Istituto superiore di scienze religiose “S. Apollinare” - Forlì Alberto Luccaroni IL DIRITTO NELLA CHIESA sussidio per il corso di Introduzione al diritto canonico Il testo di questi appunti deriva in massima parte dalle dispense per i corsi di introduzione al diritto canonico tenuti da Andrea Ripa (Rimini) e Paolo Giuliani (Forlì) Anno accademico 2011-2012 1. "UBI SOCIETAS IBI IUS" senso, definizione e teologia del diritto canonico 1.1. IL DIRITTO NELL'ESPERIENZA CIVILE1 «Ogni società, ogni aggregazione umana non può vivere senza un complesso di regole che disciplinino i rapporti tra le persone che l'aggregazione stessa compongono ("ubi societas ibi ius") e senza apparati che s'incarichino di farle osservare. Se ci proviamo ad applicare quest'osservazione, ovvia ed elementare, a quella specifica società che è lo Stato, constateremo ugualmente la necessità di un complesso di norme che regolino i rapporti tra i cittadini, e di uffici o di organi e istituzioni che hanno il compito di tentare di realizzare gli scopi che lo Stato decide di perseguire. Riesce dunque chiaro il concetto, almeno elementare, di ordinamento giuridico, che è costituito dal complesso di norme e istituzioni, mediante le quali viene regolato e diretto lo svolgimento della vita sociale e dei rapporti tra i singoli. In proposito pare opportuno premettere e ricordare che l'uomo è per sua natura portato a cercare l'aiuto e la collaborazione dei suoi simili. Gli uomini danno vita a collettività di vario tipo: si pensi alle Chiese o ai partiti politici, ai sindacati o alle organizzazioni culturali. Tra tutte le forme di collettività importanza preminente ha sempre avuto la società politica: quella, cioè, rivolta "alla soddisfazione non già di uno o dell'altro dei vari bisogni dei consociati, bensì di quello che tutti li precede condizionandone il conseguimento, e che consiste nell'assicurare i presupposti necessari affinché le varie attività promosse dai bisogni stessi possano svolgersi in modo ordinato e pacifico" (Mortati). A tal fine l'organizzazione della comunità politica mira, da un lato, ad impedire le aggressioni tra gli stessi componenti del gruppo, prevenendole o quanto meno scoraggiandole mediante la minaccia di sanzioni ai danni dei trasgressori; e dall'altro tende, attraverso il coordinamento degli apporti di tutti, a potenziare la difesa della intera collettività contro ogni pericolo esterno e a promuoverne lo sviluppo ed il benessere. Un ordinamento giuridico si dice originario quando "superiorem non recognoscet", ossia quando la sua organizzazione non è soggetta ad un controllo di validità da parte di un'altra organizzazione: tale è il caso, oltre che dei singoli Stati, dell'organizzazione internazionale, della Chiesa cattolica, della Comunità europea2. L'ordinamento di una collettività è costituito da un sistema di regole. Ciascuna di queste regole, proprio perché concorre a disciplinare la vita organizzata della comunità, si chiama norma; e poiché il sistema di regole da cui è assicurato l'ordine di una società rappresenta il "diritto" di quella società, ciascuna di tali norme si dice giuridica. Il complesso delle norme da cui è costituito ciascun ordinamento giuridico rappresenta il diritto positivo ("ius in civitate positum") di quella società. In tutto il corso della storia dell'uomo, peraltro, è sempre stata presente, sebbene in maniera e misure diverse, l'idea che esista pure un altro diritto, il cosiddetto diritto naturale: talvolta inteso come matrice dei singoli diritti positivi, talaltra come criterio di valutazione critica dei concreti ordinamenti; talvolta raffigurato come un complesso di princìpi eterni ed universali, talaltra considerato anch'esso storicamente condizionato e quindi mutevole; talvolta legato a concezioni religiose circa la "natura" dell'uomo, talaltra ricollegato esclusivamente alla "ragione" umana, o addirittura alla "natura delle cose", ossia alla realtà esterna, in cui ogni legislatore troverebbe un limite invalicabile. L'esigenza che il richiamo al diritto naturale cerca di soddisfare appare in ogni caso l'aspirazione ad ancorare il diritto positivo ad un fondamento obiettivo che elimini il rischio di arbitrarietà insito nella possibilità di elevare al rango di norma giuridica qualsiasi contenuto approvato da chi detiene il potere ("quod principi placuit legis habet vigorem"). Secondo un'antica, tenace concezione le norme giuridiche si caratterizzerebbero per il fatto di essere suscettibili di attuazione forzata (coercizione) o sarebbero comunque garantite dalla predisposizione, per l'ipotesi di trasgressione, di una conseguenza in danno del trasgressore, chiamata sanzione, la cui minaccia favorirebbe l'osservanza spontanea della norma, attraverso una forma di coazione psicologica volta a dissuadere dal tenere il comportamento antigiuridico chi fosse intenzionato a violare le regole dell'ordinamento». 1 2 Da A.Torrente - P.Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffré 1981, p. 3-12. Lo stesso può dirsi oggi, a maggior ragione, dell'Unione Europea. 2 1.2. IL DIRITTO NELL'ESPERIENZA ECCLESIALE Il diritto della Chiesa viene chiamato “diritto canonico”: è questa l'espressione più consolidata, più diffusa, non ambigua, quindi sostanzialmente da preferirsi per indicare il diritto della Chiesa. Essa presenta una tautologia (“diritto” e “canonico” hanno il medesimo significato), che si attenua nel momento in cui si ricorda che tale espressione indica anche «la scienza che studia la Chiesa nella sua dimensione giuridica e l'esperienza giuridica che in essa si produce; che indaga il complesso di norme che reggono la comunità ecclesiale, così come le forme di funzionamento dell'organizzazione ecclesiastica» (Dalla Torre). 1.2.1. – Perché il diritto canonico? 1.2.1.1. Forme di opposizione È indiscutibile nel corso della storia il ricorrere all'interno della Chiesa di correnti di pensiero, rivendicazioni, movimenti vari che hanno posto in discussione la legittimità/utilità dell'esistenza di un diritto della Chiesa e, dal punto di vista ecclesiologico, hanno contestato fino a negarlo, lo stesso strutturarsi della Chiesa in forme giuridico-istituzionali. Pur nella diversità e tipologia di questi fenomeni è possibile individuare alcune costanti, che non sono sempre qualificabili come vere e proprie “scuole di pensiero”, ma piuttosto come atteggiamenti e prese di posizione nei riguardi dell'aspetto visibile della Chiesa: 1) opposizione manichea – è quella che nasce già nei primi tempi della Chiesa con lo gnosticismo, e che ritorna in alcune esperienze medievali (catari, albigesi, etc.). Chi è portato, in maniera manichea, a vedere nel mondo la sede del male, anzi la sua stessa incarnazione, inevitabilmente si adopererà per fuggirlo per conseguire la salvezza eterna. Dunque, in questa ottica, il cristiano rinuncia a vivere “mondanamente” e tra le modalità che abbandona c'è anche il diritto come strumento di organizzazione sociale. 2) opposizione conciliarista – è quell'obiezione che nasce dall'opposizione nei confronti del papato e dal rifiuto del ruolo dei successori di Pietro come garanti e custodi della fede. Chi si pone in questa linea fa prevalere il Concilio, inteso come insieme di tutti i vescovi, sul Papa e tende a sostituire una legislazione organica, promulgata dal Papa, con l'opinione di volta in volta espressa dal Concilio stesso 3. Tale posizione in seno alla Chiesa si considera definitivamente superata dal Concilio Vaticano I (1869-1870). 3) opposizione spiritualista – è quella corrente di pensiero per cui il diritto è una sorta di sovrastruttura che soffocherebbe la purezza evangelica della Chiesa, attraverso prescrizioni e regole che in nulla giovano al popolo di Dio. L'origine di tale prospettiva è da ricercarsi in un “carismatismo” eccessivo, in una brama di ritorno alla “Chiesa delle origini”, evangelicamente perfetta rispetto a quella attuale, secolarizzata, mondana e quindi giuridicizzata. In questa visione il diritto è visto in contrapposizione alla carità cristiana, che Paolo descrive con sublimi parole4. È questa l'opposizione del movimento valdese delle origini e dello stesso Martin Lutero, ripresa in età moderna, tra gli altri, dal Sohm: la Chiesa, essendo il Regno di Dio, il regno celeste, un regno di spirito non può aver altro capo se non lo spirito divino, Cristo stesso. Di conseguenza non può accettare alcun sovrano carnale, alcuna dottrina umana, alcun precetto ed è incompatibile con ogni potere che si serva di mezzi materiali, coercitivi, giuridici, anzi con ogni potere fondato su principi esteriori e formali. Oggi questa posizione raramente viene sostenuta in modo così rigoroso ed esplicito, ma si esprime per lo più in un atteggiamento pratico di decisa insofferenza o di totale indifferenza nei confronti della dimensione giuridica della vita ecclesiale, di fatto considerata come nociva o almeno inutile. 4) opposizione positivista – specialmente nel passaggio tra XIX e XX secolo fu da più parti contestata la reale giuridicità del diritto della Chiesa, in base alla convinzione che non fossero possibili altri diritti al di fuori di quelli degli Stati. L'obiezione di costoro partiva dal non considerare la Chiesa altro che un'associazione privata, e in questa prospettiva il suo 3 L'infondatezza di una simile contrapposizione, oltre che dai canoni relativi alla suprema autorità della Chiesa (331 e 336), è smentita anche storicamente: si pensi ad esempio al processo di codificazione che portò al Codice del 1917, definibile come un “concilio per corrispondenza”, date le fitte consultazioni tra Roma ed i vescovi di tutto il mondo. 4 1 Cor 13, 4-7; avremo modo in seguito di mostrare come una tale Chiesa delle origini non sia mai esistita e come da subito la neonata comunità cristiana si sia data forme di organizzazione “giuridiche” sempre più elaborate man mano che aumentava il numero dei credenti e l'area geografica interessata dal fenomeno. 3 ordinamento non poteva in alcun modo essere originario 5. Le sue norme, inoltre, non potevano dirsi in alcun modo giuridiche perché, da un lato, risultavano prive di coazione, dal momento che la Chiesa non poteva imporne il rispetto con la forza e, dall'altro, mancavano della necessaria ”intersoggettività” in quanto non sono destinate a disciplinare rapporti sociali, ma riguardano le relazioni delle anime con la divinità6. 1.2.1.2. Le ragioni del sì La domanda sottostante a tutte queste visioni è alla fine una soltanto, Vangelo o legge?, intese come due realtà contrapposte. Ed è chiaro che se così fosse non potrebbe darsi per il cristiano alcun dubbio nel preferire, sempre e comunque, la parola del Vangelo. Ma è proprio questo a mostrarci in più passi che amore e ministero, carisma e istituzione, coesistono e debbono coesistere, avendo una funzione diversa, ma solidale. Su tutti, è bellissimo l'episodio narrato da Giovanni e relativo alla risurrezione 7 in cui, dopo l'annuncio dato dalla Maddalena, Pietro e Giovanni si lanciano di corsa alla tomba per verificare con i loro occhi. Il più giovane dei due giunge per primo al sepolcro, lo vede vuoto e con le bende a terra, ma non entra, aspettando l'arrivo di Pietro, dell'autorità, facendolo entrare per primo. Seguendo uno dei più grandi teologi del '900, vediamo che nella Chiesa l'amore è sempre più veloce del ministero: si accorge più in fretta di quello che bisogna fare e si impegna sempre con massima generosità. Il ministero anche quando procede con la massima rapidità, non può raggiungere l'amore perché deve farsi carico di tutti, deve cercare di portare avanti tutti, deve tenere conto delle diverse condizioni di ciascuno. Non può andare al Signore soltanto con quelli che camminano più in fretta, deve preoccuparsi di tutto il gregge, che gli è stato affidato, non deve abbandonare i lenti e i tiepidi. Amore e ministero corrono insieme: l'amore rimane in contatto col ministero e a sua disposizione, ma nello stesso tempo lo trascina. Ci è dunque offerta l'immagine di «una specie di Chiesa a due poli: Chiesa della carità e Chiesa dell'istituzione in armonica tensione, l'istituzione che lavora per l'amore e l'amore che lascia rispettosamente la precedenza all'istituzione»8. Il diritto viene dopo; prima c'è la fede, la grazia, i carismi, l'amore. Si comprende bene allora come Giovanni Paolo II, nella Costituzione apostolica con cui ha promulgato il Codice del 1983 9, da un lato respinga decisamente ogni devianza giuridicistica, precisando che il Codice mira ad instaurare nella società ecclesiastica un ordine che, assegnando il primato all'amore, alla grazia e ai carismi renda più agevole il loro organico sviluppo nella vita comunitaria e personale, e dall'altro insista ampiamente sulla funzione della legge nella Chiesa, non solo ricordando la tradizione canonica, ma facendo anche appello all'intera storia del popolo di Dio. E nel quadro di questa riflessione afferma che nella Chiesa la trama delle relazioni è tanto fitta che in essa «il diritto c'è già, non può non esserci»10 prima ancora di qualunque specificazione, derivazione, applicazione, di ordine propriamente canonico. Nello stesso senso, ma più sinteticamente, afferma anche come la legge canonica «corrisponda in pieno alla natura della Chiesa» e sia «lo strumento indispensabile per assicurare ordine sia nella vita individuale e sociale, sia nell'attività stessa della Chiesa». Il diritto è a servizio della comunione ecclesiale; è "strumento". Il diritto segue la vita, l'esprime; per questo non può essere anacronistico, fuori della storia. Nella Chiesa il diritto deve seguire ed esprimere la comunione, che è la vita della Chiesa. Il pensiero di Giovanni Paolo II è per altro in piena continuità con il Concilio Vaticano II 11, che non solo rifiuta ogni immagine “spiritualista” della Chiesa, ma respinge anche energicamente qualunque tentativo di separarne e contrapporne l'aspetto “visibile” e quello “spirituale”, l'elemento “terrestre” e quello “celeste”. Secondo la costituzione conciliare Lumen gentium, la Chiesa è stata costituita da Cristo sulla terra «quale organismo visibile» e 5 Si intende per “originario” quell'ordinamento che ha in sé le ragioni della sua esistenza, che non ha bisogno di vedersi concesso da altri il diritto e la possibilità di esistere. 