’occasione la tomba di Alessandro possa aver subito gravi danni, ma di certo sappiamo che il Faro resistette e continuò a svolgere la sua funzione per secoli. Ma qual era il suo funzionamento? C’era solo un fuoco sulla sommità, come vuole qualcuno? 13 Ed era questo sufficiente a lanciare un raggio luminoso fino a 48 chilometri di distanza nella notte? Il fuoco sarebbe stato visibile a tale enorme distanza solo per il fatto di ardere a 95 o più metri di altezza? È interessante a questo proposito considerare ciò che avveniva nel più antico faro d’Europa, costruito nel 1128 a Genova e tuttora il quinto del mondo per altezza (calcolando anche lo scoglio su cui si erge, la Lanterna raggiunge infatti i 117 metri). Nei primi tempi la Lanterna era alimentata con fasci di brugo secco, una pianta molto simile all’erica, sicuramente ricca di cellulosa, per produrre un fuoco bianco e molto luminoso. Le navi in ingresso nel porto erano tenute 100 comunque a pagare un contributo per l’acquisto del combustibile e per la manodopera. In seguito furono apportate numerose migliorie, fino a adottare ottiche moderne e girevoli su una piattaforma circolare. Gli addetti erano tenuti a lucidare in continuazione i vetri e anche a sostituirli quando i fulmini li colpivano o le torsioni e le oscillazioni dovute alla forza delle tempeste li facevano incrinare o andare in frantumi. La portata del raggio in queste condizioni era di 20 chilometri. Questo premesso, possiamo ancora fidarci della testimonianza di Flavio Giuseppe? Studi recenti hanno avanzato un’ipotesi audace e affermato che la vera meraviglia non era la torre in se stessa, che pure sfidò tempeste, maremoti e terremoti, ma il meccanismo al suo interno. 14 In realtà, come spesso accade, le nostre fonti non ci forniscono dati tecnici, ma si limitano a ricordare le principali caratteristiche del monumento che, in questo caso, è una grande torre di segnalazione che divenne il modello per molti altri fari e che a tutt’oggi rimane l’archetipo di questo genere di costruzione. È probabile che non si tratti sempre di distrazione o di differenza di interessi, ma semplicemente del fatto che si preferiva mantenere i segreti tecnologici. A Rodi, per esempio, una delle grandi potenze navali dell’epoca ellenistica, c’era la pena di morte per chi veniva sorpreso a spiare nei cantieri dove si costruivano navi da guerra di ultima generazione (Strabone, Geografia, XIV, 2, 5). Né si sono mai saputi i segreti di Helepolis, la possente macchina ossidionale di Demetrio Poliorcete. I Cartaginesi avevano un sistema costruttivo simile alle nostre linee di assemblaggio che consentiva loro di approntare grandi flotte in tempi relativamente brevi, ma lo si è scoperto solo leggendo i segni alfabetici sul fasciame della nave di Marsala. 15 Lo stesso segreto proteggeva le rotte atlantiche dell’oro e dello stagno, e le rotte transoceaniche recentemente ipotizzate. 16 Russo, nel suo ampio studio sui risultati scientifici e tecnologici della ricerca ellenistica, fa notare che, proprio nel periodo in cui si costruiva il Faro, ad Alessandria e forse in altri centri di ricerca si sviluppava la catottrica, ossia la scienza della rifrazione della luce, e si metteva a punto la teoria delle coniche che in seguito permise la realizzazione di specchi parabolici, quindi, probabilmente, di proiettori. Uno dei grandi miti 101 tecnologici dell’epoca erano i celebri specchi ustori con cui Archimede avrebbe incendiato le navi di Marcello nel porto di Siracusa sotto assedio nel 212 a.C. Oggi quasi nessuno, a parte qualche irriducibile amatore, crede che il grande scienziato siracusano avrebbe potuto sviluppare una simile arma e soprattutto specchi di dimensioni enormi quali sarebbero stati necessari per raccogliere e concentrare nel fuoco della parabola così tanta energia solare. Questo sistema è oggi alla base della caldaia solare costruita dal professor Carlo Rubbia in Sicilia e di altre potentissime caldaie solari in Spagna. Ciò che importa, però, è che in età ellenistica si parlasse di specchi parabolici. Russo ricorda che Archimede aveva scritto un trattato di catottrica e che era in corrispondenza con Dositeo, uno scienziato del Museo che aveva costruito uno specchio in grado di far convergere i raggi del sole in un punto. 17 Russo considera attendibile, come si è detto, la portata di 300 stadi ossia di 48 chilometri riferita da Flavio Giuseppe, perché corrisponde al limite della curvatura della Terra e all’orizzonte, e la controprova sarebbe l’altezza eccezionale del Faro che non avrebbe senso se il sistema della lanterna non avesse avuto la possibilità di rendersi visibile da tale distanza. Una simile portata, d’altra parte, poteva essere raggiunta solo tramite un riflettore, cosa che Russo ritiene sicura perché i viaggiatori arabi che visitarono il Faro videro delle superfici riflettenti di metallo. 18 È interessante notare che il cosiddetto “faro di Abusir”, un monumento funebre molto più piccolo ma di forma molto simile al Faro di Alessandria, distava 48 chilometri dal suo gigantesco modello, la stessa distanza che Flavio Giuseppe considera la portata massima della torre alessandrina. Si potrebbe forse ipotizzare che fosse utilizzato come punto di osservazione per misurare la portata stessa del Faro? Russo pensa anche che la forma cilindrica della lanterna significasse che era dotata di un meccanismo di rotazione per rendere meglio visibile il raggio luminoso e consentire di distinguerlo da altre sorgenti di luce, come le stelle. Dice infatti Plinio (NH, XXXVI, 83): “… Il pericolo del sistema sta nella possibilità che, bruciando in continuazione, questi fuochi siano scambiati per stelle”. Non mancano pareri del tutto contrari a questa ipotesi. L’indagine 102 dei Romer, che tuttavia è precedente allo studio di Russo, fa riferimento alle ipotesi di Thiersch 1909, nonché Thiersch 1915, sull’uso di specchi e riflettori, definendole fantastiche e influenzate dalla temperie scientifica e tecnologica dei primi del Novecento, e nega recisamente che gli scienziati alessandrini ricavassero applicazioni pratiche dalle loro teorie scientifiche. Ricorda che l’economia schiavile impediva ogni progresso e che gli stessi scienziati aborrivano le applicazioni pratiche dei loro studi perché le ritenevano comunque attività indegne di uno studioso: in tal senso, qualunque ipotesi di un’apparecchiatura tecnologica nella lanterna del Faro sarebbe pesantemente viziata dalla mentalità modernista degli studiosi che l’hanno formulata. 