Un epitalamio “diabolico” (Seneca, Medea, 1-55) Il prologo della tragedia Medea composta da Seneca si presenta sotto una forma “inquietante” per il lettore-spettatore. Il contesto presupposto dal prologo risente di eventi anteriori alla situazione contingente e diverrà noto solo in un secondo momento: per adesso la scena è occupata soltanto dall’eroina, che denuncia la bruciante umiliazione che sta per subire per colpa dell’ingrato Giasone e della spietata casa regale di Corinto. Proprio a Corinto Giasone e Medea si sono rifugiati dopo la fuga dalla Colchide e qui ormai si sta compiendo una nuova fase della loro relazione. Giasone infatti è in procinto di sposare Creusa, figlia del re Creonte; Medea, al contrario, dovrà abbandonare la reggia e andare in esilio, rinunciando non solo a suo marito ma anche ai figli, destinati a rimanere a Corinto con il padre e ad avere pertanto come matrigna la novella sposa di Giasone. Rispetto al precedente euripideo, il prologo senecano riserva a Medea l’assolo d’apertura, funzionale in questo caso non tanto a presentare l’antefatto, quanto a far intendere in anticipo il susseguirsi dei truci pensieri di Medea e le sue ansie di vendetta. Euripide aveva lasciato al contrario che fosse la nutrice a riassumere i fatti precedenti e a informare sulla condizione di Medea; in seguito la nutrice aveva trovato nel pedagogo un interlocutore a cui trasmettere le sue preoccupazioni circa le tragiche intenzioni dell’eroina; infine in scena comparivano Medea, la nutrice e il coro per dare agli spettatori una diversa interpretazione di quanto stava succedendo. Euripide aveva escogitato un modo per consentire di vedere come gli eventi potessero apparire diversi a seconda dell’ottica con cui li si guardava. MEDEA Di coniugales tuque genialis tori, Lucina, custos quaeque domituram freta Tiphyn novam frenare docuisti ratem, et tu, profundi saeve dominator maris, clarumque Titan dividens orbi diem, tacitisque praebens conscium sacris iubar Hecate triformis, quosque iuravit mihi deos lason, quosque Medeae magis fas est precari: noctis aeternae Chaos, aversa superis regna manesque impios dominumque regni tristis et dominam fide meliore raptam, voce non fausta precor. Nunc, nunc adeste, sceleris ultrices deae, crinem solutis squalidae serpentibus, atram cruentis manibus amplexae facem, adeste, thalamis horridae quondam meis quales stetistis: coniugi letum novae letumque socero et regiae stirpi date mihi peius aliquid, quod precer sponso malum: vivat, per urbes erret ignotas egens, exul, pavens, invisus, incerti laris; iam notus hospes limen alienum expetat, me coniugem optet quoque non aliud queam peius precari, liberos similes patri similesque matri - parta iam, parta ultio est: peperi - querelas verbaque in cassum sero? non ibo in hostes? manibus excutiam faces 5 10 15 20 25 1 caeloque lucem - spectat hoc nostri sator Sol generis, et spectatur, et curru insidens per solita puri spatia decurrit poli? Non redit in ortus et remetitur diem? Da, da per auras curribus patriis vehi, committe habenas, genitor, et flagrantibus ignifera loris tribue moderari iuga: gemino Corinthos litori opponens moras cremata flammis maria committat duo . Hoc restat unum, pronubam thalamo feram ut ipsa pinum postque sacrificas preces caedam dicatis victimas altaribus. Per viscera ipsa quaere supplicio viam, si vivis, anime, si quid antiqui tibi remanet vigoris; pelle femineos metus et inhospitalem Caucasum mente indue: quodcumque vidit Pontus aut Phasis nefas, videbit Isthmos. Effera, ignota, horrida, tremenda caelo pariter ac terris mala mens intus agitat: vulnera et caedem et vagum funus per artus - levia memoravi nimis, haec virgo feci; gravior exurgat dolor, maiora iam me scelera post partus decent: accingere, ira, teque in exitium para furore toto. Paria narrentur tua repudia thalamis: quo virum linques modo? Hoc quo secuta es. Rumpe iam segnes moras: quae scelere parta est, scelere linquenda est domus. 