6 È per altro facile, semplicemente scorrendo l'indice del Codice vigente, notare che le leggi della Chiesa sono provviste di sanzioni adeguate (il libro VI è interamente dedicato a questo) e che sono regolati non solo i rapporti del singolo con la divinità, ma anche le relazioni che intercorrono tra i vari soggetti nell'ambito della comunità ecclesiale (si veda in special modo il libro II, ma il Codice nel suo insieme esprime questo). 7 Gv 20, 1-8. 8 H.U. von Balthasar, Teologia dei tre giorni, Queriniana, Brescia 1990, p. 231. 9 Cost. Ap. Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983, in AAS 75 (1983), Pars II, pp. VII-XIV. 10 Secondo l'antico adagio del diritto romano, ubi societas, ibi ius. 11 Ha definito il Codice come l'ultimo documento del Concilio. 4 «sociale», cosicché «la società costituita di organi gerarchici e il Corpo mistico di Cristo, la comunità visibile e quella spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti, non si possono considerare come due cose diverse, ma formano una sola complessa realtà, risultante di un duplice elemento, umano e divino»12. Del resto la stessa immagine della Chiesa come popolo di Dio proposta dal Concilio indica chiaramente che esso ha ritenuto di dover privilegiare tra le varie interpretazioni possibili della realtà ecclesiale, quella cosiddetta “sociologica”, che, senza minimamente rinnegare l'immutabilità del suo fondamento, ne sottolinea la “storicità” e, per così dire, “l'umanità”. L'ecclesiologia sottesa al diritto canonico è l'ecclesiologia del Vaticano II, nel quale la Chiesa viene presentata come popolo di Dio (sottolinea l'uguaglianza), corpo (sottolinea l'unità nella diversità), sacramento (sottolinea la visibilità). Il Codice di Diritto Canonico traduce in linguaggio canonistico l'ecclesiologia del Vaticano II, è il Codice del Concilio, l'ultimo documento conciliare. Pertanto, non solo la dimensione giuridica della Chiesa deve essere ritenuta legittima e compatibile con la sua essenza, ma addirittura necessaria. Si è già ricordata l'affermazione del Concilio per cui la Chiesa è stata istituita da Cristo come organismo visibile e sociale, secondo il disegno di Dio «che volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di essi un popolo che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse»; il Concilio insegna anche che la Chiesa in questa terra è, per volontà dello stesso Cristo, «costituita e organizzata come società» e precisamente come una «società costituita di organi gerarchici»13. Da questa immagine della Chiesa si evince chiaramente e immediatamente la necessità della sua dimensione giuridica, dal momento che nessuna società può vivere senza un ordinamento giuridico. Il diritto canonico, dunque, non solo non è in contrasto con l'essenza della Chiesa, ma costituisce un fattore necessario e insostituibile della sua esistenza. Di più: non solo non è in contrasto con il messaggio evangelico, ma deriva dalla volontà dello stesso Cristo che ha istituito la Chiesa come popolo. Se nella società civile è la socialità dell'uomo a richiedere e giustificare il diritto, nella Chiesa è l'ecclesialità (forma storica della comunione) a richiedere e giustificare il diritto. Là dove c'è un popolo, lì c'è il diritto a tutela della sua unità e libertà. Da quando esiste il Popolo di Dio, esiste il diritto, che ne ha accompagnato il cammino. È la visibilità della Chiesa a postulare un diritto ecclesiale, il quale non è solo un elemento essenziale nella visibile espressione della comunione, ma è anche uno strumento efficace e vitale nella missione salvifica della Chiesa. Gesù Cristo, infatti, ha voluto la Chiesa come sacramento di salvezza: la Chiesa nella sua totalità e concretezza, la Chiesa come comunione vera e ordinata, una Chiesa che diviene sempre più se stessa. 1.2.2. Diritto canonico e teologia Stabilita la conformità del diritto alla natura e ai fini della Chiesa resta ora, seppur brevemente, di cercare una sua collocazione all'interno del complesso delle scienze sacre, senza poter per altro esaurire il problema del rapporto tra diritto e teologia, che implica a sua volta la questione di quale sia il “metodo” proprio della scienza canonistica. Di fronte alle posizioni estreme di chi considera il diritto una scienza prevalentemente teologica (scuola di Monaco) e chi lo ritiene una scienza prevalentemente giuridica (scuola italiana e scuola spagnola), è innanzitutto necessario richiamare alcuni punti su cui esiste un ampio consenso. Secondo Il Concilio14, le leggi ecclesiastiche non possono essere adeguatamente insegnate se non se ne mette in luce il vitale e organico rapporto che le lega a tutta la realtà divino-umana della Chiesa, di cui sono funzione ed espressione. Per la comprensione del diritto canonico è assolutamente indispensabile saper cogliere l'intima relazione che intercorre tra la “forma” delle norme e quella “sostanza” dell'essenza della Chiesa che ne giustifica e determina l'esistenza. Il suo studio quindi deve essere condotto «non solo con senso giuridico, ma anche insieme con senso teologico» poiché chi non è dotato di una «personale formazione e sensibilità non solo giuridica, ma anche al tempo stesso teologica» si preclude ogni possibilità 12 Costituzione Lumen gentium, n. 8. 13 Costituzione Lumen gentium, nn. 8 e 9. 14 Decreto Optatam totius, n. 16: “nella esposizione del diritto canonico e nell'insegnamento della storia ecclesiastica si tenga presente il mistero della Chiesa, secondo la costituzione dogmatica “De Ecclesia” promulgata da questo Concilio”. Si fa esplicito riferimento all'ecclesiologia della Lumen Gentium. 5 di «penetrare lo spirito animatore» e di comprendere le «norme stesse costituzionali positive» di questo ordinamento giuridico15. D'altra parte, se non si vuol accogliere il pensiero di coloro che contestano la giuridicità stessa del diritto della Chiesa, è necessario concludere che tale studio deve essere condotto con metodo giuridico16. Questa necessità è di assoluta evidenza per chi ritiene che la scienza canonistica abbia natura essenzialmente giuridica, ma anche coloro che la considerano una disciplina teologica ammettono espressamente che essa non può comunque fare a meno del metodo giuridico17. EXCURSUS 1. Costituzione Apostolica SACRAE DISCIPLINAE LEGES per la promulgazione del nuovo Codice di Diritto Canonico (25.1.1983) EXCURSUS 2. DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II alla pubblica presentazione del nuovo Codice di Diritto Canonico (3.2.1983) 1.2.3. Note caratterizzanti l'ordinamento canonico La premessa necessaria alla presentazione dei tratti salienti dell'ordinamento canonico è il ribadirne la natura di “ordinamento originario”, in quanto la Chiesa, di cui esso è espressione, non deve la propria esistenza ad alcuna potestà umana, ma solo alla sovrana volontà di Cristo. In via del tutto descrittiva e senza alcuna pretesa di esaustività, riteniamo di poter individuare la prima nota caratteristica di questo ordinamento nell'universalità. È questa la peculiarità di maggior peso rispetto agli ordinamenti statuali, nel senso che quello canonico costituisce il solo ordinamento giuridico oggi vigente che abbia un carattere, un contenuto, un'efficacia universali, per tutta la Chiesa, all’interno dei vari Stati e delle culture, cioè che risulti posto in essere non per un territorio o per una popolazione determinata. Tuttavia questo non comporta un livellamento delle differenze al suo interno, dato che i vari elementi nazionali sono accolti nella misura in cui essi non contrastano con la natura e le finalità della Chiesa; così omogeneità e varietà, centralità e autonomia, autorità e libertà locali sono forze che nell'ordinamento canonico si contemperano come in nessun altro ordinamento giuridico. A tale ordinamento sono sottoposte le genti più disparate senza distinzione di nazionalità, di condizioni ambientali, di lingua, di razza e di territorio, perché la missione universale della Chiesa18 è quella di adempiere per divino mandato in tutto il mondo l'offerta dei mezzi soprannaturali necessari per conseguire il fine supremo della salvezza dell'anima. Dunque, se soggetti effettivi di questo ordinamento sono coloro che mediante il battesimo sono già entrati a far parte del popolo di Dio, soggetti potenziali sono tutti gli uomini, anche i non battezzati, che non possono mai dirsi completamente al di fuori dell'ordinamento giuridico della Chiesa 19; 15 P.A. D'Avack, Trattato di diritto canonico, Giuffrè, Milano 1980, pp. 48-49. 16 Cf. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla giornata accademica organizzata dal Pontificio consiglio per i testi legislativi (24 gennaio 2003): «Le norme canoniche, infatti, si rifanno ad una realtà che le trascende; tale realtà non è solo composta di dati storici e contingenti, ma comprende anche aspetti essenziali e permanenti nei quali si concretizza il diritto divino. Il nuovo Codice di Diritto Canonico - e questo criterio vale anche per il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali - deve essere interpretato ed applicato in quest'ottica teologica. In tal modo, si possono evitare certi riduzionismi ermeneutici che impoveriscono la scienza e la prassi canonica, allontanandole dal loro vero orizzonte ecclesiale»; Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno di studio organizzato dal Pontificio Consiglio per i testi legislativi in occasione del XXV anniversario della promulgazione del Codice di Diritto canonico (25 gennaio 2008): « Lo ius ecclesiae non è solo un insieme di norme prodotte dal Legislatore ecclesiale per questo speciale popolo che è la Chiesa di Cristo. Esso è, in primo luogo, la dichiarazione autorevole, da parte del Legislatore ecclesiale, dei doveri e dei diritti, che si fondano nei sacramenti e che sono quindi nati dall’istituzione di Cristo stesso. Questo insieme di realtà giuridiche, indicato dal Codice, compone un mirabile mosaico nel quale sono raffigurati i volti di tutti i fedeli, laici e Pastori, e di tutte le comunità, dalla Chiesa universale alle Chiese particolari». 17 Cf. ad esempio A.M.Rouco Varela, Le statut ontologique et épistémologique du droit canonique. Notes pour une théologie du droit canonique, in «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 57 (1973), n. 2, pp. 225-226. 18 Mt 28, 19-20. 19 «Tutti gli uomini sono chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale, e alla quale in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini, dalla grazia chiamati alla salvezza», Costituzione Lumen gentium, n. 13. 