19 L’ipotesi di Russo è in realtà verosimile, e se il meccanismo esisteva, come tanti indizi farebbero supporre, significa che qualcuno l’aveva costruito. D’altra parte, la realizzazione di navi gigantesche (le dimensioni e la stazza della “Siracusana” furono superate solo dalla Victory di Nelson), di statue colossali, di macchine da guerra formidabili, di catapulte capaci di lanci stupefacenti, di una torre alta 100 metri, di meccanismi per il sollevamento dell’acqua, di torchi, di pompe a pistoni, di gru e paranchi, di strumenti topografici di precisione, di meccanismi di calcolo astronomico come il meccanismo di Anticitera recentemente sottoposto a TAC per scoprirne le funzioni, sono indice di un fervore di inventiva che per forza doveva coinvolgere gli ingegni migliori e manodopera altamente specializzata e non solo la fatica fisica degli schiavi. Certo, molti interrogativi restano e le risposte possono essere solo ipotetiche: di che tipo era il fuoco? Com’era alimentato? Come veniva trasportato il combustibile fino in cima alla torre? Come si smaltiva il fumo? Come si evitava che le superfici riflettenti venissero costantemente oscurate dalla fuliggine? Romer ipotizza che si utilizzasse dell’olio, visto che il legname in Egitto è scarsissimo e di pessima qualità, ma si può pensare forse alla nafta che si poteva importare facilmente dal vicino Oriente o a additivi come cere e resine. Il fumo avrà avuto le sue vie di fuga nella cupola della lanterna e la pulizia si sarà fatta a mano come usava nella Lanterna di Genova già nel XII secolo. Il faro, come abbiamo detto, fu comunque opera di grande 103 successo, replicata a decine e decine di esemplari lungo tutte le coste del Mediterraneo e dell’Atlantico, e fu opera longeva che era ancora in funzione al tempo dell’invasione araba dell’Egitto. L’ultima edizione italiana commentata di Plinio lo dice distrutto da un terremoto nel 796, 20 mentre J. Y. Empereur dice che perdette in quel frangente solo il terzo piano, cioè quello della lanterna. Lo deduce dal fatto che il sultano Ibn Tulun, un secolo dopo, vi costruì sopra una moschea, che dovette essere anche minareto, data l’altezza del manufatto su cui insisteva. Quel primo urto dovette indebolire di molto la struttura, che in seguito si rivelò assai più fragile, anche in presenza di scosse di portata minore. Alla metà del secolo X, per l’allargamento di alcune crepe, il monumento subì un crollo perdendo 22 metri di altezza, e un ulteriore crollo si verificò due secoli dopo. Gli Arabi, però, cercarono anche di restaurarlo e gli interventi del Saladino fecero sì che potesse sopravvivere fino al 1303, quando un terremoto di grande magnitudo percepito in tutto il Mediterraneo lo distrusse completamente. Dalle testimonianze dei viaggiatori arabi, Ibn Battuta soprattutto, 21 si intuisce che, dopo quasi sedici secoli da che Sostrato di Cnido l’aveva costruita e Tolemeo II inaugurata, la grande torre fosse quasi completamente in rovina. Ma la meravigliosa struttura restò famosa nel mondo arabo e divenne leggendaria in tutto il Mediterraneo. Nel posto esatto in cui sorgeva, sull’estremità orientale dell’isola di Faro, e con il reimpiego di molti materiali attinenti al rudere, verso la metà del XV secolo fu costruito il forte di Quaitbey. L’altro grande monumento dell’architettura urbanistica alessandrina, l’eptastadion, con l’andare dei secoli è stato completamente sepolto dai sedimenti marini per cui l’isola di Faro è diventata una penisola e l’istmo ora ospita uno dei quartieri più popolosi della città. Al tempo dell’invasione napoleonica Alessandria era solo un misero villaggio di pescatori proprio sull’istmo, cosicché l’intera area urbana antica che si estendeva a sud era libera e avrebbe potuto essere scavata integralmente. Oggi, purtroppo, una simile operazione è impensabile. Nel 1993 il Faro tornò al centro dell’attenzione internazionale perché il governo egiziano aveva progettato la costruzione di una diga 104 proprio nella zona dove esso sorgeva anticamente. Venne coinvolto nell’opera di salvataggio il francese Jean-Yves Empereur, un archeologo subacqueo di grande esperienza, che aveva esplorato vari siti in Grecia e sulla costa turca. La sua ricognizione ha portato alla scoperta e al salvataggio di oltre tremila pezzi archeologici di grandissima importanza: statue colossali, sfingi, leoni, colonne, capitelli, blocchi di granito probabilmente appartenuti al Faro, uno dei quali del peso di 75 tonnellate. L’area sulla quale erano disseminati i pezzi scultorei e architettonici copre un’estensione di oltre 2 ettari in direzione nordest e con un andamento arcuato e con decrescente quantità di reperti a mano a mano che ci si allontana dalla costa. Il che fa pensare a un crollo da terremoto, un po’ come accadde per il Mausoleo che disseminò i suoi pezzi nell’adiacente “campo dell’Imam”. Molte sono le sculture, diverse rappresentano divinità e sovrani tolemaici. Tanti secoli fa precipitarono in mare per la forza immane del terremoto che squassò l’opera di Sostrato di Cnido. I grandi blocchi e le statue affondarono con tonfi scroscianti, il peso della pietra li trascinò e li adagiò sul fondo fra i riflessi ondulati del sole sulla sabbia. Poi vi fu il silenzio dei millenni, finché gli stessi piccoli uomini che avevano innalzato quella meraviglia, che l’avevano vista crollare impotenti, che avevano saccheggiato il suo rudere enorme, riapparvero come creature del mare nuotando tutto attorno, li legarono e li sollevarono di nuovo alla luce accecante del sole perché ancora una volta si parlasse e si sognasse della Settima Meraviglia, del Faro di Alessandria. 105 L’Ottava meraviglia? Non ha le prestigiose testimonianze di Plinio, di Giuseppe Flavio, di Arriano e di Ammiano Marcellino, non è stato descritto da Pausania o da Strabone ed è anche per questo che è rimasto nascosto, invisibile e misterioso in un angolo di mondo remoto e ancora oggi poco frequentato fra l’Anatolia orientale e la Siria settentrionale. Non sappiamo il nome dell’architetto che l’ha innalzato, e le sue statue gigantesche, decapitate dai terremoti durante venti secoli di gelo, di folgori, di calura e di intemperie non sono state scolpite da scalpelli famosi. Eppure si tratta di uno dei complessi e dei luoghi più impressionanti e affascinanti del pianeta. Fino a poco tempo fa, per assistere alla scena indimenticabile della sua apparizione bisognava affrontare un viaggio malagevole, lungo una strada polverosa che si inerpicava, tornante dopo tornante, fino alla base della montagna, bisognava attraversare il ponte dell’imperatore Settimio Severo, lanciato nel vuoto con un’arcata sola sopra la corrente vorticosa e trasparente di un fiume di cristallo liquido e blu nella luce incerta che precede l’alba, per poi arrivare davanti al mausoleo sulla terrazza orientale al sorgere del sole. È allora che il torrente Kahta s’incendia come una miccia dalla sorgente fino alle sponde dell’Eufrate, è allora che le teste gigantesche e attonite del re e dei suoi dei si animano quasi di un respiro impercettibile, che i volti si arrossano, che le ombre dei colossi si allungano sulla collina di pietra, vigilata da aquile e leoni. È allora che si alza una brezza fredda e tagliente dopo aver sfiorato i picchi nevosi del Tauro, e i colossi sembrano rabbrividire. È il mausoleo di Commagene, la tomba-santuario del re Antioco I Epifane Theos, discendente di Alessandro per parte di madre, di Dario I il Grande per parte di padre, prediletto di Zeus e di Ahuramazda, signore di un piccolo regno stretto fra giganti ringhiosi e aggressivi: l’Impero Partico a est e l’Impero Romano a ovest. L’idea di chi l’ha costruito è straordinaria perché utilizza come base 106 e sostegno una montagna intera, alta 2150 metri, nuda, aspra e solitaria che si erge nell’Anatolia orientale vicino al confine con la Siria: il Nemrut Dagi, la montagna dove, secondo una leggenda, il mitico Nemrot, il re della torre di Babele, andava