30 35 40 45 50 MEDEA Dèi che sovrintendete al matrimonio; tu, Lucina, custode del letto coniugale; tu [Minerva], che insegnasti a Tifi come tenere a freno la nave [degli Argonauti] destinata a domare le onde del mare e di un tipo mai prima visto; tu, signore crudele del mare profondo [Nettuno]; [5] tu, Titano, che ripartisci [ai due emisferi della terra] la luce splendente del giorno; tu, Ecate dai tre aspetti, che offri l'astro tuo [la Luna] consapevole a quelle sacre cerimonie in cui non bisogna parlare; voi dèi, in nome dei quali Giasone mi prestò giuramento e che più si addice a Medea di pregare: oltretomba della notte eterna, [10] regni che voltate le spalle a quelli del cielo; Mani che non provate misericordia; tu [Plutone], signore del regno cupo, tu [Proserpina] signora, che fosti rapita con promesse di fedeltà più vere [di quelle che toccarono a me]: io prego voi con voce che non presagisce buon augurio. Ora, ora statemi accanto, dee vendicatrici del delitto [Furie], spettinate nei capelli costituiti da serpenti in libertà, [15] stringendo la fiaccola nera con mani bagnate di sangue, statemi accanto, come un tempo ispide vi ergeste accanto al mio letto nuziale: consegnate alla morte la moglie nuova [Creusa], alla morte il suocero suo [Creonte, di Giasone] e la loro regale figliolanza - a me [concedete] un male maggiore da augurare al promesso sposo; [20] continui a vivere, vada come vagabondo bisognoso per città sconosciute, esule, impaurito, odioso, senza una casa stabile. Se ne vada in cerca della soglia di una casa non sua, come ospite ormai famigerato, e me, lui si auguri di avere come sposa! (null'altro di peggiore io potrei augurargli!) Abbia figli simili al padre loro [25] e alla madre loro - già partorita, già partorita è la mia vendetta: [figli] io [gliene] ho partorito! - Sono [solo] lamentele e parole quelle che io cerco di intrecciare inutilmente? Non muoverò contro i miei nemici? Io strapperò le fiaccole nuziali dalle loro mani e al cielo [provocando un'eclisse] la sua luce - ha la forza di guardare queste cose colui che ha fornito il seme per la nostra stirpe, il Sole, e si lascia a sua volta guardare, saldo sul suo cocchio [30] se ne scende giù per gli abituali spazi del cielo, che non vengono oscurati da nuvole? Non se ne torna verso Oriente e non ripercorre all'indietro il suo viaggio attraverso [la luce del] giorno? Concedimi, concedimi di andare sul cocchio tuo, o mio antenato, attraverso il cielo, affidami le briglie, genitore [della nostra stirpe], con brucianti colpi di sferza lascia che guidi io i cavalli tuoi vomitanti fiamme! [35] Corinto, ostacolo [a che si riuniscano] alla doppia spiaggia del mare, bruciata dalle fiamme unisca i due mari [Ionio, Egeo]! Solo questo ci manca, che la fiac- 2 cola di pino, pronuba del matrimonio, la porti io di persona al loro talamo nuziale e che, dopo le usuali preghiere del sacrificio, uccida vittime sugli altari consacrati! [40] Animo mio, proprio per mezzo e in mezzo alle viscere tu devi cercare la via per [portare loro] il castigo, se pur hai forza vitale, se pur ti resta qualcosa dell'antico vigore; caccia le paure da femmina e rivesti la tua volontà [dei caratteri propri] del Caucaso inospitale: tutto ciò che Ponto e Fasi hanno visto di nefando, [45] lo vedrà l’istmo. Azioni selvagge, sconosciute, orrende (motivi di paura sia per il cielo che per la terra) agita in sé l'animo mio: ferite inflitte, un assassinio, un cadavere che va vagabondo [per il mare] a membro a membro [Absirto] - ma di troppo poco peso sono le azioni che io vado ricordando, è da fanciulla che le ho compiute; più pesante si levi il mio rancore, [50] delitti più gravi ormai mi si addicono, dopo che ho partorito; àrmati, o [mia] ira e preparati a dare morte con l'intero furore tuo: del ripudio da te subìto si parli come di cosa pari alle tue nozze! In che modo lascerai tuo marito? Nello stesso modo in cui l’hai seguìto. Rompi ormai i torpidi indugi: [55] [questa] casa procacciata con il delitto, con il delitto si deve lasciare. [Trad. Giovanni Viansino] Il prologo si apre con l’invocazione agli dèi che presenziano alle nozze (Giove, Giunone, il Genio dello sposo, Venere, Imeneo, Lucina), ma solo apparentemente si tratta di una innocente rievocazione della cerimonia nuziale, poiché subito dopo, con tono amaramente beffardo, l’eroina si rivolge anche agli dèi dell’oltretomba. Al v. 2, sebbene non nominata esplicitamente, è