6 costoro, infatti, oltre ad essere tenuti come tutti alle norme di diritto divino (positivo o naturale), si trovano sotto il vigore di alcune norme entrando in relazione con una parte cattolica20. La seconda nota caratterizzante l'ordinamento canonico è costituita dall'elasticità o dinamicità delle sue norme. L'ordinamento canonico, rigido ed immutabile nei suoi principi basilari dogmatici, presenta una duttilità e flessibilità nelle sue applicazioni, tanto da sapersi adeguare alle circostanze ed ai bisogni dei tempi, e di luoghi e dei popoli più diversi. Se questa può apparire una contraddizione, è chiaro che non si è compreso lo spirito di questo particolare ordinamento giuridico in cui è sempre vivo e aperto il problema del rapporto tra sostanza e forma, per la soluzione del quale la Chiesa, di volta in volta, si avvale largamente di mezzi e strumenti che non possono riscontrarsi in alcun modo negli ordinamenti civili. Per risolvere il problema dell'elasticità del diritto canonico e comprenderlo a fondo, sono presenti in esso tanti istituti e tante suggestive risorse sue peculiari: si tratta dell'equità canonica21 e dell'epikeia, che agisce nel foro interno 22, la consuetudine23, il privilegio24, la dispensa25, la dissimulazione (o tolleranza tacita)26, la tolleranza27. Ci sono poi gli strumenti propri del diritto suppletorio diretti a colmare le lacune delle leggi con il ricorso all'analogia, ai principi generali del diritto canonico e del diritto naturale, la prassi giudiziale e della Curia, le opinioni della dottrina costante e comune e, infine, il non passaggio in giudicato delle sentenze canoniche definitive che riguardano lo stato delle persone. In sintesi, nell'ordinamento canonico la legge trova la sua specifica eticità nella rispondenza al dato costituito dalla salus animarum28. Tale dinamicità dell'ordinamento canonico trova poi un'altra forma di espressione nel rapporto col diritto divino: il precetto fondamentale, contenuto in esso e, in certo modo, comprensivo di tutti gli altri, quello della carità, dell'amore vicendevole che ciascuno deve avere verso il suo prossimo, possiede in se stesso un'apertura che non può mai esaurirne l'intima forza propulsiva e le sconfinate potenzialità. Esso esige una carità aperta a sempre nuovi contenuti e ispiratrice di sempre nuovi atteggiamenti, ad immagine della carità infinita di Dio ed al servizio delle imprevedibili ed irripetibili esigenze di ogni uomo. Il comandamento che Gesù ha dato in questo senso29, unito a tutta la sua vicenda terrena, induce a ritenere che non si tratti di un'indicazione ideale o di un precetto meramente morale, ma di un imperativo di natura anche giuridica che deve calarsi concretamente nella trama dei rapporti comunitari, ispirando e permeando di sé tutto l'ordinamento della Chiesa in forme sempre diverse. Una terza nota adeguata a descrivere l'ordinamento canonico è rappresentata dalla sua apertura o incompiutezza. In base alla natura del suo ordinamento, la Chiesa si presenta con 20 A mero titolo di esempio, cf. cann. 383, § 4 (ministero del vescovo); 528, § 1 (ministero del parroco); 771, § 2 (annuncio del vangelo); 787, § 2 (predicazione dei missionari); 868, § 2 (battesimo di figli di non cattolici); 1086 (matrimonio misto); 1476 (attore del processo). 21 Pur facendo valere il precetto legislativo, l'aequitas induce a tener conto delle specifiche esigenze del caso concreto, di particolari interessi o situazioni personali che richiedono un certo adattamento della disposizione legislativa. 22 Occorre chiarire cosa si intende nella Chiesa con foro interno e foro esterno. Il foro interno riguarda l'ambito della coscienza, delle valutazioni morali, del rapporto personale con Dio, di ciò che è intimo alla persona; il foro esterno riguarda invece la sfera dell'agire, del comportamento, delle relazioni sociali, di ciò che ognuno di noi mostra agli altri. La potestà della Chiesa si estende ai due ambiti (cf. can. 130 del CIC): principalmente obbliga nel foro esterno, come in tutti gli altri ordinamenti giuridici; inoltre si estende anche al foro interno, qualora ciò sia richiesto dal bene della singola persona. Nella storia della Chiesa si è sempre posta la massima attenzione nel tenere distinti questi due fori, per rispettare appieno la libertà di ogni persona. Ad esempio i seminaristi hanno sempre due diverse figure di riferimento: il padre spirituale, che aiuta il seminarista a conoscere se stesso e approfondire il proprio rapporto con Dio (foro interno); il rettore, che regola la vita della comunità, la disciplina, la formazione teologica e pastorale (foro esterno) e non può mai avvalersi di quanto appreso dal padre spirituale nel foro interno. 23 È il comportamento tenuto per un determinato tempo da una comunità capace di ricevere una legge, con il convincimento della sua obbligatorietà (cann. 23-28). 24 Consiste nella concessione di un trattamento particolare, al di fuori o anche contro la legge in vigore, a favore di determinate persone effettuata dall'autorità ecclesiastica competente con un atto amministrativo (cann. 76-84). 25 È la sospensione dell'efficacia di un precetto di diritto meramente ecclesiastico in un caso concreto (cann. 85-93). 26 Consiste nella finzione da parte dell'autorità di non conoscere un determinato comportamento antigiuridico; l'autorità rimane inattiva per non compromettere interessi personali o situazioni meritevoli di essere salvaguardati o per non provocare danni maggiori di quelli derivanti dall'inosservanza della legge. 27 L'autorità non si limita a restare passiva, ma arriva a consentire positivamente ad un comportamento antigiuridico, rendendolo legittimo, di norma, attraverso un provvedimento d'indole normativa. 28 Cf. can. 1752. 29 Gv 15,12. 7 una finalità per sua natura fissa ed immutabile, la salus animarum, che non le è possibile, né in concreto, né in astratto, sostituire con altre, apportando variazioni o modifiche di sorta. La Chiesa, che si presenta come un ordinamento giuridico universale, si trova ad essere potenzialmente illimitata nei confronti del territorio e delle persone sottoposte alla sua sovranità, ma concretamente e attualmente limitata nei confronti delle materie oggetto della sua regolamentazione. E tuttavia, proprio per questo suo modo di essere, lungi dal presentarsi come un ordinamento rigido e chiuso, si presenta sempre come un ordinamento aperto al rapporto con gli altri ordinamenti giuridici in forza della sua elasticità e flessibilità 30. Un'ultima caratteristica dell'ordinamento canonico è costituita dall'interiorizzazione della norma giuridica; la fonte costitutiva e ispiratrice del diritto della Chiesa tende a coinvolgere tutto l'uomo, e quindi ad obbligarlo anche in coscienza (moralmente) e non solo nei suoi comportamenti esteriori. Di conseguenza, in questo ordinamento giuridico è accentuata la tendenza ad esigere non solo l'estrinseca osservanza di determinati contenuti normativi, ma l'interiore e incondizionata adesione del destinatario più che all'espressa prescrizione, allo spirito, ovvero alle ragioni prime della norma. Si verifica pertanto una sfasatura tutte le volte che un soggetto non si determini all'azione perché intimamente convinto dei valori che permeano il precetto, ma per generico rispetto del comando o semplice assuefazione all'obbedienza; è invero necessario un'obbedienza fondata su un'intima convinzione, al di fuori di ogni preoccupazione o paura di pene o di sanzioni, coinvolgente, pervasiva, arricchita dalla partecipazione del soggetto alle ragioni ideali della norma. 1.2.4. Diritto divino (positivo e naturale) e diritto ecclesiastico Un'altra peculiarità dell'ordinamento canonico è la presenza al suo interno, meglio al suo fondamento, di un diritto di provenienza assolutamente unica, risalente alla volontà di Dio, e senza niente di analogo nell'ordinamento degli Stati, il diritto divino 31 appunto, accanto ad un diritto umano, stabilito dall'autorità ecclesiastica. Il diritto divino è stato adeguatamente definito come quel complesso di esigenze di giustizia e di principi ordinatori esplicitamente ed implicitamente stabiliti da Dio, aventi conseguenze rilevanti sul piano giuridico32. Il diritto divino si manifesta, innanzitutto, nella stessa natura umana (diritto divino naturale)33. Secondo la concezione cattolica, infatti, l'uomo reca nel proprio cuore aspirazioni e criteri “originari” - derivanti cioè direttamente dal creatore che ha voluto farlo a propria immagine e somiglianza – e ha la possibilità di riconoscerli e identificarli per mezzo delle facoltà razionali di cui è dotato; così il diritto divino naturale è largamente accessibile ed 30 Cf. ad esempio cann. 98 (tutori), 105 (emancipazione), 110 (adozione), 197 (prescrizione), 231 (remunerazione dei laici)... 31 Cf. anche gli atti del convegno promosso dall’Istituto di Diritto Canonico San Pio X, (Consociatio Internationalis Studio Iuris Canonici Promovendo): XIII Congresso Internazionale di Diritto Canonico, «Il Ius divinum nella vita della Chiesa», Isola di San Servolo, Venezia, 17-21 settembre 2008. Cf. anche il discorso di Benedetto XVI “Ai partecipanti al Congresso Internazionale sulla legge morale naturale promosso dalla Pontificia Università Lateranense”, 12 febbraio 2007. 32 Cf. J.Hervada-P.Lombardìa, El derecho del pueblo de Dios, I, Introduccíon. La constitución de la Iglesía, Pamplona, Universidad de Navarra, 1970, pp. 45-46. 33 Alla sua fonte esiste la legge eterna di Dio, come insegna s. Agostino: «Illa lex quae summa ratio nominatur, cui semper obtemperandum est» (De libero arbitrio, lib. VI, cap. 15, PL XXXII, p. 1229); «Ratio et voluntas Dei ordinem naturalem conservari iubens, perturbari vetans» (Contra Faustum, lib. XXII, cap. 27, PL XLII, p. 418). Più recentemente, Hervada dà la seguente definizione di legge naturale: «L'insieme di leggi razionali che esprimono l'ordine delle tendenze o inclinazioni naturali verso i propri fini dell'essere umano, ordine che è specifico dell'uomo in quanto persona» (J.Hervada, Introduzione critica al diritto naturale, Giuffrè, Milano 1990, p. 143). 8 applicabile anche a coloro che non riconoscono la Rivelazione di Cristo e le Sacre Scritture 34. Ad esempio, a questo tipo di diritto appartiene il principio generale del rispetto dovuto alla vita umana e le specifiche conseguenze giuridiche che ne derivano, nonché la visione del matrimonio35. C'è poi il diritto divino positivo che è stato promulgato per mezzo della Rivelazione, vale a dire attraverso gli interventi compiuti da Dio nella storia per rivelare se stesso e il suo disegno di salvare gli uomini. Le verità rivelate sono raccolte nella Sacra Scrittura e nella Tradizione della Chiesa, che il Concilio Vaticano II 36 definisce come trasmissione integrale della parola affidata da Cristo agli apostoli e ai loro successori, i vescovi, perché per mezzo della predicazione la conservassero, la esponessero e la diffondessero. La costituzione Dei Verbum afferma inoltre che la Sacra Scrittura e la Tradizione «devono essere accettate con pari sentimento di pietà e devozione» in quanto costituiscono «un solo sacro deposito della parola divina affidato alla Chiesa» e riconosce al «solo Magistero vivo» di quest'ultima «l'ufficio di interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa». Più in dettaglio, riguardo al problema in esame, giova rilevare che, mentre i precetti dell'Antico Testamento sono considerati superati se non sono stati confermati da Cristo, il Nuovo Testamento, insieme alla Tradizione, costituisce la fonte del diritto divino positivo 37. Il diritto divino naturale viene comunemente definito come eterno, fisso e immutabile e analoghe considerazioni vengono formulate a proposito del diritto divino positivo; essendo posto da Dio stesso non può esserne messa in discussione la peculiare stabilità. Occorre tuttavia precisare che la conoscenza del diritto divino non è fissa e immutabile, ma si realizza attraverso un progressivo approfondimento, cui non sono estranee le vicende e le esperienze storiche. Questa considerazione non intende sottintendere o avallare alcuna forma di relativismo, ma vuole semplicemente ricordare quel senso della storia che è quanto mai familiare alla teologia cattolica38, la quale, mentre afferma la più assoluta intangibilità e 34 A puro titolo di esempio e per meglio intendere cosa sia questo diritto, inscritto nella creazione stessa, risulta illuminante una pagina del card. Giacomo Biffi, che tenta un elenco di qualità umane naturali, intese come doni che Dio dà all'uomo ferito dal peccato per abitare la terra nell'attesa della grazia di Cristo, nelle quali possiamo vedere le dimensioni e gli strumenti su cui il diritto naturale poggia e attraverso cui prende forma: «... la sana capacità di ragionare senza preconcetti e senza fanatismi, che sarà poi assunta e trasnaturata nella vita di fede; l'amore tra l'uomo e la donna in tutte le sue manifestazioni, quando trascende la violenza cieca dell'istinto senza raggiungere ancora la dimensione ecclesiale del sacramento del matrimonio; l'amicizia chiara e aperta che avvicina gli animi, li arricchisce e li rasserena, in attesa di essere trasfigurata dalla carità; il vino “che fa lieto il cuore dell'uomo” e la capacità di gustare con ragionevolezza i piaceri della mensa, prima che venga dischiuso l'ingresso al banchetto del Regno, rallegrato, secondo la parola di Gesù, dal vino “nuovo”; il senso vivo della bellezza che si rivela nella magia dei suoni, delle parole, dei colori, delle forme, intanto che la vita di fede non ha ancora fondato l'estetica teologica in grado di percepire la bellezza assoluta del progetto di Dio; la legge, che regola i nostri atti e li commisura in vista del bene comune e di una disciplinata convivenza, mentre si aspetta l'effusione dello Spirito, che è legge nuova ed eterna dalla quale per l'eternità sarà ordinata la vita dei figli; l'autorità che limita e preserva la nostra libertà e che insieme ci pesa e ci è necessaria, tanto che la storia degli uomini è una vicenda alterna di ribellioni al potere e di invocazione alla sua forza, almeno fino a che ogni autorità sarà svuotata e l'unica signoria sarà quella escatologica di Cristo... essi restano doni soltanto per chi se ne sa avvalere con sobrietà e rettitudine. Gli uomini sono tentati... di spregiarli o, inversamente, di esaltarli indebitamente» (G.Biffi, Contro mastro Ciliegia. Commento teologico a “Le avventure di Pinocchio”, Jaca Book, Milano 2002, pp. 67-68). 