a caccia. Il mausoleo sorge sulla sua vetta in forma di un tumulo conico fatto di breccia, di scaglie di roccia scalpellate dalla montagna. Per ottenere una forma perfettamente conica, le pietre non furono ammucchiate, ma versate a caduta dall’alto cosicché, seguendo la forza di gravità, rotolavano, scivolando una sull’altra in modo da creare una forma perfetta, di quelle che solo le forze della natura possono plasmare. A mano a mano che il cono di breccia si alzava, gli operai, salendo da rampe di legno poste a intervalli identici l’una dall’altra, continuavano a versare la breccia dai loro cesti, mentre migliaia di scalpellini tagliavano la roccia creando in tal modo le spianate su cui sarebbero stati innalzati i colossi e gli altari. E così, alla fine, il tumulo raggiunse l’altezza di circa 60 metri e un diametro di 150, a coprire, si suppone, la cripta funeraria, che peraltro non è mai stata localizzata. A nord, a est e a ovest del grande tumulo furono create tre terrazze di cui sono sopravvissute solo quelle a ovest e a est. La terrazza orientale è la più impressionante. Sul suo lato occidentale si ergono le cinque statue colossali (9-10 metri ciascuna) che rappresentano il re attorniato dagli dei, più due aquile e due leoni. A est invece c’è un altare del fuoco di forma piramidale secondo il rito zoroastriano. Il recinto sacro era completato da due file di lastre scolpite, solo in piccola parte conservate, che poggiavano su piedistalli della stessa pietra grigia. A nord vi erano rappresentati gli antenati persiani di Antioco fino al re Dario, ciascuno con il suo nome inciso sulla faccia esterna della lastra, ora in frantumi. Sul lato sud c’era un altro recinto di lastre su cui erano rappresentati gli antenati macedoni del re fino ad Alessandro Magno. In chiave propagandistica e di geopolitica era un messaggio chiaro: la dinastia di Commagene non poteva essere trascinata a schierarsi né con l’Oriente né con l’Occidente perché era parte di tutti e due per ascendenza di sangue. Meglio che la Commagene mantenesse la sua autonomia ed equidistanza nell’interesse di tutti. La grande potenza a Oriente era stata dapprima quella dei Seleucidi, che avevano ereditato l’Asia di Alessandro Magno ma non erano mai stati in grado di tenerla, poi quella dei Parti, che nel 53 a.C., 107 quando Antioco I regnava da undici anni, sconfissero Crasso a Carre. Nelle iscrizioni in greco, certamente molto posteriori a quella data, Antioco aggiunge alla sua titolatura protocollare anche i nomi di Filoromano e di Filelleno, probabilmente perché i Parti a quel punto erano molto più temibili, e soprattutto vicini, di quanto non lo fossero stati i Seleucidi. Sulla terrazza occidentale c’era di nuovo il re assiso fra gli dei, ma occorre ricordare che in ognuna di queste divinità in realtà si possono riconoscere fino a quattro o cinque personificazioni diverse in accordo con la tendenza sincretistica per cui gli dei sono gli stessi in tutto il mondo, solo con nomi differenti. È qui, sulla terrazza occidentale, che si trova il rilievo del leone che in realtà è un oroscopo. Ci sono diciannove stelle sul cielo e sul corpo del leone e una mezzaluna sul suo petto, e in alto tre pianeti in congiunzione – Giove, Mercurio e Marte –, che indicano una data: il 7 di luglio del 62 o del 61 a.C., il giorno in cui Pompeo mise Antioco sul trono. La terrazza settentrionale aveva lo scopo di collegare la via processionale che univa la terrazza orientale a quella occidentale. Anche sulla terrazza occidentale, a causa dei terremoti, le teste dei colossi giacciono sparse sul terreno ma sono in generale meglio conservate e conoscono al tramonto lo stesso fenomeno che si verifica sulla terrazza orientale all’alba. Uno scenario emozionante e commovente. Incisa sul piedistallo dei colossi c’è una lunga iscrizione in greco, scandita con numeri romani, su una superficie di 42 metri quadri, che proclama la natura divina del re, l’intera sua titolatura e celebra la sua opera: “Il grande re Antioco, Theos giusto, Epifane, Filoromano e Filelleno ha scritto in lettere indistruttibili, su questi sacri basamenti e per tutta l’eternità … Ho retto il mio regno con nobile governo grazie ai miei pii sentimenti … Ho fatto una sede per tutti gli dei e dopo aver ornato le rappresentazioni del loro aspetto con tutte le risorse dell’arte conformi alle antiche tradizioni dei Persiani e dei Greci … Ho reso loro meravigliosi onori con la celebrazione di sacrifici e di festività cerimoniali … Dunque ho giustificato la mia intenzione di erigere, vicino ai troni celesti, e su fondamenta invincibili dagli insulti del tempo, questa tomba santuario dove il mio corpo dormirà in un eterno riposo separato dalla sua anima pia che prenderà il volo verso le regioni celesti di Jupiter Ahuramazda…”. 108 La lunga iscrizione è espressione di uno straordinario e ricco sincretismo di Oriente e Occidente. La separazione dell’anima dal corpo come nella tradizione orfica ma anche cristiana, la tradizione greca e persiana e infine il dio supremo che è Jupiter ma anche Ahuramazda. L’iscrizione, nelle sue ultime righe, si rivolge a chiunque in futuro avrebbe preso il potere, intimandogli di rispettare la regola di quel luogo e anche tutti gli dei e tutti gli spiriti: “Quelli di sentimenti irreligiosi e contrari al rispetto degli spiriti sappiano che si faranno nemici gli dei, senza contare la nostra maledizione”. Ciò che più impressiona è che nessuno sapeva niente di questo meraviglioso monumento (benché nel Medioevo fosse noto ai cristiani siriani) fino al 1881 quando un tecnico tedesco, Charles Sester, ne sentì parlare dai suoi collaboratori curdi e riferì la cosa al console tedesco a Smirne. Costui fece circolare la notizia negli ambienti accademici berlinesi. Questi mostrarono di non avere alcun interesse per quel complesso monumentale sulla vetta di una montagna, ma un archeologo, Otto Puchstein, accettò di incontrarsi con Sester ad Alessandria in Egitto. Nel 1883, Puchstein, assieme a Carl Humann che aveva lavorato al recupero dell’altare di Pergamo, organizzò un sopralluogo in piena regola, sponsorizzato dal feldmaresciallo Von Moltke, il vincitore di Sedan. Tuttavia fu necessario attendere il 1953 perché Theresa Goell dell’American School of Oriental Research iniziasse a scavare il tumulo. A quel tempo era una delle pochissime donne che facevano la professione di archeologo e la sua passione era tale che lasciò marito e figlio per dedicarvisi a tempo pieno. Sembra che i suoi metodi di esplorazione fossero piuttosto bruschi: pare abbia usato esplosivo per aprire il tumulo ottenendo il solo risultato di abbassarlo di una decina di metri. Era convinta che sotto vi fosse la cripta con le ceneri (o il corpo) del re e il suo tesoro. Finora le ricerche non hanno dato risultato. L’isolamento e la difficile accessibilità hanno protetto il mausoleo per quasi diciannove secoli anche se, contrariamente ai voti di Antioco, gli insulti del tempo e anche degli archeologi hanno lasciato i loro segni. Privati della pelle di intonaco che doveva proteggerli dalle fortissime escursioni termiche e dalle intemperie e creare le sembianze delle membra, i colossi mostrano i grandi blocchi di muratura a secco 109 di cui sono fatti. Malgrado ciò, i volti crollati al suolo rivelano il segno di mani esperte e di uno stile ben riconoscibile del tardo ellenismo. Purtroppo, un progetto di restauro del santuario di Antioco I messo in atto già da diversi anni da archeologi turchi e olandesi ha sollevato le teste maestose appoggiate sulla terrazza orientale e le ha collocate fra le gambe dei loro originali proprietari, creando un effetto grottesco, al limite del ridicolo. Lo scopo, a quanto risulta, sarebbe quello di isolare le teste dal fondo della spianata per proteggerle dall’umidità e dal gelo. Per questo ognuna di esse è stata appoggiata su un fondo di breccia come quella del tumulo. L’attuale sistemazione sarebbe “più razionale”: espressione ben più difficile da interpretare che le chiare lettere dell’iscrizione di Antioco.