chiamata in causa anche Atena/Minerva, responsabile di aver aiutato gli Argonauti a varare per la prima volta una nave, ossia Argo: con quell’azione Giasone e compagni si erano macchiati di un maledetto nefas, avendo violato le leggi di natura che avevano imposto agli uomini di non varcare spazi, come il mare e il cielo, riservati ad altri esseri animati. Appare subito evidente l’enfasi di cui l’autore carica le parole dell’eroina: l’introduzione alla rappresentazione del proprio tormento si compie nel segno di una solenne invocazione, che si prolunga per 12 versi, per concludersi con un’espressione (voce non fausta precor) che tramite la litote non fausta preannuncia non solo un rovesciamento del normale contenuto di una preghiera, ma addirittura l’adozione di un comportamento e di un linguaggio adeguati al lancio di dirae («maledizioni»). Fa poi seguito l’appello alle sceleris ultrices deae (vv. 13 ss.): l’invocazione alle Furie, raffigurate tramite l’usuale connotato dei serpentelli grondanti dai capelli, introduce al discorso di vendetta di Medea, costellato da macabre predizioni circa il destino di quanti ella ritiene le abbiano fatto del male. Assecondando un leitmotiv tipico degli eroi tragici senecani, Medea prevede che il malum da augurare a Giasone sia ancor più grande e vistoso di quello dei suoi complici: in pratica, l’allusione alla catena di sventure che tormenteranno senza requie l’eroe venuto meno al giuramento era stata impiegata già da Accio (Medea o Argonautae) proprio per Giasone e poteva dunque contare sul riferimento a un precedente di grande solennità. Al v. 23, la spia della sensibilità femminile di Medea, messa duramente alla prova dal tradimento del coniuge, è racchiusa nell’auspicio che Giasone debba essere costretto a tornare da lei; tuttavia si tratta di una mera debolezza prima di riprendere una aggressività simile a quella di un guerriero che va contro i nemici (v. 27 non ibo in hostes?) e così, dopo un fugace intermezzo, l’ira della protagonista torna a montare, infiammata ora dal pensiero che a poca distanza, nella reggia di Corinto, è in corso la cerimonia che sancirà il nuovo matrimonio di Giasone con Creusa. L’introspezione psicologica si appunta sul tumultuoso sovrapporsi di pensieri che sconvolge la mente di Medea: notevole in tal senso l’uso del verbo agito, iterativo di ago (v. 47). Di questo lucido delirio si fa interprete il dettato, che riproduce fedelmente il moltiplicarsi delle imprecazioni di Medea, come in un vano tentativo di appagamento: egens, exul, pavens, invisus, incerti laris (vv. 20-21). Nel processo di lucida follia che la conduce a recuperare la sua identità, Medea è più che mai decisa a riprendere la sua vera maschera, quella di donna barbara e maga. L’eroina medita una ven- 3 detta che dovrà essere persino più atroce dei misfatti perpetrati quando ancora era virgo (v. 49): allora, per ritardare l’inseguimento del padre Eeta (che voleva impedire la fuga della figlia e di Giasone), aveva fatto a pezzi il corpo di suo fratello Absirto, portato con sé come ostaggio. Analisi dell’interiorità e tendenza ad una magniloquenza quasi “declamatoria” si combinano, ai vv. 26-31, nella serie concitata di domande che l’eroina si pone, non capacitandosi che il Sole (padre del genitore Eeta) possa tollerare senza alcuna reazione l’oltraggio da lei patito (vv. 28-31). Alla medesima tempra stilistica sono da ricondurre le esortazioni che Medea rivolge a se stessa (v. 42 pelle, v. 43 indue). In un diabolico stravolgimento dei valori, la norma che guiderà le azioni di Medea appare come un decus rovesciato: a lei, che prima di essere madre si è macchiata di un simile delitto, ora che ha partorito si addicono crimini ancora più gravi. In tale prospettiva si spiega l’equazione stabilita alla fine del monologo: la nuova domus di Medea (intesa metonimicamente per «famiglia», cioè Giasone e i figli avuti da lui) è nata sotto il segno di uno scelus (l’assassinio del fratello Absirto), dunque dovrà vedere la propria morte con un altro assassinio, di proporzioni ancora più vaste, considerato che nel frattempo l’esperienza di Medea non è più quella di una vergine, ma quella di una donna che ha partorito. 4