35 Una qualche regolamentazione del rapporto uomo-donna, dei doveri che ciascuno assume verso l'altro e verso i figli quando decidono di vivere insieme e di formare un nuovo nucleo familiare, è indubbiamente un'esigenza avvertita ovunque e in qualunque epoca della storia dell'umanità. Il matrimonio è facilmente riconoscibile come un'istituzione di diritto naturale, come tale riconducibile all'ordinamento fondamentale voluto da Dio per l'umanità. Ciò trova conferma anche nella Scrittura, Gn 2, 18-25; in questi versetti viene delineata l'istituzione originaria del matrimonio: il distacco dell'uomo e della donna dalla famiglia di origine per formarne insieme una nuova, l'unione profonda che si instaura tra di essi e che ricomprende non solo la dimensione sessuale, ma ogni aspetto della vita dei due («una sola carne»). Già a livello di osservazione razionale si può rilevare che il matrimonio per assolvere adeguatamente alla sua funzione deve dar vita ad un rapporto stabile e duraturo, e che tanto più potrà rispondere alle esigenze dei coniugi e dei figli, quanto più sarà messo al riparo da eventi che possano condurre ad una rottura, al venir meno del vincolo. Così già nel piano originario di Dio il matrimonio va considerato di sua natura indissolubile; a questo ordinamento originario si richiama Gesù (Mt 19, 3-9) nel rispondere ai farisei che lo interrogavano sulla possibilità del ripudio. 36 Costituzione Dei Verbum, nn. 7-10. 37 Come esempio di tale diritto si possono ricercare gli elementi essenziali dell'organizzazione sociale della Chiesa, quali il primato pontificio ed il collegio dei vescovi. 38 «Anche se la Rivelazione è compiuta, non è però completamente esplicitata; toccherà alla fede cristiana coglierne gradualmente tutta la portata nel corso dei secoli», CCC n. 666. 9 irreformabilità delle verità di fede, riconosce l'esistenza di una “storia del dogma” 39. È stato infatti giustamente osservato40 che il diritto divino, per avere effettivo vigore nella storia degli uomini, esige di essere formalizzato positivamente attraverso l'opera del legislatore umano, le formulazioni dottrinali dei teologi e dei canonisti, la continua interpretazione che nasce dalla vita e dalla fede della Chiesa (la Tradizione, appunto). Da ciò non discende in alcun modo una soggezione del diritto divino alla sua positivazione nella Chiesa; esso ha comunque valore in sé, in quanto espressione della volontà di Dio e della sua visione della Chiesa e del mondo, ma, in continuità con la logica dell'incarnazione, ogni verità divina diviene palese e tangibile dagli uomini quando prende forma nel loro concreto vivere quotidiano. La positivazione, dunque, non è altro che la presa di coscienza ecclesiale dei contenuti del diritto divino. In quanto diritto riconducibile alla volontà divina, esso è da considerarsi da sempre in vigore, anche mancando un'esplicita formalizzazione. Una legge positiva che chiarisca e renda operante una disposizione di diritto divino non ha quindi portata realmente innovativa, bensì una funzione meramente interpretativa/dichiarativa; si limita cioè a precisare e chiarire i contenuti di un precetto che è già in se stesso esistente e dotato di forza imperativa. Una siffatta legge dunque deve essere applicata non solo alle situazioni che sorgono dopo la sua promulgazione, ma anche a quelle poste in essere precedentemente, quando il precetto divino non aveva ancora trovato precisa espressione in una norma positiva41. In ogni caso, il diritto divino è sovraordinato al diritto umano in quanto, essendo stato posto direttamente da Dio, precede necessariamente nella gerarchia delle fonti qualunque disposizione stabilita dall'uomo, che non può in alcun modo derogarlo o opporsi ad esso, e, per conseguenza, le norme di diritto divino non sono in alcun oggetto di dispensa ecclesiastica. Il diritto divino svolge, dunque, una funzione limite nei confronti del diritto umano, dal momento che questo non può né violarlo né derogarlo; di più, esso è la norma fondamentale e la base necessaria, il principio ispiratore e il nucleo essenziale di tutto il diritto umano. In sintesi, diritto divino e diritto umano non sono due diversi sistemi, ma formano un ordine giuridico unitario che ha la sua norma fondamentale nel diritto divino. Il diritto ecclesiastico è quell'insieme di norme vigenti all'interno della Chiesa, che essa si dà per regolare in modo ancora più efficace la vita propria e dei suoi membri, senza però attingere al diritto divino; il diritto ecclesiastico non può mai essere in contrasto con il diritto divino, ma non discende da esso, quanto dalla semplice volontà dell'autorità ecclesiastica. Questo porta a due conseguenze: innanzitutto il diritto ecclesiastico è sempre positivo, è costituito cioè da norme esplicite, codificate, create ed emanate dall'autorità ecclesiastica (non può esistere un diritto ecclesiastico naturale); in secondo luogo esso può cambiare, adeguandosi ai cambiamenti dei tempi, della società, dei luoghi in cui esso è in vigore. Per questo nella Chiesa ci saranno sia norme che non potranno mai cambiare o al massimo potranno essere meglio esplicitate (norme di diritto divino), sia norme che invece potranno essere promulgate ed abrogate, cambiate e ricambiate a seconda delle necessità contingenti (norme di diritto ecclesiastico). 39 Ad esempio si può pensare al primato pontificio, che ha trovato, non senza vivaci contrasti tra i padri conciliari, la sua attuale definizione giuridico-teologica solo nel 1870, ad opera del Concilio Vaticano I, pur essendo chiaro il conferimento di uno speciale mandato di Gesù a Pietro (Mt 16, 18-19; Gv 21, 15-17) sin dal I-II sec. d.C., come emerge dagli scritti di Clemente romano, terzo successore di Pietro, e Ignazio di Antiochia; per un sintetico excursus sull'evoluzione del primato, cf. P. Moneta, Introduzione al diritto canonico, Giappichelli, Torino 2007, pp. 15-20. 40 G.Feliciani, Le basi del diritto canonico, Il Mulino, Bologna 2002, p. 67. 41 Questa efficacia retroattiva ha trovato esemplificazioni nell'ambito del diritto matrimoniale, in seguito ad alcune innovazioni introdotte dal Codice del 1983: ad esempio, l'inganno doloso del can. 1098 si ritiene applicabile anche ai matrimoni contratti sotto la vigenza del Codice del 1917. 10 2. FONTI E STORIA DEL DIRITTO CANONICO 2.1 Fonti di produzione e fonti di cognizione42 Nel linguaggio delle scienze giuridiche il termine "fonte" (= sorgente; origine, causa) viene usato in senso metaforico e l'espressione "fonti del diritto" indica due realtà: • i fatti o gli atti che producono le norme o regole di condotta (= fontes essendi, fonti di produzione). I fatti sono particolari avvenimenti a cui la legge riconosce un valore giuridico: si pensi all'istituto dell'usucapione, per cui il possesso prolungato di un bene fa nascere il diritto di proprietà sullo stesso; si pensi al diritto consuetudinario, per cui il comportamento di una comunità di persone mantenuto nel tempo diventa normativo anche per il futuro. Gli atti sono interventi dell'autorità legislativa, come può essere quella di un monarca, di un parlamento, di un Papa, di un vescovo; • i documenti e le raccolte che non producono diritto, ma si limitano a divulgare la normativa, consentono di conoscere le norme vigenti in un determinato momento storico (= fontes cognoscendi, fonti di cognizione).43 Nella vita della Chiesa le fonti di produzione sono ad esempio la decisione di un concilio ecumenico, l'intervento autoritativo di un Papa, la promulgazione di un regolamento diocesano da parte del vescovo, ecc...; fonti di cognizione sono ad esempio le varie edizioni del Codice di diritto canonico, le riviste giuridiche, i bollettini diocesani, il notiziario della CEI, ecc... Non sempre i due tipi di fonte sono nettamente distinti: fonti di produzione e di cognizione si identificano quando la pubblicazione di una norma è richiesta come condizione necessaria per l'entrata in vigore della stessa. Se ad esempio una legge prevede di avere efficacia solo dal momento in cui viene pubblicata sulla collana ufficiale Acta Apostolicae Sedis, la pubblicazione del relativo fascicolo della collana diviene sia fonte di produzione (perché pone in essere la legge), sia fonte di cognizione (perché ne permette la conoscenza e la divulgazione). L'esame delle fonti che producono l'ordinamento, lascia trasparire in genere una problematica vasta e complessa vissuta da una determinata comunità o società in un determinato periodo o in un determinato luogo. Sulle fonti di produzione sono possibili due diverse riflessioni: una sulle norme in quanto tali, e di qui si sviluppa la scienza giuridica, l'altra sui fattori storici e sociologici che concorrono a determinare le norme. I due discorsi non sono facilmente distinguibili tra di loro. Anche lo studio delle fonti di conoscenza del diritto, ausiliarie rispetto alle fonti di produzione, apre ad orizzonti assai vasti. A volte si è obbligati a ricorrere, soprattutto quando si studia il periodo delle origini di un ordinamento, a una grande varietà di fonti, anche non propriamente giuridiche, dalle quali ricavare la vita giuridica di una comunità o di un popolo. Lo storico delle fonti si trova impegnato in ricerche che spesso richiedono l'apporto di altre scienze. Altro problema è quello di determinare il valore giuridico delle fonti, dire cioè se si tratta di fonti autentiche, in quanto promulgate dall'autorità, oppure private (nel diritto della Chiesa le raccolte di leggi fino al secolo XII sono private, ma se ne trovano anche in seguito), o spurie (non sono né autentiche, nel senso giuridico appena spiegato, né genuine in senso storico, ma attribuite o a periodi o a luoghi o ad autori non corrispondenti a quelli indicati dalle stesse fonti); a volte sono manipolate. La ricerca diviene piena di interesse, ma anche di una vastità insospettata, non appena le norme giuridiche sono studiate in riferimento alle istituzioni e alle strutture di cui costituiscono gli assi portanti. Comporta che si prenda in esame il contesto più generale della vita della Chiesa e dei popoli nei quali essa si incarna. 2.2. Storia del diritto canonico Un visione, pur inevitabilmente sintetica, della storia del diritto canonico, delle sue fasi ed 42 43 A. Montan, Introduzione al diritto canonico, Ad uso degli studenti degli Istituti Superiori di Scienze Religiose , Roma 2010, pp. 53-54. Per usare un esempio per nulla giuridico, si può pensare a quanto accade quando si ascolta un concerto di musica dal vivo e quando si ascolta la stessa musica incisa successivamente su un disco: durante il concerto la musica viene creata, nell'atto stesso in cui vengono suonati gli strumenti sul palco (si potrebbe dire che il concerto è una fonte di produzione della musica); durante l'ascolto di un disco registrato invece la musica viene ripetuta, riprodotta, portata a conoscenza di quelle persone che non erano presenti al concerto o che semplicemente vogliono rinnovarne il ricordo (ecco che il disco appare come fonte di cognizione della musica). 11 evoluzioni, è necessaria al fine di acquisire la consapevolezza, attraverso la riflessione, che la dimensione giuridica non è una sovrastruttura che la Chiesa si è data ad un certo punto della sua storia, ma un frutto naturale del mandato lasciato da Cristo alla comunità dei suoi discepoli. Essa, da subito, come cercheremo di mostrare, si è organizzata in forme giuridiche, divenute sempre più complesse ed articolate con il suo progressivo ampliarsi. Nel ripercorrere tale evoluzione ci serviremo di una scansione in periodi, organizzati intorno ad alcuni eventi che hanno segnato un'epoca. Non si tratta ovviamente di un criterio assoluto, le periodizzazioni potrebbero essere anche diverse, ciò che interessa è cogliere il continuum dell'esperienza giuridica nella storia della Chiesa e altresì avere una pratica griglia cronologica al cui interno situare fatti e persone, e grazie a cui cogliere i nessi che si dipanano tra le pieghe della storia. Dopo un primo quadro, relativo alla Chiesa degli apostoli, seguiremo una ripartizione in quattro grandi periodi, così organizzati 44: I – il periodo antico, ovvero precedente a Graziano; II – il cosiddetto periodo classico (dal XII al XVI sec.); III – il periodo moderno (dal Concilio di Trento al Codice del 1917); IV – il periodo contemporaneo (dal XX sec. ad oggi). Premessa. La Chiesa degli apostoli Negli scritti del Nuovo Testamento si trovano molte testimonianze giuridiche: • diritto matrimoniale: 1Cor 7, 1-16; 7,39 • diritto processuale: 1Cor 6, 1-6 • prima “successione apostolica”: At 1,15.21-26 • beni temporali: At 2, 44-45; 4, 34-35; 6,1 • autorità e meccanismi decisionali: At 6, 2-5 • concilio di Gerusalemme: At 15,5-21 • esortazione e deliberazioni post-sinodali: At 15, 22-31 • rapporto con le autorità: Rm 13,1-7 • scomunica: 1Cor 5,4-5 • ordine nelle assemblee liturgiche: 1Cor 14,26-35 La vita quotidiana della Chiesa apostolica risulta intessuta di una fitta trama di relazioni e di rapporti, che necessariamente portano con sé elementi normativi: a volte la comunità si sceglie liberamente tali regole, altre volte le scopre già presenti al suo interno , inerenti alla propria natura di nuovo popolo dell'alleanza. 