* Se questo non bastasse, per agevolare i turisti, si sono piazzate due rampe lastronate in cemento grigio chiaro che sfregiano brutalmente l’integrità della vetta del Nemrut Dagi, lo percorrono dalla base alla cima e sono visibili da lontano. Per fortuna, la forte escursione termica tra estate e inverno e fra giorno e notte ha già iniziato la sua opera di demolizione che, si spera, proceda il più possibile spedita. Prima esisteva un sentiero acciottolato con gradini lunghi e poco alti, dello stesso colore della montagna, di fatto quasi invisibile, che potrebbe essere recuperato. Quella che qualche studioso in Turchia ha già definito come l’Ottava Meraviglia del mondo antico sta rischiando non poco. C’è da augurarsi che le cose vengano ripristinate come erano. La fortissima delusione di chi ha già visto la terrazza orientale e la rivede ora è il più eloquente dei commenti. Da questo viaggio attraverso le meraviglie perdute del mondo antico, alcune distrutte completamente, altre ridotte a poche schegge informi, altre ancora spogliate e sfigurate come la Grande Piramide, la cui mole soltanto ha sfidato la stupidità umana, emerge una conclusione amara: nessuna opera d’arte, per quanto grande e mirabile, sopravvive alla civiltà che l’ha creata se i posteri non la considerano un’eredità preziosa da salvaguardare e da trasmettere a coloro che verranno. Evitando allo stesso tempo il conservatorismo estremista, che pure – per altre ragioni – può rivelarsi letale. Il mausoleo di Commagene, eretto duemila anni fa da un piccolo re di un piccolo, effimero stato è giunto fino a noi per una specie di miracolo, così come era accaduto per i Buddha di Bamyan, 110 polverizzati poi dall’esplosivo talebano. Toccherà a noi, uomini del XXI secolo, impedire ogni forma di scempio e dimostrare di meritare questa meravigliosa eredità. * Questa la risposta che fu data a chi scrive dal direttore della missione, interpellato via mail. 111 Note 112 Il giardino impossibile 1. Anche il governatore di Siria, Belesis, ha un bellissimo parco dove cresce frutta in ogni stagione (Sen., Anab., I, 4, 10) 2. L’Eden ha un corrispettivo nel “paradiso” che gli autori antichi immaginavano fosse alle Isole Beate, poste nell’estremo Occidente. Vedi una rassegna commentata delle fonti principali in Manfredi, 1993 e aggiornamenti nell’edizione spagnola Manfredi 1997. 3. La lista delle Sette Meraviglie del mondo si ritiene generata intorno al 140 a.C. da Antipatro di Sidone, ma l’elenco primo e completo deve essersi generato prima, fra gli inizi del III secolo, quando era stato inaugurato il Faro di Alessandria nel 280, e il 227 quando un terremoto abbatté il Colosso di Rodi (che però, anche abbattuto, continuò a essere oggetto di meraviglia). L’opera De septem orbis spectaculis è attribuita a Filone di Bisanzio, uno scienziato e ingegnere, forse allievo di Ctesibio e probabile frequentatore del Museo e della Grande Biblioteca. Si data il suo floruit intorno alla fine del III secolo. La sua opera, molto vasta, ci è pervenuta solo in minima parte. Non pochi studiosi sono convinti che la paternità dell’elenco dei septem spectacula gli sia stata attribuita da un autore tardo (V secolo d.C.) per conferire autorevolezza alla propria opera. Cfr. Philo Byzantii, De septem orbis spectaculis, con note critiche e indici di R. Hercher, s.v. “Hortus pensilis”, Parisiis MDCCCLVIII. 4. Diodoro smentisce subito le storie dei Greci (Ctesia?) che attribuiscono a Semiramide la costruzione dei Giardini. In generale, a proposito di questa mitica regina identificata dagli assiriologi con Samurammat, vedi Pettinato, 1985, pp. 381 ss. 5. Vedi le illustrazioni da Dalley, 2013, pp. 24 e 25. 6. Pettinato, cit., p. 17, attribuisce a Nebuchadrezzar i Giardini Pensili; id., 1992, pp. 162 ss. per l’avventura di Gilgamesh ed Enkidu nella foresta dei cedri contro il mostro Humbaba. 7. Per i sistemi di sollevamento dell’acqua vedi l’esauriente trattazione di White, Water raising equipment, 1984, p. 32, e ivi numerose citazioni dalle fonti antiche. Per la coclea in particolare vedi anche AA. VV., Artifex, 2002, p. 129. 8. Vedi Dalley, cit., p. 32. 9. White, cit., p. 33, fig. 23, la variante vitruviana con catena della ruota a secchi. Vedi anche per la ruota idraulica, Artifex, cit., pp. 131-33. 10. Vedi la ricostruzione ideale della pompa a pistoni di Ctesibio (maestro di Filone di Bisanzio) in Artifex, cit., p. 134; schemi grafici di funzionamento e pezzi originali a p. 136. 11. Dalley, cit., p. 63. 12. Ibid., pp. 3-33. La sua immediata citazione di I. Finkel nel libro di AA. VV. sulle Sette Meraviglie del mondo antico a cura di P. Clayton 1988 e di J. e E. Romer, 1995, ambedue contrari all’idea dell’esistenza dei Giardini Pensili a Babilonia, rivela subito le sue convinzioni. 113 13. A sua volta Ctesia è la fonte principale della vita di Artaserse di Plutarco ed è nominato da Senofonte nell’Anabasi come mediatore fra il Gran Re e il comandante dei Diecimila Clearco. Egli avrebbe, per sua stessa affermazione, curato Artaserse di una ferita riportata nella battaglia di Cunassa (401 a.C.), contro suo fratello Ciro il Giovane che voleva spodestarlo e possibilmente ucciderlo. Fu sempre Ctesia (Plutarco, ibid.) a narrare l’esecuzione dei comandanti greci dell’esercito dei Diecimila caduti in un’imboscata a nord di Ninive nei pressi dell’attuale città di Zacho. 14. Vedi infra, l’episodio di Clearco e del pettine. 15. Dalley, cit., vedi l’illustrazione a p. 50 che richiama in effetti certe interpretazioni grafiche con i pilastri e i piani pensili. 16. Ibid., p. 46. 17. In Clayton e Price, cit., p. 42. Nondimeno G. Pettinato ritiene che non ci sia motivo di pensare che i Giardini Pensili siano realmente esistiti e costruiti da Nebuchadrezzar: Pettinato, cit., pp. 380 ss. 18. Vedi per confronto l’elenco di Romer, cit., p. 163. Le traduzioni di questi elenchi restano sempre problematiche per il riconoscimento di una specie vegetale. 114 La Grande Piramide 1. Erodoto dedica tutto il libro II all’Egitto, esplorando usi, costumi, riti e cerimonie, mitologia, ma anche minuzie della vita quotidiana, come proteggersi dalle zanzare o allevare i gatti, e in più descrive il folklore locale. Dichiara che le sue fonti sono stati soprattutto i sacerdoti dei grandi templi custodi di tradizioni millenarie. Noi facciamo riferimento all’edizione della Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1988, con testo, introduzione e commento a cura di Alan B. Lloyd. Le fonti egiziane sono molto numerose e le citeremo solo in caso di diretti riferimenti. Quanto a Manetone abbiamo fatto riferimento all’edizione Loeb e al testo con traduzione a fronte di W.G. Liddel, London 1940. 