2.2.1. Il periodo antico La strutturazione della comunità ecclesiale prosegue ininterrotta e gli istituti formatisi già prima dell'editto di Costantino (313) restano fondamentali anche in seguito. Le fonti del primo millennio, quindi, per maggior comodità, possono essere ripartite a loro volta in quattro periodi di sviluppo: a) l'età dei padri apostolici; b) l'età delle collezioni pseudoapostoliche; c) l'età delle collezioni antiche; d) l'età dell'alto medioevo. 2.2.1.1. La Chiesa dopo gli apostoli (70-180 d.C.) Il periodo successivo all'età apostolica è di fondamentale importanza per lo sviluppo e la costituzione della realtà ecclesiale. Innanzitutto, si innesca in maniera sistematica la successione apostolica, a Pietro succede il Vescovo di Roma (Lino, Cleto, Clemente, etc..), agli apostoli succedono i vescovi; le funzioni di governo, come diremmo oggi, legislativa, esecutiva e giudiziaria, esercitate prima dagli apostoli stessi, divengono ora incombenza dei vescovi; così pure la potestà coercitiva delle norme, prima esercitata dalle comunità apostoliche, con a capo l'apostolo, viene ora esercitata dalla Chiesa locale con a capo il vescovo, in stretta comunione con gli altri vescovi. La Chiesa mette stabili radici nelle diverse regioni dell'impero romano, si organizza all'interno delle proprie comunità, attenua un poco lo slancio missionario, difende la sua unità da scismi ed eresie, ponendo come normativa la fedeltà alle origini apostoliche. Ecco allora apparire i primi scritti (non fonti giuridiche formali, ma documenti di valore diverso), alcuni attribuiti dagli autori, rimasti anonimi, ad un apostolo o al collegio apostolico nel suo insieme, altri espressione del ministero di presidenza proprio del vescovo. Al primo gruppo appartiene la Didaché (fine I sec. d.C.), che trasmette la notizia sulla presenza di 44 Cf. G.Dalla Torre, Lezioni di diritto canonico, Giappichelli, Torino 2004, pp. 31-32. 12 vescovi e diaconi nelle comunità e sull'amministrazione dei sacramenti (in specie battesimo 45 ed eucaristia); al secondo appartengono le Lettere di Ignazio, vescovo di Antiochia (inizi II sec. d.C.), con una più accurata menzione della gerarchia ecclesiastica nei tre ordini (vescovi, presbiteri e diaconi), e la Lettera di Clemente Romano ai Corinzi (95 d.C.), con una preziosissima serie di dati relativi ai poteri ed al ruolo del Vescovo di Roma ed alla successione apostolica. Altre opere rilevanti per la conoscenza delle prime comunità cristiane e della loro organizzazione sono il Pastore di Erma (150 d.C.), che fornisce vari elementi sulla prassi penitenziale e sulla Chiesa romana, le opere del martire Giustino (†165), che informano su battesimo ed eucaristia, e la Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea (IV sec.), pur successiva, dalla quale ci provengono stralci di lettere di Papi e vescovi e la narrazioni di fatti relativi ai primissimi tempi della Chiesa nascente. 2.2.1.2. La Chiesa perseguitata (sino al 313) Nel corso del III secolo la Chiesa precisa molte sue strutture e assume il volto che conserverà poi a lungo, con il fissarsi di tradizioni tutte saldamente radicate nel periodo apostolico (per l'amministrazione dei sacramenti) e con lo svilupparsi di una fitta trama di relazioni tra le diverse comunità dell'area mediterranea. La comunione tra le Chiese si realizza attraverso i vescovi, in modo particolare nella ricerca di norme comuni con cui risolvere le difficoltà sorte con i lapsi (cristiani che in qualche modo avevano tradito la loro fede durante le persecuzioni46) e nell'uso di ripetere il battesimo degli eretici. Nell'analisi delle fonti occorre distinguere tra le opere letterarie e le raccolte giuridiche. Le testimonianze letterarie hanno diverso peso per il loro contenuto, l'autore e il luogo d'origine: tra le più importanti vanno ricordati gli scritti dei vescovi s. Ireneo di Lione e s. Cipriano di Cartagine, oltre alle lettere raccolte nella già citata Storia di Eusebio; in essi le strutture giuridiche si svelano attraverso il loro comportamento e il modo con cui affrontano le varie questioni. Le raccolte giuridiche hanno invece valore documentario, come la Traditio apostolica di Ippolito47 e la Didascalia apostolorum48, o le Constitutiones apostolorum49, derivate dalle due opere precedenti. Riguardo al contenuto di queste fonti normative si evidenzia come le prescrizioni (non sempre le si può scindere da esortazioni e consigli a livello religioso/morale) riguardino prevalentemente materie sacramentali e cultuali (ammissione al battesimo e ai sacramenti, questioni penitenziali), anche se non mancano norme sui doveri del clero e dei fedeli, che presentano un quadro variegato, vivace e stimolate, della Chiesa delle origini, con una notevole ricchezza di ministeri e carismi50. Le norme non sono ancora tecnicamente ben formulate in veri canoni, si tratta piuttosto di consuetudini scritte, ma emerge chiaramente una trama di istituti giuridici che mostrano già l'esistenza di un ordinamento peculiare della Chiesa. Autori delle norme sono i vescovi, da soli o in comunione con i confratelli attraverso i concili provinciali. Questa serie di fonti pseudo-apostoliche si rivela importate per conoscere in special modo la situazione delle Chiese orientali già prima di Nicea; ci mostra in atto il principio della fedeltà alla Tradizione, nel sovrapporsi dei vari strati di consuetudini e nel ritrovarle un po' dovunque; ci rivela tra l'altro che lo “spirito giuridico” non viene da Roma, in quanto si tratta di opere nate tutte in oriente, anche prima della pace costantiniana 51. Più realisticamente, infatti, 45 Minuziosissime le prescrizioni relative all'acqua con cui amministrare il battesimo. 46 L.Musselli, Storia del diritto canonico, Giappichelli, Torino 2007, p. 21. 47 La Traditio apostolica riporta riti e preghiere liturgiche, norme per i vari ordini e ministeri, per il catecumenato, per le riunioni della comunità, la preghiera comune e individuale, il digiuno e altre espressioni della vita cristiana. 48 La Didascalia parla diffusamente degli uffici del Vescovo, dei presbiteri e dei diaconi, di diaconesse e altri ministeri; descrive le riunioni e i problemi di una piccola comunità, in particolare la liturgia, la penitenza, il matrimonio, l'assistenza ai poveri. 49 Le Constitutiones completano le altre due raccolte con la preghiera (libro VII) e con carismi, ordinazioni, canoni (libro VIII). 50 Alla gerarchia ordinaria si affianca – ma non si contrappone – la gerarchia dei carismatici e dei dottori, con ministeri in seguito perdutisi, come quello delle diaconesse e delle vedove; L.Musselli, Storia del diritto canonico, Giappichelli, Torino 2007, p. 20. 51 Contro la posizione di chi, come Alberigo, vorrebbe far nascere il diritto della Chiesa dal suo incontro con il sistema giuridico romano, ponendo questa presunta fusione nel IV sec. senza tanti argomenti. 13 il sorgere di canoni e norme va ricercato nelle crescenti necessità concrete dello sviluppo delle Chiese locali e nell'ordine dato ai rapporti di comunione. 2.2.1.3. L'età delle collezioni antiche (secc. IV-VI) A partire dal IV secolo, la Chiesa Cristiana cessa di essere perseguitata per divenire prima religio licita, con l'editto di Milano del 313, poi, dopo il 380 52, religione di Stato. È ovvio allora che per risolvere le nuove e più complesse questioni disciplinari e organizzative non fossero più sufficienti le spesso vaghe prescrizioni delle collezioni pseudo-apostoliche, e vedono così la nascita le varie “collezioni antiche”. Si tratta soprattutto, come già in passato, di diritto consuetudinario messo per iscritto, mentre nuove disposizioni nascono da soluzioni particolari estese poi alla generalità dei casi, specialmente ad opera dei concili provinciali; attraverso la realtà di comunione esistente tra le varie chiese locali, così, le deliberazioni di un concilio possono venir assunte da altre Chiese che in esse vedano conformità alla propria storia e tradizione 53. Inoltre, a partire da questo periodo, si fanno più numerose ed autorevoli le lettere dei Papi, dette Decretali, che talvolta producono nuove norme, ma di solito intendono tutelare la tradizione romana e frenare innovazioni indebite; i singoli vescovi per le loro diocesi sono fonte soltanto di precetti e di diritto consuetudinario. Anche gli Imperatori, con un crescendo di interventi – in special modo durante il regno di Giustiniano (527-565) – emettono una serie complessa di leggi e costituzioni in campo ecclesiastico, a testimoniare quella commistione e reciproca influenza che esisteva tra l'ordinamento civile e quello canonico54. Le “collezioni antiche” sono innanzitutto distinte in orientali ed occidentali, poi in cronologiche e sistematiche. In oriente, alle collezioni cronologiche seguirono quelle sistematiche: tra le prime va ricordato il Sintagma canonum, composto pare ad Antiochia nella seconda metà del IV sec., e la Collectio Trullana, più tarda, e tra le seconde la Synagogé (intorno al 650) di Giovanni Scolastico, poi Patriarca di Costantinopoli. L'occidente recepisce i canoni orientali dei secc. IV-V e nelle diverse regioni celebra numerosi concili che elaborano nuovi canoni; questi vengono accolti in Italia, Africa, Gallia e Spagna55. In una prospettiva originale ed unitaria si colloca invece la raccolta fatta, su commissione di pontefici romani, da Dionigi il Piccolo, monaco scita attivo tra la fine del V e i primi decenni del VI sec. Dionigi opera a Roma e, a testimonianza del primato non solo di onore, ma anche di giurisdizione del Papa, al corpus delle norme conciliari aggiunge una raccolta di lettere decretali, iniziando una prassi che avrà fortuna per tutto il medioevo. La raccolta di Dionigi il Piccolo diventerà una classica fonte di diritto canonico della Chiesa latina per l'alto medioevo e come tale sarà presentata, con alcune aggiunte, da Papa Adriano a Carlo Magno nel 774, acquisendo la denominazione di Collectio Dioniso-Hadriana56. 2.2.1.4. L'Alto Medio Evo (secc. VII-XI) Tra Gregorio Magno (590-604) e Gregorio VII (1073-1085) corrono sei secoli di avvenimenti che condizionano la Chiesa in vari modi, provocandone sviluppi strutturali e decisivi. Un ridimensionamento geografico della Chiesa restringe l'angolo di visuale al centro-sud dell'Europa, per le invasioni dei nomadi da nord-est e degli arabi da sud-est e una separazione sempre più marcata dall'oriente sino allo scisma (1054). Carlo Magno ricostruisce l'unità europea del Sacro Romano Impero, anche se la rinascita è di breve durata. La Chiesa assimila a fasi alterne i popoli del ceppo germanico e slavo e riesce a coagulare le forze nuove intorno 52 Con la costituzione Cunctos populos dell'imperatore Teodosio. 53 È il fenomeno della recezione. 54 L'imperatore ha anche potere religioso, fa leggi in materia ecclesiastica, i nomocanoni, interviene nei rapporti con i vescovi e nei concili; i vescovi a loro volta collaborano anche per la vita e la concordia civile, spesso fanno i giudici e i capi oltre la sfera religiosa, sia in virtù del loro prestigio personale (è una prassi non del tutto scomparsa, quando si pensi, ad esempio, al caso dell'Honduras in cui pochi anni or sono al cardinale Maradiaga venne offerto a furor di popolo il posto di capo della polizia in seguito ad uno scandalo che richiedeva il ricorso a persona di specchiata onestà e sicuro prestigio), sia per la necessità di supplire alle lacune statali. 55 In questo ambito emerge l'originale e in certo modo enigmatica opera degli Statuta ecclesiae antiqua. 56 Dionigi rese così al vescovo di Roma un servizio enorme, quello di dotarlo di uno strumento normativo che, per i tempi, era il massimo raggiungibile, aumentando così di molto il ruolo ed il prestigio della Cancelleria romana. 