2. Chioffi e Ripamonti, 2008, vol. II, I racconti di Cheope, pp. 229 ss. 3. La descrizione di queste strutture si basa prevalentemente sulla rigorosa analisi di Cimmino, 1990, pp. 146-75. 4. Vedi anche Clayton in Clayton e Price, 2003, p. 30. 5. Vedi quarta figura nell’inserto in Cimmino, cit. 6. Flinders Petrie, 1883, p. 197. 7. Cimmino, cit., p. 147. 8. Clayton, cit., pp. 21-22. 9. Ibid., pp. 22 ss. Una serie di proposte interessanti e sensate. 10. Mendelsson, in Clayton e Price, cit., p. 179. 11. Vedi, in generale e con ampia documentazione iconografica, Schiltz, 1991, e trad. it. 1995. 115 Lo Zeus di Fidia a Olimpia 1. Per una panoramica prevalentemente descrittiva su questo genere di immagini vedi EAA, s.v. “Crisoelefantina, tecnica”. 2. Canaco aveva creato anche un’altra statua crisoelefantina di Afrodite a Sicione: “L’Afrodite è in oro e avorio, porta sulla testa un polos e ha in una mano un papavero, nell’altra un pomo” (Paus., II, 10, 5). È interessante notare che la dea porta il polos come l’Artemide efesia. 3. Riprodotta in EAA, s.v. “Atene”, vol. I, p. 804, fig. 1008. 4. Grifoni secondo Pausania (I, 24, 5). 5. Pausania dice che il pennacchio dell’elmo e la punta della lancia si vedevano dal Pireo. 6. Cfr. Price, 1988, p. 68. 7. Cfr. Papini, 2014, e ivi bibliografia relativa allo scavo del Deutsches Archäologisches Institut, 1958. 8. Price, cit., p. 67, figg. 19 e 20. 9. Ibid., fig. 21. 10. Vedi Pausanias, Description of Greece, LCL, libro V, p. 439, nota 1. 11. Clemente Alessandrino (Clem. Al., Protr., IV, p. 47) gioca sul doppio senso: Pantarke infatti significa letteralmente “Onnipotente”, ma non si riferiva a Zeus nel senso di “l’Onnipotente (Zeus) è bello” bensì all’amato di Fidia (che aveva quel nome). 12. Questa fu l’impressione degli studiosi appena la testa fu ricomposta. L’assoluta perfezione e nobiltà dei lineamenti e lo stile inconfondibile di Fidia lasciano pochi dubbi che questa sia la riproduzione più prossima al volto del dio olimpico. Vedi Bonacasa e Ensoli (a cura di), 2000, pp. 137-38 e fig. a p. 190. 13. Sullo Zeus nel palazzo di Lauso vedi Giorgio Cedreno, Hist. Comp., 1647, p. 322B, vol. I. Di Lauso sappiamo inoltre che fu il committente della Storia Lausiaca di Palladio di Galazia sulle vite degli eremiti. 116 Il Colosso di Rodi 1. De septem orbis spectaculis è il titolo che ci è pervenuto dell’opera di Filone di Bisanzio e l’elenco include il Colosso di Rodi. Il racconto inizia con un tono molto enfatico per poi dedicarsi invece a una descrizione tecnica che si può considerare interessante per la comprensione del monumento. 2. Gli idoli aniconici sono quasi sempre antichissimi. Nei santuari molto antichi che giungono fino al Paleolitico si vedono pietre vagamente antropomorfe o zoomorfe essere oggetto di culto ma ciò è riscontrabile anche in tempi storici. Nel tempio di Afrodite a Paphos l’immagine della dea era aniconica e a forma di spirale. 3. Vedi Higgins, 1988, p. 122, e in particolare, per il significato della parola kolòssos, Benveniste, 1932, p. 118. 4. Così Guidoboni, 1994, p. 140: “This is the disastrous earthquake which caused the famous colossus of Rhodes to collapse”. 5. Romer, trad. it. 1998, p. 53, opta per la fortezza di San Nicola all’imbocco del porto. 6. In realtà non abbiamo una sola prova che la testa del Colosso fosse radiata, ma la cosa è verosimile dal momento che rappresentava Helios, il Sole, protettore dell’isola. 7. Vedi, sul prodigio dei colossi di Memnone, Bowersock, 1984, pp. 21-33. 8. L’episodio avvenne durante le guerre dei Diadochi e degli Epigoni, quando Rodi era ricchissima, indipendente e divenne una sorta di provocazione per l’imperialismo suo e di suo padre Antigono Monoftalmo. Per gli eventi di quell’anno e per il ruolo di Rodi nell’epoca, vedi CAH, vol. V, trad. it., pp. 430 ss. 9. Lane Fox, 1986 (terza edizione), p. 191: “Diades the Greek … in a work on technical engineering … is later described as the man who besieged Tyre with Alexander. The fall of the city perhaps owned more to the drawingboard than will ever been known”. 10. Plinio oppone qui i colossi realizzati in Italia a quelli greci: vedi le note 1-3 a XXXIV, 43, in Plinio, Torino 1988, p. 157. 11. Grosse pietre erano ancora visibili all’interno del Colosso caduto e spezzato ai tempi di Plinio (NH, XXXIV, 18, 41): “All’interno si possono vedere pietre di dimensioni enormi che Carete aveva usato per dare stabilità alla statua mentre la costruiva”. 12. Diversamente da Higgins, cit., p. 124. 13. Vedi Maryon, 1956, fig. 10, p. 71. 14. Higgins, cit., p. 124, propende, con maggiore verosimiglianza, per interpretare la figura come quella di un atleta vittorioso che si pone sul capo la corona della vittoria. 117 15. Vedi fig. 10, p. 81. Ma, in fig. 3, p. 72, dove la sagoma disegnata del Colosso è chiaramente ispirata al bassorilievo di cui in n. 15 in quanto regge il mantello con il braccio sinistro, si rappresenta tuttavia il Colosso con il braccio destro ripiegato ma in atto di pararsi gli occhi dalla luce. Il che appare bizzarro visto che la statua rappresentava la fonte stessa della luce, il Sole. 16. Probabilmente perché, a partire da una certa quota, solidali con il torso. 17.Maryon, cit., pp. 68-86. 18. L’immagine sul recto dei tetradracmi d’argento del British Museum ha la testa raggiata. Vedi Maryon, cit., fig. 4, p. 73. 19. Higgins, cit., pp. 127-28. 118 Il Mausoleo di Alicarnasso 1. Lucano, Pharsalia, VIII, 697; la tomba di Alessandro viene rappresentata qui come un sacratum antrum (ibid., 694), e anche più avanti (X, 19), come un effossum antrum, nel quale Giulio Cesare discese con trepidazione per rendere omaggio al grande sovrano. 2. Di questa prima sepoltura danno notizia Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, X, 10, 10, e Pausania, Periegesi della Grecia, I, 6, 3, e inoltre un breve passo del Marmor Parium, un’iscrizione che riporta la cronologia degli eventi della storia dei Greci dal mitico re Cercope fino a circa la metà del III secolo a.C. Stando a questa iscrizione, in una data corrispondente al 321-320 a.C. “Alessandro fu collocato a Menfi…”. Per ulteriori osservazioni e bibliografia, si rimanda a Manfredi, 2009. 3. Strabone, Geografia, XVII, 1, 8; Zenobio, Proverbi, III, 94; soprattutto Achille Tazio, Le avventure di Leucippe e Clitofonte, V, 13. 4. Uno scavo su larga scala di quest’area della città è stato eseguito all’inizio degli anni Sessanta dello scorso secolo dalla missione polacca diretta da K. Michalowski, per i cui primi rendiconti vedi Michalowski, 1966 e Kubiak, 1966. 5. Vitruvio, De architectura, II, 8, 11. 6. Vedi Newton, 1862. 7. Vedi Aerias, 1961. 8. Vedi Buschor, 1950. 9. J. e E. Romer, 1989, p. 112. 10. Vedi Vlad Borrelli, 1959. 11. Sulla collocazione di tutte le statue del Mausoleo, vedi Waywell, 1988, pp. 113-14, il quale ipotizza per le statue di Mausolo e Artemisia una posizione fra le colonne del peristilio, pur riconoscendo l’inesistenza di prove a conferma della sua ipotesi. Vedi anche Waywell, 1978. 