14 alla tradizione romana e cristiana. Poi il sistema feudale applicato alla Chiesa provoca una grave decadenza nel clero e nella disciplina, che viene in parte frenata con la lotta per le investiture e la coraggiosa riforma gregoriana. Nel diritto canonico matura una nuova mentalità, sistematica e scientifica, nella prassi e nello studio dei testi: alle antiche collezioni si aggiungono nuove disposizioni di Papi, Re e concili; con la riforma carolingia alle assemblee ecclesiastiche spesso prendono parte anche notabili laici (concilia mixta) e si emanano leggi con valore canonico e civile insieme (capitularia) che portano con l'autorità del re al rinnovamento della Chiesa franca. Il Papa accentua la sua influenza tramite i suoi legati e lettere frequenti (ad es. Nicolò I, 858-867), da lui viene l'autorità ai nuovi vescovi per le Chiese missionarie, su di lui si scarica la lotta decisiva per l'investitura feudale dei vescovi, da lui viene l'energica riforma del sec. XI. Accanto alle collezioni tradizionali di canoni conciliari e decretali papali si vanno ora diffondendo nuove raccolte con direttive pastorali e pratiche 57. Caratteristica di questo periodo sono poi i Penitenziali58, manuali pratici per il clero impreparato, che riportano riassunto il diritto penale e varie norme procedurali. Per arginare l'ingerenza della feudalità laica negli affari della Chiesa, soprattutto in campo patrimoniale, si assiste anche ad un fenomeno per noi curioso, ma comprensibile alla luce della cultura del tempo, quello delle “false decretali”. In un'epoca in cui la scrittura era ancora possesso di pochi 59 e il documento scritto era venerato e rispettato come la prova più autorevole di un diritto da rivendicare, alcuni ecclesiastici 60 non esitano a dar vita a collezioni nelle quali sono accolti materiali falsificati61. La più nota è costituita dalle cosiddette Decretales Pseudoisidorianae62 della metà del IX sec., di cui si definisce autore un altrimenti ignoto Isidoro, peccator o mercator, contenente tra l'altro un falso famoso come la “donazione di Costantino”, con la quale si attribuiva al Papa il dominio su Roma e l'Italia. Opere sostanzialmente coeve e simili, per natura e funzione sono i Capitularia Benedicti Levitae, che rivendicano i diritti della Chiesa e dei chierici, ed i Capitula Angilramni, a difesa delle esenzioni dei chierici in ambito giudiziario. Tali opere, variamente valutate dalla storiografia, denunciavano comunque il problema urgente che affliggeva la Chiesa: l'assenza di un potere legislativo con efficacia universale in grado di affrontare con vigore un potere secolare opprimente. Superato l'anno Mille, i tempi divengono finalmente maturi per una riforma della Chiesa al suo interno ed un suo affrancamento dallo schiacciante potere politico; tale opera parte dai monasteri, in particolare dall'abbazia di Cluny. Dopo avere influenzato o indirizzato le iniziative dei suoi predecessori, soprattutto al fine di liberare l'elezione del Papa dalle pressioni imperiali o laiche, per assicurarla ai cardinali, ascende al soglio pontificio Ildebrando di Soana, dal cui nome da Papa, Gregorio VII (10731085), la riforma attuata sarà chiamata “gregoriana”. Come detto, i fronti su cui combattere la battaglia per la salvaguardia della Chiesa sono al momento due: da una parte, occorreva attuare una correzione morale del clero, imponendo con sempre maggiore severità il celibato dei sacerdoti (contro il “nicolaismo”) e perseguendo con crescente rigore la simonia 63; 57 Da ricordare l'Epitome hispana, l'aggiornamento della Dyonisiana, e la Dacheriana (800). 58 Gli esemplari più notevoli sono il Liber Columbani, il penitenziale di Teodoro, gli Judicia Cummeani, nei secc. VI-VII, i penitenziali di Halitgar (Francia) e di Rabano Mauro (Germania), nel sec. IX, sino alla formulazione più elaborata del Corrector di Burcardo di Worms (sec. XI); «Essi ebbero un'importanza, ancora oggi sottovalutata, per l'evoluzione del diritto penale canonico, delle mentalità e del costume, soprattutto nel campo morale e dell'etica sessuale... Il metodo è casistico: per ogni peccato è prevista una penitenza, che varia a seconda della dignità della persona e che è più severa tanto più è elevata tale dignità. L'elemento intenzionale è valorizzato al massimo... », L.Musselli, Storia del diritto canonico, Giappichelli, Torino 2007, p. 29. 59 Lo stesso imperatore Carlo Magno era analfabeta e firmava con un sigillo, servendosi per il resto della scienza del monaco Alcuino, suo segretario e cancelliere. 60 Ovviamente, la prassi di costituire documenti antichi favorevoli alle proprie rivendicazioni era propria anche dei giuristi imperiali. 61 Il gruppo dei compilatori doveva essere formato da persone di profonda cultura e rara intelligenza; dopo lunghe incertezze, oggi si riconosce concordemente che la loro patria fu nella Gallia centrale, forse Le Mans o Reims. La loro origine spuria venne provata con l'edizione critica di Hinschius (1863), mentre successivi studi metteranno in luce l'effettivo influsso – assai modesto – di queste collezioni nello sviluppo delle istituzioni della Chiesa medievale, in particolare per il primato papale e per la libertà dei vescovi. 62 Una lunga collezione in tre parti, che mescola ai concili della Hispana, alle lettere autentiche e ad altre norme desunte dalla tradizione lunghe decretali inventate attribuendole ai Papi dei primi secoli. 63 Il fine è quello di disporre di un personale ecclesiastico compattato da un vincolo di assoluta obbedienza e fedeltà, senza intralci e preoccupazioni sociali o mondane, oppure collusioni col potere profano. 15 dall'altra, Gregorio VII non desiderava solo far cessare le intromissioni imperiali, ma mirava ad enfatizzare talmente il ruolo della Chiesa e del Papa, da farlo assurgere a criterio ordinatore dell'intera societas christiana. Tra le collezioni preparatorie della riforma va ricordato, nel sec. XI, il Decretum di Burcardo, vescovo di Worms, opera pratica equilibrata e moderata, che si diffuse rapidamente e riaffermò la disciplina; altre opere, documentate e precise, nate in occasione della riforma, sono il De vita christiana di Bonizone di Sutri e i 13 libri di Anselmo da Lucca. Tra le opere successive ha grande importanza la trilogia di s. Ivo, vescovo di Chartres (1091-1116), che scrisse prima un lungo Decretum64 e una raccolta Tripertita, forse ordinata cronologicamente, poi la Panormia, sistematica e di indole pratica, che godette di grande autorità anche al di fuori della Francia ed esercitò un influsso determinante su Graziano, insieme con il Liber de misericordia et iustitia (1106) di Algero di Liegi65 sull'equità canonica. 2.2.2. Il periodo “classico” (secc. XII-XVI) Si tratta di un periodo ricco di grandi sviluppi, nella teologia, nell'arte, nel diritto: è il momento aureo della cristianità. In ambito giuridico, si va da Graziano (1140) al Concilio di Trento (1545-1563): si elabora la tradizione canonica in un completo sistema giuridico, distinguendolo come scienza sia dalla teologia che dal diritto romano; si forma il Corpus Iuris Canonici, come frutto di un lungo lavoro in cui convergono le università e i legislatori, i Papi. Alla luce di quanto considerato precedentemente, il Decreto di Graziano non va visto come uno splendido fiore, miracolosamente apparso verso la metà del XII sec. (1140 ca.), ma come il frutto più maturo di una complessa evoluzione politico-giuridica della Chiesa del tempo e della sua disciplina e dottrina; punto di arrivo che diventa anche un punto di partenza per la costruzione di quella che verrà definita l'età aurea del diritto canonico. Da una parte, ragioni di ordine politico-religioso e stimoli provenienti dalla stessa rinascita del diritto romano spingono all'elaborazione di un'opera che metta finalmente ordine nelle fonti canonistiche separando, per quanto possibile, in modo chiaro, morale e diritto, foro interno e foro esterno; dall'altra parte, al rinnovato strumentario giuridico si aggiungono le possibilità offerte dalla prima elaborazione della logica scolastica, dove in teologia Pietro Abelardo mette a punto un metodo mirante al reperimento delle concordanze, che si presta magnificamente ad essere utilizzato anche in campo giuridico. Il realizzatore di questo progetto e l'iniziatore del diritto canonico classico sarà Graziano 66 attraverso l'opera che porta il titolo programmatico di Concordia discordantium canonum, poi rimasta universalmente nota come Decretum. Egli raccoglie testi della Scrittura, canoni dei concili, decretali dei Papi, passi dei Padri e di scrittori ecclesiastici, frammenti della legislazione teodosiana (IV secolo) e giustinianea (VI secolo), di compilazioni barbariche e di capitolari franchi; dispone questi testi a servizio di determinati argomenti giuridici, li collega tra loro, li discute e ne estrae delle conclusioni. Poiché i testi appaiono spesso in contraddizione tra loro, Graziano cerca di conciliarli argomentando con un metodo ragionato: le norme sono analizzate ratione significationis (lo spirito della norma), ratione temporis (il tempo nel quale essa è stata emanata: la norma più recente prevale su quelle più antiche in caso di inconciliabilità), ratione loci (il carattere universale o locale della norma), ratione dispensationis (la finalità particolare o generale della norma), al fine di giungere alla soluzione dei conflitti. La dottrina è esposta con appropriati documenti che costituiscono in certo modo la rete di sostegno di tutti i canoni allegati e consentono di apprezzare la fatica dell'autore. Quanto al contenuto, si specificano gli organi di governo della Chiesa, i loro poteri e attribuzioni, si 64 Nel prologo di quest'opera, diffusosi anche come opera autonoma, raccoglie una serie di regole di concordanza da applicare alle diverse fonti; la sintesi del suo metodo è che i testi risultano, se adeguatamente considerati, « diversi, sed non adversi». 65 «Il merito dell'autore consiste nell'applicazione pratica dei principi di riconciliazione delle divergenze in una collezione intera di testi giuridico-canonici, essendo la sua opera, sotto questo aspetto, simile ad una collezione canonica... Per l'uso conseguente dei principi di soluzione delle discordanze in tutta l'opera, il Liber de misericordia viene ritenuto il precursore principale del metodo di Graziano», P. Erdö, Storia della scienza del diritto canonico. Una introduzione, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1999, p.34. 66 Giovanni Graziano fu monaco camaldolese, di cui non sono ancora ben noti luogo (forse a Chiusi o nei pressi di Orvieto) e data di nascita, ma che nella prima metà del sec. XII insegnò diritto a Bologna, risiedendo nel monastero dei ss. Felice e Naborre. Compose la sua opera tra il 1120 ed il 1140, utilizzando le collezioni a lui vicine ed anche i canoni più recenti. Lo menziona anche Dante (Paradiso, X, 103-105) come colui «che l'uno e l'altro foro aiutò sì che piacque in paradiso». 16 costituisce il nucleo essenziale del diritto patrimoniale della Chiesa, del processo e del diritto matrimoniale. Come collezione nata per la scuola e per un uso pratico il Decreto non ha dall'inizio alcuna autorità legale, né l'ha mai ricevuta dai Papi o dalla consuetudine; i testi che Graziano cita conservano il loro valore originario, che va pesato secondo la loro autenticità e importanza singola, senza acquistare forza nuova per il fatto di trovarsi nel Decreto. L'indubbio valore che quest'opera ha avuto è quello acquistato attraverso l'uso che se n'è fatto, sino al suo inserimento nel Corpus Iuris Canonici. Nelle università che fioriscono in tutta Europa nel sec. XII – in particolare, per il diritto canonico, importa ricordare Bologna, Pavia, Parigi e Padova – i maestri iniziano ad esporre con metodo esegetico e scolastico67 il Decreto di Graziano; questi primi interpreti furono detti decretisti. Da lezioni condotte secondo questo metodo nascono, dapprima come pro memoria didattico a cura dei docenti, o come sintesi ad opera degli studenti, le glosse e gli apparati di glosse, affiancate al testo dei manoscritti; queste vengono pian piano a sovrapporsi ed integrarsi, sino a che si giunse ad un completo corpus di glosse68, a corredo dell'intero Decreto. Da queste prime glosse nasce poi la glossa ordinaria, integrata anche da nuovi testi, la quale diviene a sua volta oggetto di altre glosse. Dal lavoro sulle glosse poi si origina un genere diverso, al di fuori dello stretto ambito didattico, quello delle Summae, che sono riassunti di diritto, non legati alla trascrizione materiale, né affiancate al testo 69. Accanto a queste opere ne vanno ricordate anche altre che pure in forma di summa studiano una parte del Decreto, un istituto o un aspetto particolare del diritto canonico; merita menzione la Summa de matrimonio del pavese Bernardo Balbi, verso la fine del XII sec., che costituisce la prima trattazione organica di diritto matrimoniale canonico. Successivamente, l'accresciuta importanza che ebbe il papato nel giro di mezzo secolo da Alessandro III (1159-1181) a Gregorio IX (1227-1241), e la nomina a Papa di eminenti figure di giuristi, provocano una copiosa fioritura di decretali 70 pontificie nei campi più disparati, tanto che si sente immediatamente il bisogno di raccoglierle e razionalizzarle, al fine di evitare le incertezze di una legislazione stratificata e di poter disporre di un corpus di leggi agile e di pronta consultazione. Questi testi sono inizialmente raccolti in collezioni aggiunte al Decreto, alcune redatte con un buon ordine sistematico, altre più confuse. Cinque di esse hanno avuto maggior fortuna in quanto usate da s.Raimondo di Peñafort, quando viene incaricato da Papa Gregorio IX di compilare una raccolta che, in seguito promulgata con valore di legge, rende antiquate tutte le altre71. Le Decretali di Gregorio IX, dette semplicemente Liber extra72, vengono promulgate con la bolla Rex pacificus nel 1234, ed anche attorno ad esse si concentrerà un'attività esegetica e scientifica rigogliosa, che attraverso glosse, apparati di glosse, summe, distinctiones, quaestiones, brocarda, poi commentari, trattati, consilia, etc. la scandaglierà e analizzerà nel dettaglio; questi studiosi, dall'oggetto principale del loro studio, 67 Il maestro spiegava i testi del Decreto seguendo l'uso vigente anche presso i civilisti, uso mutuato dal metodo dialettico della scolastica, «sintetizzando il testo, dandone la spiegazione letterale, richiamando i passi e casi analoghi, dividendo ordinatamente le varie problematiche ed affrontandole e risolvendole ad una ad una, dopo aver riportato le tesi favorevoli e contrarie ad ogni soluzione. Alla fine di questo paziente lavoro di cesello e di analisi ritornava alla ricostruzione ed all'affermazione del principio generale, della “ratio” dell'intera norma», L.Musselli, Storia del diritto canonico, Giappichelli, Torino 2007, pp. 41-42. 68 In certo modo, componendo quello che oggi chiameremmo commentario. 69 Giova ricordare i nomi degli autori, dotti uomini di Chiesa, molti dei quali raggiunsero la dignità episcopale dopo essere stati maestri di diritto canonico: Paucapalea, discepolo di Graziano, Rolando Bandinelli (poi Papa Alessandro III), Rufino (poi vescovo di Assisi, morto nel 1192), Stefano (poi vescovo di Tournai, morto nel 1203) e il più grande, Uguccione da Pisa (morto nel 1211), per menzionarne solo alcuni. 70 Come abbiamo già visto in precedenza, si chiamano decretali le ordinanze e costituzioni dei Papi, aventi una portata generale, sia per la Chiesa intera, sia, per lo meno, per una parte notevole di essa, cioè per una o parecchie province ecclesiastiche. 71 Si tratta delle cd. Quinque compilationes antiquae: la Compilatio I (1191) di Bernardo da Pavia (a cui si deve la sistematica in 5 libri che rimase poi tradizionale: iudex, iudicium, clerus, connubia, crimen), la Compilatio II (1212) di Giovanni del Galles, la Compilatio III di Pietro Beneventano, promulgata da Innocenzo III nel 1210, la Compilatio IV (1216) di Giovanni Teutonico, la Compilatio V (1226) opera di Tancredi da Bologna. 72 Extra è detto in relazione al Decreto di Graziano. Il Liber Extra si compone di 5 libri: nel primo si parla delle fonti del diritto, delle questioni relative ai vescovi ed ai chierici e del compito e della figura del giudice, oltre ad altre questioni; nel secondo è esposto organicamente il diritto processuale; nel terzo, dopo una parte dedicata alla disciplina del clero, ne seguono una relativa al diritto patrimoniale ed una sui sacramenti; il libro quarto è tutto dedicato al matrimonio; il quinto si occupa di delitti e pene, con qualche accenno al diritto processuale penale. 17 prenderanno il nome di Decretalisti73. Le medesime ragioni che avevano spinto Gregorio IX a far raccogliere nuove decretali ed i più importanti canoni conciliari successivi al Decreto di Graziano portano ad una analoga operazione dopo la promulgazione del Liber extra. L'opera, tra le altre, destinata ad imporsi e ad entrare nel Corpus Iuris Canonici è quella voluta da Bonifacio VIII (1294-1303), che incarica una commissione di tre canonisti di comporre una collezione che raccolga la normativa canonistica più significativa emanata dal tempo di Gregorio IX in avanti. Ne esce un'opera in cinque libri, come le Decretali di Gregorio IX, di cui ricalca lo schema, chiamata Liber Sextus74, in quanto si aggiunge, integrandoli, ai cinque libri delle Decretali. Altra collezione destinata ad aggiungersi al Liber Sextus nella prima metà del Trecento, poi recepita nel Corpus Iuris Canonici, è costituita dalle Clementinae75, raccolta iniziata da Clemente V (1305-1314), completata e promulgata da Giovanni XXII (1316-1334) (bolla Quoniam multa, 1317)76. Dopo le Clementinae non ci sono più raccolte ufficialmente promulgate da pontefici, ma solo collezioni private, due delle quali entrano tuttavia a far parte del Corpus Iuris Canonici. La prima è quella nota come Extravagantes Johannis XXII, che raccoglie tre decretali in materia beneficale, più altre diciassette di argomento vario aggiunte in un secondo momento. La seconda è costituita dalle Extravagantes communes, opera anch'essa privata, che raccoglie le decretali di diversi pontefici da Urbano IV (1261-1264) a Sisto IV (1471-1484). Entrambe sono riordinate e sistematicamente divise da Giovanni di Chappuis, che le pubblica nella sua prima edizione parigina del Corpus Iuris Canonici nel 1500 e nel 1503. La denominazione di Corpus Iuris Canonici al complesso di opere sin qui esaminate viene data inizialmente imitando l'uso romanistico di chiamare Corpus Iuris Civilis la compilazione giustinianea: essa fa riferimento, come visto, a tre collezioni ufficiali di decretali e tre collezioni non ufficiali, mantenendo ogni documento all'interno del Corpus il proprio valore giuridico originario: sono ufficiali le Decretales di Gregorio IX, il Liber VI e le Clementinae, non ufficiali il Decretum, le Extravagantes di Giovanni XXII e le Extravagantes communes. Dopo le due edizioni parigine, in considerazione di alcune interpolazioni e aggiunte che si stavano verificando, si rende necessaria un'opera di riordino e sistemazione ufficiale di questo importante strumento giuridico; questa viene fatta nell'ambito della riforma tridentina, mirante a riordinare la Chiesa ed il suo diritto. Tale attività si conclude solo nel 1580 con la bolla Cum pro munere di Gregorio XIII, cui fa seguito la prima edizione romana ufficiale (1582) del Corpus. Facendo un passo indietro, occorre ricordare che dalla metà del sec. XIV, e per un lungo periodo, la scienza canonistica non fa molti progressi. L'affacciarsi alla scena politica delle monarchie nazionali, gelose della propria indipendenza e decise ad incrementare e rafforzare il proprio potere, scatena un duro dissidio con la Chiesa graniticamente arroccata sulle posizioni medievali. Lo scontro principale, epocale è quello tra Filippo il Bello, re di Francia (1285-1314), sostenuto da giuristi che teorizzano la sovranità assoluta del regno e dall'incalzante gallicanesimo che pretende di circoscrivere le prerogative della Santa Sede sulla Chiesa francese, e Papa Bonifacio VIII (1294-1303), considerato l'ultimo pontefice del Medioevo. Il trionfo del re francese e l'umiliazione del Papa oltraggiato ad Anagni avviano una stagione difficile per la Chiesa: il successore, Clemente V (1305-1314), su pressione della corona francese, trasferisce la sua residenza ad Avignone nel 1309, dove la corte papale si trattiene sino al 1377, quando finalmente – dopo i ripetuti incitamenti di s. Caterina da Siena e di s. Brigida di Svezia – Papa Gregorio XI (1370-1378) torna a Roma. Una nuova e pesante prova per la Chiesa è però in agguato, quello scisma d'Occidente, per il 73 Si segnalano, tra gli altri, Enrica da Susa,detto l'Ostiense, Sinibaldo dei Fieschi, poi divenuto Papa Innocenzo IV, Guglielmo Durante – autore di un prezioso manuale di diritto processuale, lo Speculum judiciale –, Baldo degli Ubaldi e Giovanni d'Andrea, detto pater et tuba iuris, laico e sposato, con una figlia, Novella, a sua volta dotta canonista. 74 Quest'opera, elaborata per la prima volta non da un singolo, ma da una commissione di canonisti, tra il 1296 e il 1298, fu promulgata con la bolla Sacrosanctae Romanae Ecclesiae. 75 Oltre alle decretali di Clemente V, contengono due decretali di Papi precedenti (Urbano IV e Bonifacio VIII) ed alcuni canoni del Concilio di Vienne. 76 Si formalizza in questo tempo il corso universitario di studi in diritto canonico. I doctores ordinarii leggono il Decretum e poi le Decretales al mattino, gli extraordinarii leggono le varie Compilationes e poi via via il Liber VI e le Clementinae al pomeriggio. Gli studenti si organizzano per procurarsi almeno a prestito i testi e i commenti magistrali, che ci restano ricopiati nei manoscritti conservati nelle biblioteche di tutta Europa e anche inesplorati in archivi e fondi di vari enti. Fu tutto un fervore di dispute, commenti, studi. I gradi accademici si precisano e col dottorato si ottiene in modo solenne il diritto di insegnare e agire «in studio et ubique terrarum». 18 quale, dal 1378 al 1414, a causa delle liti intestine al collegio cardinalizio, prima due Papi, poi, dopo il Concilio di Pisa (1409), addirittura tre Papi si contendono la sede di Pietro. Per uscire dalla crisi e ristabilire la giusta obbedienza viene invocata la via del Concilio; a Costanza (1414-1418) sono recepite queste istanze di rinnovamento, prescrivendo anche una periodicità determinata delle riunioni dei concili. L'idea del “conciliarismo” tuttavia va incontro ad un rapido moto di dissolvimento nelle tormentate vicende del Concilio di Basilea (1431-1439), e consente al papato di recuperare il ruolo suo proprio all'interno della Chiesa. 2.2.3. Il periodo moderno: dal Concilio di Trento al Codice del 1917 Un momento di fondamentale importanza nello sviluppo storico del diritto canonico è costituito dal Concilio di Trento (1545-1563), celebrato dopo la grande frattura inferta all'unità del mondo cristiano dalla Riforma protestante. La parola d'ordine fu salus animarum lex suprema esto, frutto di uno spirito nuovo maturato lentamente e dell'esempio di persone decise a cominciare in proprio la riforma77: Papi, Vescovi, nuovi ordini religiosi, gruppi per l'assistenza ai poveri, ai malati e alla gioventù, al clero in cura d'anime. I decreti di questo concilio, promulgati da Pio IV nel 1564, contengono importanti innovazioni in materia di organizzazione delle diocesi (con particolare attenzione per il ruolo del vescovo e dei parroci), sulla disciplina del clero e dei religiosi, sul matrimonio. La riforma avviata dal Concilio di Trento porta anche alla riorganizzazione e al potenziamento della curia romana, il complesso di quegli organismi che collaborano col Papa. I provvedimenti emanati dai più importanti dicasteri della curia (come la Congregazione del Concilio, cui spetta l'interpretazione autentica dei decreti conciliari, e quella De propaganda fide78, competente per i problemi che sorgono nell'applicazione del diritto canonico nelle terre di missione) si affiancano, completandoli ed integrandoli, ai provvedimenti pontifici, che perdono ormai la forma tradizionale della decretale, assumendo quella della costituzione o della bolla. Nascono così vastissime collezioni cronologiche, dette Bullaria, spesso curate da privati a fini pratici, poco diligenti e incomplete. In questo periodo la dottrina canonistica risente dell'evoluzione di tutto il diritto comune, che, superato il metodo esegetico della glossa e quello critico-ricostruttivo del commento, si indirizza verso la forma letteraria del tractatus, cioè dell'esame monografico degli istituti. Contemporaneamente, ampio rilievo è dato alle esigenze della prassi, cui si indirizzano le raccolte di Consilia, i pareri resi dai giuristi più celebri. L'influsso dell'umanesimo giuridico e della scuola si fa sentire anche a livello di diritto canonico e porta sia a tentativi “sincretistici” di esposizione congiunta del diritto romano (o civile) e del diritto canonico, che ad interessanti tentativi di rinnovamento sistematico a fini scientifici e didattici. Al 1563 risale un'opera di natura appunto didattica, le Institutiones iuris canonici del giurista perugino Giovanni Paolo Lancellotti (1522-1590)79, che, per la sua impostazione sistematica, avrà per lungo tempo ampio seguito per l'insegnamento nei seminari e nelle università, sino ad essere sostanzialmente accolta nell'ambito della codificazione del 1917. Sotto l'influsso dell'erudizione storico-critica anche i commentari esegetici del diritto canonico espongono ora la materia del diritto antico in modo più critico e profondo, tenendo conto anche della teologia tridentina; tra queste opere giova ricordare almeno i Iuris ecclesiastici universi libri tres di Agostinho Barbosa (†1649)80. Fiorenti centri di studio si sviluppano in Spagna (tra essi si segnala l'Università di Salamanca), per lo più ad opera di studiosi appartenenti ai due grandi ordini religiosi dei domenicani e dei gesuiti. A titolo di esempio, ricordiamo Francisco Suarez, autore di un poderoso trattato De legibus ac de Deo legislatore (1612), e Thomas Sanchez, a cui si deve un'opera fondamentale, di sterminata dottrina, sul matrimonio (De sancto matrimonii sacramento, 1607), ambedue 77 Nonostante i tempi non facili per la Chiesa e la cristianità, o forse provvidenzialmente proprio in aiuto ad essi, è il tempo in cui Dio risponde con la santità di alcuni suoi figli alle miserie umane di altri, con gran beneficio del corpo ecclesiale e della società tutta: è il tempo di s. Ignazio di Loyola, fondatore della benemerita Compagnia di Gesù, di s. Filippo Neri, fondatore dell'Oratorio, di s. Carlo Borromeo, incarnazione del modello di vescovo voluto da Trento, di s. Camillo De Lellis, “inventore” dell'ospedale in senso moderno e fondatore dei Camilliani, dei riformatori carmelitani s. Teresa d'Avila e s. Giovanni della Croce, di s. Girolamo Emiliani, fondatore dei Somaschi, e via discorrendo. 