12. Luciano, Dialoghi dei morti, 24, fa dire a Mausolo: “Sono alto, bello e forte”. 13. Vedi Gros (a cura di), Vitruvio, 1997, nota 98 a II 8, 11, vol. I, pp. 200-203. 14. Vitruvio, De architectura, II, 8, 1: “… platea ampla facta, in qua media Mausoleum ita egregiis operibus est factum ut in septem spectaculis nominetur”. È questo uno dei primi casi in cui il termine latino platea acquisisce il significato di piazza, slargo, distanziandosi dal greco platèia che indica una via ampia: vedi Gros (a cura di), Vitruvio, cit., ibid., in part. p. 200. 15. Vedi Waywell, 1989, p. 109. 16. Alla descrizione di Vitruvio attinge senz’altro Plinio, il quale, come Vitruvio, riferisce di lastre di marmo di Proconneso che ricoprivano le pareti della reggia costruite in laterizio (NH, XXXVI, 47). 17. Waywell, 1989, p. 115. 119 18. In particolare sulle scene di Amazzonomachia, vedi Keuls, 1993, pp. 44 ss. e passim, con relativa iconografia. 19. Vedi Gros (a cura di), Vitruvio, cit., nota 98 a II 8, 11, vol. I, in part. p. 201. 20. Cfr. Waywell, 1989, pp. 109-10. 21. Per una ricostruzione del Mausoleo fondata, insieme ai risultati dello scavo, sull’interpretazione del passo di Plinio (NH, XXXVI, 30-31), è considerato fondamentale Jeppesen 1986, pp. 13-113, le cui ipotesi hanno tuttavia suscitato perplessità soprattutto in alcune proposte di misure: vedi Conte (a cura di), Plinio, 1982-1988, nota 2 a XXXVI 30, vol. V, in part. p. 567. 22. Waywell, 1989, pp. 100-101. 23. Per questa straordinaria scoperta, vedi Andronikos, 1978, e inoltre Andronikos, 1977 e Andronikos, 1981. 24. Vedi Waywell, 1989, p. 104. 120 L’Artemision di Efeso 1. Vedi AA.VV., 1994, nr. 59, la dea con il grande serpente, medio minoico periodo III, Museo di Herakleion, cat. 66 e nr. 60, la dea dei serpenti cat. 63. Figure con animali (serpenti) sono spesso associate alle Menadi che frequentano i boschi. 2. Vedi Berti e Gasparri (a cura di), 1989 (Dionysos. Mito e Mistero), fig. 39; Boardman, 1997, Athenian Red Figure Vases, The Archaic Period, fig. 207, e inoltre l’ansa del cratere François che rappresenta Artemide come potnia theròn mentre tiene per il collo un cervo e una pantera. A volte l’iconografia stessa della dea include figure di animali di ogni genere. Anche un leoncino sulle braccia, (EAA, s.v. “Artemide”, p. 694), elemento iconografico identico a quello della Menade di fig. 39, Boardman, cit. Anche la dea Cibele, pure di provenienza asiatica, è sempre rappresentata assieme a fiere. Vedi la trattazione mitologica in Burkert, 1982, pp. 99 ss. 3. Vedi le prime relazioni di scavo in Wood, 1877. 4. A Wood fa seguito Hogarth, 1908, che riesce a documentare una continuità di culto molto ampia. Va ricordato che Efeso era una delle più antiche fondazioni coloniarie della Ionia, legata all’arrivo mitico delle Amazzoni, ma che la tradizione faceva comunque risalire all’XI secolo in epoca sub micenea con attribuzione all’eroe eponimo che l’avrebbe fondata. Sulla collina dietro il teatro sono state trovate tracce di un santuario antichissimo. 5. Vedi Trell, in Clayton e Price, 1988, p. 68. 6. Basti pensare alle tholoi di Sant’Angelo Muxaro, che hanno condotto a identificarla con la mitica Kamikos, sede del re Sicano Kokalos che avrebbe dato ricetto a Dedalo fuggiasco dal labirinto di Minosse. La vicina Heraklea Minoa rinsaldò la convinzione di un aggancio alla tradizione mitologica. Alcuni elementi di corredo l’hanno riconfermata. Cfr. Orsi, 1932, fig. 3. 7. Vedi Coulton e Catling, 1993 per la seconda fase, in generale le pagine dedicate all’argomento in Lippolis, Livadiotti e Rocco, 2007, e Stierlin, 1998, p. 42 per il grafico complessivo delle tre fasi successive a partire da una struttura absidata con pareti di argilla e paglia. 8. L’iscrizione è pubblicata e integrata da Smith, 1928: βα[σιλεύσ] Κρ[οίσοσ] ανε[θεκ]εν, “Lo innalzò il re Creso”. 9. Vedi in EAA, s.v. “Efeso”, grafico della pianta dell’Artemisio, p. 222. Cfr. anche Trell, 1988, in Clayton e Price, 1988, p. 77, fig. 24. 10. Vedi G.B. Conte (a cura di), Torino 1988, vol. V, nota 2, pp. 651-53. 11. Evidenziate graficamente in Stierlin, cit., p. 49. 12. Vedi EAA, s.v. “Efeso”, p. 222, fig. 275. 13. Ancora in EAA, s.v. “Artemide”. Cfr. inoltre Trell, cit., in Clayton e Price, cit., p. 77 rievoca i grandi scavi di Wood assolutamente pionieristici e che 121 precedettero addirittura quelli di Schliemann. La pianta del tempio riportata nel testo fa riferimento alle centoventisette colonne menzionate da Plinio, che gli archeologi hanno dovuto posizionare in maniera logica e accettabile. Romer, 1995, p. 175, riproduce direttamente il diario di esplorazione e di scavo di Wood che, con straordinaria determinazione e ostinazione, seppe fronteggiare ogni difficoltà fino a localizzare il fantomatico Artemision. 14. Trell, 1988, cit. riporta dell’altare una ricostruzione grafica, in Clayton e Price, cit., p. 77, fig. 24. 15. Si vedano inoltre l’esemplare del Museo dei Conservatori in EAA, s.v. “Artemide”, p. 692, fig. 888, e quello del Museo Archeologico di Napoli, le sculture antiche della collezione Farnese, n. 115, la statuetta della collezione universitaria bolognese, dove al posto del polos c’è una corona di torri, forse a significare la protezione della dea sulla città di Efeso. Nella stessa figura 24, (cfr. supra, nota 14) B.L. Trell (cit.) disegna anche la finestrella attraverso la quale si poteva intravvedere la statua della dea. In un passo dell’Anabasi (V, 3), Senofonte riferisce di aver edificato, in un suo podere a Scillunte, un tempietto, una sorta di Artemision in scala ridotta, come ex voto della sua avventura e dei tanti pericoli scampati. Dice anche che nel tempietto aveva messo uno xoanon di cipresso che somigliava all’Artemide efesina che però era d’oro (χρυσω), intendendo con questo probabilmente riferirsi alle ricche vesti di cui era quasi del tutto coperto il simulacro della dea che era uno xoanon di ebano. 16. Trell, cit., apre il suo capitolo sull’Artemision (p. 75) proprio citando le amare parole con cui E. Gibbon descrisse lo scempio del santuario efesino perpetrato dai Goti. 122 Il Faro di Alessandria 1. Vedi Bosio, 1983, per una descrizione completa della Tabula, e inoltre i più recenti Prontera, 2003 e Talbert, 2010. La mappa, che consiste nell’unione di undici pergamene, per una lunghezza totale di quasi 7 metri, ed è attualmente conservata a Vienna nella Österreichische Nationalbibliothek (Codex Vindobonensis 324, datato al XIII secolo), prende il nome dal suo secondo proprietario, l’umanista tedesco Konrad Peutinger. 2. La carta è con ogni probabilità il risultato di una stesura progressiva, quasi a blocchi, che si è protratta forse attraverso un arco di tempo considerevole come indurrebbero a ritenere alcuni indizi, quali per esempio la rappresentazione della città di Pompei, che dopo l’eruzione del 79 d.C. non fu più ricostruita, e quella di Costantinopoli, fondata nel 328 d.C. Tuttavia, si tende a collocare il momento redazionale più importante e definitivo tra il 365 e il 366 d.C., osservando la rappresentazione personificata di sole tre città, Roma, Costantinopoli e Antiochia, che proprio in quegli anni furono contemporaneamente capitali dell’Impero. 3. Ne è un esempio la corrispondenza tra Archimede e Dositeo, matematico alessandrino, al quale Archimede, rientrato a Siracusa dopo un proficuo periodo di studi ad Alessandria, indirizza alcune tra le sue opere più importanti scritte proprio di ritorno da quel soggiorno durato circa tre anni, accompagnandole con epistole rivolte all’amico, come i trattati sulla sfera e il cilindro, su conoidi e sferoidi, sulle spirali e sulla quadratura della parabola: vedi Reviel Netz, 2007, pp. 65-66. 4. Conosciamo il corobate solo attraverso la descrizione che ne fa Vitruvio in una sezione del libro sugli acquedotti (De architectura, VIII, 5, 1-3): si trattava di uno strumento utilizzato nel livellamento dei canali e delle condotte idriche, considerato più preciso della livella ad acqua. Era costituito da un regolo alle cui estremità erano fissati dei sostegni: al di sotto dei sostegni erano due traverse con linee tracciate per indicare la perpendicolarità, mentre appesi al regolo vi erano due o quattro fili di piombo che indicavano sulle linee delle traverse la posizione orizzontale. Se le informazioni di Vitruvio sono esatte, il corobate doveva avere la lunghezza di 20 piedi, cioè circa 6 metri, una dimensione considerevole che lo rendeva non facile da maneggiare: vedi Adam, 1982, pp. 1025 ss. 5. White, 1984, p. 15, fig. 3 e p. 80, figg. 72, 73, 74. 6. Vedi Lane Fox, 2004, p. 191. 7. Vedi Russo, 2001, p. 144; Clayton e Price, 1989, p. 140, riportano un’altezza di 60 metri per il primo piano, di 30 per il secondo e di 15 fino alla punta del tridente (o dello scettro) della statua di Zeus Soter, che, nella sua interpretazione, coronava il terzo piano, per complessivi 105 metri. Tra le 123 molte “letture” del monumento enorme fortuna ha avuto Thiersch, 1909, che raccolse e analizzò tutte le notizie sul Faro di Alessandria disponibili al suo tempo provenienti da diverse tipologie di fonti (letterarie, archeologiche, iconografiche, numismatiche), e propose tentativi di ricostruzione che ebbero anche influenza sull’architettura moderna degli anni Venti e Trenta del Novecento: cfr. J. e R. Romer, 1989, p. 93. 8. Vedi Russo, cit., nn. 83-84, p. 144. 9. È Fraser, 1972, riportato in Clayton e Price, 1989, p. 137, che riconosce Sostrato quale finanziatore, anche sulla scorta di Strabone che riferisce la dedica scritta sul Faro: “Sostrato di Cnido, amico dei sovrani, ha dedicato questo edificio per la sicurezza dei naviganti” (Geografia, XVII, 1, 6). 10. In Empereur, 2004, p. 84. 11. Sulle ipotesi di identificazione della statua, o delle diverse statue che nel corso dei secoli furono collocate alla sommità del faro, cfr. J. e E. Romer, 1989, p. 92. 12. Rerum gestarum libri, 26, 10, 15-19. Ammiano Marcellino, unico testimone per noi dello tsunami che si scatenò poco dopo l’alba del 21 luglio 365 d.C., ebbe esperienza diretta del terribile evento. Sulla sua intensa descrizione, cfr. Gavin, 2004. 13. Vedi J. e E. Romer, 1989, pp. 96-97. 14. Vedi le osservazioni di Russo, 2001, pp. 144-46. 15. Sulla nave di Marsala e sul significato dei segni alfabetici riscontrati sul suo fasciame vedi Medas, 2000, pp. 169-84. I segni rappresenterebbero i riferimenti per una sorta di montaggio in serie che spiegherebbe la capacità dei Cartaginesi di approntare intere flotte in pochi mesi. 16. In proposito vedi Manfredi, 1993, in particolare il commento a Diodoro, V, 19-20, e p. 54 per quanto concerne la preoccupazione cartaginese di non avere concorrenti sulle rotte atlantiche, e ancora sull’isola nell’Oceano con fiumi navigabili e abbondanza di frutti, vedi il commento a Pseudo Aristotele, De Mirabilibus, pp. 73 ss. Sull’argomento è tornato di recente Russo, 2013 sul presupposto di una rilettura delle misurazioni tolemaiche della Terra. Vedi capp. 6-8. 17. Sulla corrispondenza tra Archimede e Dositeo, vedi supra, nota 3. L’esistenza di un trattato di catottrica scritto da Archimede è testimoniata da Teone, nel Commento al I libro dell’Almagesto (vedi Theon, 1936, pp. 347-49), e da Apuleio (Apologia, XVI), che, tra gli argomenti affrontati dallo scienziato di Siracusa, annovera particolari specchi dotati di questa caratteristica. Sulla catottrica, vedi Russo, 2001, pp. 82-90. 18. Vedi Russo, cit., n. 13, p. 144 e Fraser, 1972, vol. II, p. 46, che riporta una rassegna delle fonti arabe sul Faro. Vedi anche Empereur, 2004, p. 87. 19. Vedi J. e E. Romer, 1989, pp. 94-96. 20. Vedi Conte (a cura di), Plinio, 1982-1988, vol. V, p. 637, n. 1. 124 21. Vedi Tresso (a cura di), Ibn Battuta, 2006, p. 18 e inoltre n.1. Ibn Battuta afferma di aver visitato il Faro e di aver visto solo un “edificio quadrato che si staglia contro il cielo”, il che farebbe pensare che il piano ottagonale e quello cilindrico fossero crollati. L’edificio era tuttavia frequentato quotidianamente e la passerella di tavole di legno era ritirata probabilmente ogni notte così che non vi potesse entrare nessuno. 125 Bibliografia essenziale AA.VV., Artifex, catalogo della mostra, Madrid 2002. J.P. Adam, L’arte di costruire presso i Romani: materiali e tecniche, Milano 1998. P.E. Aerias, s.v. “Leochares”, in Enciclopedia dell’Arte Antica, vol. IV, Roma 1961. M. Andronikos, Vergina. The Royal Tombs and the Ancient City, Athens 1977. M. Andronikos, The Royal Graves at Vergina, Athens 1978. E. Benveniste, A propos du Kolossos, in “Rev. Philolog.”, 3, serie 6, 1932. F. Berti – C. Gasparri (a cura di), Dionysos. Mito e Mistero, Catalogo della mostra, Bologna 1989. J. 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(Foto © North Wind Picture Archives/Alamy/IPA) 133 La Grande Piramide La Grande Piramide, particolare dell’incisione di Johann Fischer von Erlach, 1700. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images) 134 Cheope, statuetta d’avorio trovata ad Abido. (Il Cairo, Museo Egizio/Foto © DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze) 135 Giza, la Grande Piramide. (Foto © 2014 DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze) 136 Sezione della Grande Piramide in una incisione del XIX secolo: 1) camera mortuaria; 2) camera della regina; 3) camera rimasta incompleta; 4) entrata; 5) grande galleria. (Foto © Science Photo Library/Contrasto) 137 Passaggio dalla seconda alla terza galleria nella Grande Piramide in un acquerello di Luigi Mayer, 1821. (Parigi, Bibliothèque des Arts Decoratifs/Foto © The Art Archive/Bibliothèque des Arts Decoratifs/Dagli Orti/Mondadori Portfolio) 138 La sfinge e la Grande Piramide in una foto del 1865. (Foto © Print Collection/Getty Images) 139 Lo Zeus di Fidia a Olimpia Ricostruzione della statua di Zeus a Olimpia, incisione di Johann Fischer von Erlach, 1700. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images) 140 Frontone orientale del tempio di Zeus a Olimpia raffigurante la corsa con i carri tra Pelope ed Enomao presieduta da Zeus al centro. (Olimpia, Museo Archeologico/Foto © Tarker/Bridgeman Images/Mondadori Portfolio) 141 Particolari del frontone orientale. (Olimpia, Museo Archeologico/Foto © AKG Images/Mondadori Portfolio) 142 Particolari del frontone occidentale. (Olimpia, Museo Archeologico/Foto © John Hios/AKG Images/Mondadori Portfolio) 143 Frontone occidentale del tempio di Zeus raffigurante il combattimento fra i Lapiti e i Centauri alle nozze di Piritoo presiedute dalla figura centrale di Apollo. (Olimpia, Museo Archeologico/Foto © Tarker/Bridgeman Images/Mondadori Portfolio) 144 Testa di uomo (forse Apollo) in pietra e oro. (Delfi, Museo Archeologico/Foto © 2014 DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze) 145 Testa di Artemide con diadema e orecchini in oro. (Delfi, Museo Archeologico/Foto © 2014 DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze) 146 Placchetta in avorio e oro raffigurante una leonessa che azzanna giovane etiope alla gola. (Baghdad, Iraq Museum/© 2014 Foto Scala, Firenze) 147 Testa policroma di marmo pentelico rinvenuta durante gli scavi del tempio di Zeus, forse raffigurante lo Zeus di Olimpia. (Cirene, Museo Archeologico/Foto © Araldo De Luca) 148 Testa policroma di marmo pentelico rinvenuta durante gli scavi del tempio di Zeus, forse raffigurante lo Zeus di Olimpia. (Cirene, Museo Archeologico/Foto © Araldo De Luca) 149 Il Colosso di Rodi Ricostruzione del Colosso di Rodi, incisione di Johann Fischer von Erlach, 1700. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images) 150 Diritto di tetradramma d’argento di Rodi con la testa di Elio raggiata. (Londra, British Museum/Foto © The Trustees of the British Museum c/o Scala, Firenze) 151 Athena Parthenos, copia del II secolo d.C. della celebre Atena crisoelefantina di Fidia. (Atene, Museo Archeologico Nazionale/Foto © 2014 Marie Mauzy/Scala, Firenze) 152 Il Colosso di Rodi in un dipinto di Louis de Caullery (XVI sec.) (Parigi, Louvre/Foto © Mondadori Portfolio/Leemage) 153 Il Mausoleo di Alicarnasso Ricostruzione del Mausoleo di Alicarnasso, incisione di Ferdinand Knab (XIX sec.). (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images) 154 Alcuni fregi in marmo provenienti dal Mausoleo raffiguranti scene di Amazzonomachia. (Londra, British Museum/Foto © Bridgeman Images/Mondadori Portfolio - Foto © 2014 The Trustees of the British Museum c/o Scala, Firenze - Foto Bridgeman Images/Mondadori Portfolio) 155 A sinistra, statua colossale di uomo spesso identificato con Mausolo e, a destra, ritratto cosiddetto di Artemisia, provenienti dal Mausoleo. (Londra, British Museum/Foto © 2014 The Trustees of the British Museum c/o Scala, Firenze) 156 Ricostruzione del Mausoleo, incisione di Oskar Mothes, 1890 ca. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images) 157 L’Artemision di Efeso Ricostruzione del Tempio di Artemide, incisione di Johann Fischer von Erlach, 1700. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images) 158 Tamburo di una colonna del Tempio di Artemide raffigurante Hermes nella sua veste di psicopompo. (Londra, British Museum/Foto © The Trustees of the British Museum c/o Scala, Firenze) 159 Particolare con genio alato dello stesso tamburo della figura precedente. (Londra, British Museum/Foto © 2014 The Trustees of the British Museum c/o Scala, Firenze) 160 Copia romana del Pothos di Skopas che richiama il volto del genio alato. (Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini © Archivio Fotografico dei Musei Capitolini) 161 Copia romana della statua cultuale di Artemide venerata nel tempio di Efeso. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale/Foto © 2014 Scala, Firenze su concessione MIBAC) 162 Copia romana di Amazzone ferita, opera di Cresilas. (Berlino, Staatliche Museen Antikensammlung Foto © E. Lessing/Contrasto) 163 Piante di edifici arcaici del sito di Lefkandi (Eubea) in successione cronologica rappresentano lo sviluppo del tempio greco dal IX al VII secolo a.C. (Disegno di © Alberto Berengo Gardin) 164 La predicazione di san Paolo a Efeso in un dipinto di Eustache Le Sueur (1649). (Parigi, Louvre/Foto Bridgeman Images/Mondadori Portfolio) 165 Il Faro di Alessandria Ricostruzione del Faro di Alessandria, incisione di Johann Fischer von Erlach, 1700. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images) 166 Modello del Faro realizzato da un artigiano egiziano sulle ricostruzioni grafiche di Hermann Thiersch all’inizio del XX secolo. (Foto © Alain Lecler) 167 Acquerello di Jean-Claude Golvin che raffigura Alessandria vista da sud. (© Jean-Claude Golvin) 168 Due immagini degli scavi subacquei sotto il Faro di Alessandria condotti da archeologi sommozzatori dell’equipe di Jean-Yves Empereur. (Foto © Stephane Compoint) 169 Alcuni esempi di raffigurazioni di faro nell’antichità: particolare di un sarcofago paleocristiano del III secolo d.C. (Roma, Museo della Civiltà Romana, sotto Ostia antica, Piazzale delle Corporazioni) 170 Alcuni esempi di raffigurazioni di faro nell’antichità: mosaico a Ostia antica, piazzale delle Corporazioni. (Roma, Museo della Civiltà Romana, sotto Ostia antica, Piazzale delle Corporazioni) 171 Tetradramma dell’imperatore Commodo con la raffigurazione del Faro di Alessandria (II sec. d.C.). (Foto © Mondadori Portfolio/Leemage) 172 Particolare del mosaico in San Marco a Venezia con l’arrivo dell’apostolo al porto di Alessandria (Venezia, Basilica di San Marco/Foto © AKG Images/Cameraphoto/Mondadori Portfolio) 173 Lampade in terracotta a forma di faro realizzate per Tolemeo II (III sec. a.C.). (Alessandria d’Egitto, Museo Greco Romano/Foto © 2014 DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze) 174 La favolosa ipotesi di un’ottava meraviglia 175 Il mausoleo del re Antioco di Commagene Le teste colossali degli dei al tramonto sulla terrazza occidentale del Nemrut Dagi, e testa gigantesca di leone. (Foto © Alamy/IPA) 176 Le teste colossali degli dei al tramonto sulla terrazza occidentale del Nemrut Dagi, e testa gigantesca di leone. (Foto © Alamy/IPA) 177 Teste colossali giacciono fra le rovine della terrazza occidentale del Nemrut Dagi, la tomba santuario del re Antioco di Commagene. (Foto © C. Hellier/Corbis) 178 Altri rilievi della terrazza occidentale. (Foto © Jane Sweeney/JAI/Corbis) 179 Veduta parziale della terrazza orientale, alle spalle dei colossi la vetta a forma di tumulo fatto di breccia e scaglie di roccia. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images) 180 Suggestiva veduta parziale della terrazza occidentale con la neve. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images) 181 Frammenti di rilievi, un leone colossale e torso d’aquila. (Foto © Mondadori Portfolio/AKG Images) 182 Rilievi della terrazza occidentale fra cui spicca il famoso “leone astrale”, considerato uno dei più antichi oroscopi del mondo. (Foto © Alamy/IPA e Mondadori Portfolio/AKG Images) 183 Rilievi della terrazza occidentale fra cui spicca il famoso “leone astrale”, considerato uno dei più antichi oroscopi del mondo. (Foto © Alamy/IPA e Mondadori Portfolio/AKG Images) 184 Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.librimondadori.it www.valeriomassimomanfredi.it Le meraviglie del mondo antico di Valerio Massimo Manfredi © 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano L’Editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti di alcune immagini senza riuscire a reperirli; è ovviamente a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei loro confronti. Ebook ISBN 9788852058813 COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER: FRANCESCO BOTTI | ILLUSTRAZIONE DI DIANA MANFREDI «L’AUTORE» || FOTO © ENRICO VALLIN/PHOTOMOVIE 185