78 Lo ius missionarium, nato come diritto eccezionale, divenne in seguito, per non pochi istituti, quasi prototipo per quello generale e comune; in tal senso andrà la riconfigurazione della potestà dei vescovi nel passaggio tra il Codice del 1917 e quello vigente. 79 Con lo stesso titolo e la stessa impostazione fu un'opera meno fortunata del canonista pavese Mario Antonio Cucchi, edita nel 1564: cf. P. Erdö, Storia... cit., pp. 141-142; 146-148. 80 Cf. P. Erdö, Storia.. cit., pp. 145-146. 19 appartenenti alla Compagnia di Gesù. Successivamente si assiste al sempre più difficile ed impegnativo compito di aggiornare il diritto canonico tradizionale, tuttora ancorato alle decretali dei Papi medievali, con la sempre più ampia congerie di decisioni e direttive emanate dagli organi centrali della Chiesa. Le opere più importanti si devono a canonisti tedeschi, tra i quali spiccano il Pirhing 81, che riesce a fornire una visione sintetica di tutto il diritto canonico con il suo Universum ius canonicum (1674-1678), il Reiffenstüel e lo Schmalzgrüber, anch'essi autori di ampie opere sistematiche pubblicate nei primi decenni del 1700. Sempre nel corso del 1700 82 imponente è l'opera legislativa di Benedetto XIV (1740-1758) 83, che iniziò anche una sua collezione ufficiale, il primo volume del suo Bollario dichiarato autentico, ma l'opera non proseguì, e da allora sino a Pio X (1903-1914) non si hanno raccolte ufficiali di documenti pontifici. In particolare è dovuta ad una costituzione di Benedetto XIV (Dei miseratione, del 1741) la riforma del processo matrimoniale canonico, nel contesto del quale viene introdotta sotto pena di nullità, la figura del “difensore del vincolo” matrimoniale e definitivamente sancita la necessità di una doppia sentenza conforme per potersi dichiarare nullo un matrimonio canonico; tale disciplina, seppure con qualche marginale mutamento, è sopravvissuta fino ai giorni nostri. Riguardo alla canonistica del XVIII secolo giova poi ricordare come in essa si evidenzino principalmente due elementi. Il primo, di ordine metodologico e sistematico, è dato dalla nascita e dalla fioritura, in ambito tedesco e ad opera soprattutto della Scuola canonistica di Würzburg (J. C. Barthel, J. N. Endres), della disciplina del “diritto pubblico ecclesiastico”, inteso come studio dell'organizzazione della Chiesa condotto in chiave apologetica e polemica verso le ingerenze in materia ecclesiastica e l'acceso giurisdizionalismo 84 che spesso caratterizzò lo Stato settecentesco. Il secondo, invece, proviene dall'influenza che le correnti gianseniste e regaliste hanno esercitato nell'ambito del diritto canonico e si concreta in due modalità, consistenti nell'apparire di opere canonistiche improntate a moduli giurisdizionalistici e ad un'ideologia di fondo filogiansenistica, e nel formarsi di trattazioni canonistiche che prendevano in considerazione oltre alle norme canoniche anche quelle emanate, in materia ecclesiale e cultuale, dai vari Stati. In tale quadro si pone il fondamentale trattato del Van Espen (Jus ecclesiasticum universum) dei primi anni del secolo, con un indirizzo marcatamente filogiurisdizionalistico, ed anche altre opere minori concernenti il diritto ecclesiastico vigente nei vari Stati. Nel corso del XIX secolo, il panorama della scienza canonistica, già entrato in una fase poco creativa nel secolo precedente, si presenta piuttosto in crisi, da qualunque punto di vista lo si voglia esaminare. I motivi generali di tale situazione sono complessi; in sintesi, vi contribuiscono la nascita ed il rafforzamento dello Stato liberale, che disconosce il valore giuridico delle norme della Chiesa, ponendo fine alla giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale; il trionfante radicalismo anticlericale della seconda metà dell'Ottocento, diffusosi in Europa nella forma del Kulturkampf in Germania e del combismo in Francia; oltre, infine, allo stesso fenomeno delle codificazioni 85 che rendeva anacronistico e desueto un diritto, come quello canonico, ancora basato su fonti in gran parte risalenti al Medioevo e di non sempre agile fruizione. In ambito ecclesiastico si assiste ad un incremento di interesse verso il già ricordato Jus publicum ecclesiasticum, ad opera nelle università pontificie di autori come il Soglia e il Tarquini, poi divenuti cardinali. Erede della loro opera e di questo indirizzo culturale-politico 86 81 Cf. P. Erdö, Storia.. cit., pp. 142-143. 82 Per una panoramica del secolo, cf. P. Erdö, Storia.. cit., pp. 145-156. 83 Lo studio storico delle fonti venne splendidamente applicato nella spiegazione del diritto vigente nella sua opera più diffusa e con il maggior influsso nella canonistica dei secoli successivi, De synodo dioecesana, che l'autore pubblica già da Papa. Ma l'opera riformatrice in genere di papa Lambertini si esplicò in diversi settori del diritto canonico esercitando la sua influenza sino alla codificazione del 1917, tanto che il card. Gasparri nel suo elenco di fonti del codex (voll. I e II), riporta numerosissime costituzioni di questo grande pontefice (dal n. 302 al n. 447). 84 Si tratta di quella corrente di pensiero che vede il modello statale come l'unico capace di emanare un diritto nativo, a scapito dell'autonomia ecclesiale. A livello politico, il giurisdizionalismo portò ad un forte controllo dello Stato sulla vita della Chiesa: diffusione dei documenti pontifici, designazione delle cariche ecclesiastiche, festività religiose, criteri di monacazione sono alcune delle materie in cui lo Stato si sentiva in diritto di intervenire, limitando di fatto la libertà della Chiesa. 85 Il Codice di Napoleone in Francia risale al 1804. 86 Il fine è rivendicare alla Chiesa, di fronte allo Stato moderno, la dignità e le prerogative di una societas juridice perfecta avente una vera potestas indirecta in temporalibus. 20 sarà nel Novecento il card. Alfredo Ottaviani, autore di un fortunato manuale, più volte riedito. L'esigenza, poi, di avere testi introduttivi al diritto canonico per i seminari maggiori e le facoltà giuridiche, darà luogo ad un'ampia quanto grigia e poco originale produzione di opere di tipo istituzionale-divulgativo, improntate spesso allo schema delle Institutiones del Lancellotti; la lingua usata, tranne rare eccezioni87, è sempre il latino. Proseguendo in questa sintetica ricostruzione storica, arriviamo ad un altro concilio ecumenico, il Vaticano I, iniziato dal beato Pio IX l'8 dicembre 1869 ed interrottosi prematuramente l'anno successivo in seguito alla presa di Roma e alla sua acquisizione al regno d'Italia. Questo concilio è ricordato soprattutto per la proclamazione dell'infallibilità del Papa, quando parla ex cathedra88, ma esso ha costituito anche l'occasione per proporre una profonda riforma di tutto il diritto della Chiesa. Risulta infatti che numerosi dei vescovi aventi parte al concilio abbiano lamentato lo stato di caos, dispersione e desuetudine in cui versava il diritto canonico, invocando un'apposita riforma; alcuni fra loro, per riscattarlo da tale rovinosa condizione, si pronunciano a favore dell'abbandono del metodo sin lì utilizzato per adottare il nuovo strumento della codificazione, al fine di restituire dignità ed attualità al corpus giuridico della Chiesa89. La sospensione del Concilio e i più urgenti problemi di carattere politico che la “questione romana” pone alla Santa Sede fanno sì che la richiesta di riforma del diritto venga accantonata: né Pio IX, né Leone XIII se ne occupano, pur promulgando provvedimenti diretti a riordinare e unificare la disciplina di taluni istituti. Sorge nel contempo un dibattito anche tra gli studiosi: alcuni si mostrano perplessi sull'utilizzabilità di un codice per il diritto della Chiesa poiché, tra l'altro, ne avrebbe sacrificato la tipica elasticità (ad es. Friedberg, Ruffini, Calisse); altri ritengono che, date le tendenze politiche degli Stati, una codificazione, anche se realizzata, non avrebbe potuto avere attuazione (Wernz), finendo per costituire un'umiliazione per la Chiesa. Altri canonisti, tuttavia, di differente levatura ed estrazione (ad es. De Luise, Colomiatti, Hollweck, Pillet, Deshayes, Pezzani) si cimentano nella composizione di codificazioni private, sia per dimostrare agli scettici che l'impresa di estrinsecare dalle fonti il contenuto squisitamente precettivo era fattibile, e quindi additare un modello per il supremo legislatore della Chiesa, sia, più modestamente, per venire incontro alle urgenze della prassi con sillogi delle disposizioni in vigore nei vari settori dello ius canonicum90. Mentre questa disputa è ancora in corso, l'istanza viene recepita e Papa Pio X, subito dopo la sua elezione, le dà avvio con la cooperazione di uno dei più insigni giuristi dell'epoca, Pietro Gasparri, poi Cardinale Segretario di Stato. Il 19 marzo del 1904 Pio X emana il motu proprio “Arduum sane munus”, con cui istituisce una commissione di Cardinali e una di “consultori” per elaborare e presentare i vari progetti di lavoro, chiedendo aiuto anche a teologi e canonisti italiani e stranieri, invitati come “collaboratori”; per altro tutto l'episcopato mondiale (coinvolti circa cinquemila prelati) è invitato a partecipare all'opera, esprimendo la propria opinione sui mutamenti e le correzioni da apportare alla legislazione ecclesiastica, tramite consultazione epistolare già nello stesso 190491, poi ancora tra il 1912 e il 1914. La morte di s. Pio X (20 agosto 1914) e lo scoppio della guerra mondiale non interrompono i lavori di codificazione e nel luglio del 1916 la commissione cardinalizia termina la revisione delle osservazioni dei vescovi. Dopo l'annuncio di fine lavori dato il 4 dicembre 1916, il 27 maggio 1917 (giorno di Pentecoste) con la costituzione Providentissima Mater Ecclesia papa Benedetto XV (1914-1922) promulga ufficialmente il primo codice della storia della Chiesa, intitolato Codex Iuris Canonici (solitamente abbreviato CIC17). Si tratta ora di un vero codice, formato da canoni brevi e sintetici, destinati a regolare la vita della Chiesa di rito latino. Esso si divide in cinque libri (per un totale di 2414 canoni): il primo 87 Ad esempio, l'opera del perugino Pietro Vermiglioli, 1835-39. 88 Questa è garantita personalmente al Papa nelle condizioni precise e limitative enunciate nella costituzione Dei Filius: «Quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e di dottore di tutti i cristiani, definisce, in virtù della sua suprema autorità apostolica, che una dottrina in materia di fede e di costumi deve essere ammessa da tutta la Chiesa». 89 «Le proposte di codificazione nascono dall'esigenza di una maggior uniformità della legislazione ecclesiastica, che, per altro, implicando necessariamente una limitazione del pluralismo disciplinare, si risolve in una riaffermazione dell'unità della Chiesa universale rispetto alla diversità delle Chiese particolari» (G. Feliciani, Le basi del diritto canonico, Il Mulino, Bologna 2002, p. 16). 90 Per più ampie notizie su questo dibattito, cf. R. Astorri, Le leggi della Chiesa tra codificazione latina e diritti particolari, CEDAM, Padova 1992, pp. 9-42. 91 Questa lettera del card. Gasparri fornisce da subito l'indicazione circa la sistematica del codice che, scostandosi nettamente dalla struttura delle collezioni di decretali, si ispira fondamentalmente ai trattati di diritto canonico in uso nelle università. 21 tratta delle norme generali, il secondo delle persone, il terzo delle cose, cioè dei mezzi di cui la Chiesa si serve per la sua missione, siano essi di natura temporale o spirituale (si collocano qui anche il matrimonio e gli altri sacramenti), il quarto libro si occupa dei processi, comprese le cause di beatificazione e canonizzazione, mentre il quinto è dedicato al diritto penale. Il Codice è poi integrato da un'appendice contenente nove costituzioni relative a vari ambiti, dall'elezione del Papa a materie beneficiarie e disciplinari. L'intelaiatura del Codice appare dunque ricalcata sul paradigma delle Institutiones iuris canonici del già citato canonista del sec. XVI Giovanni Paolo Lancellotti, rifacentesi a sua volta alla tripartizione gaianogiustinianea; in questo schema però viene inserito un complesso di norme già collaudato, vigente da tempo, desunto da tutte le fonti precedenti, espungendo solo le norme ormai superate. Al di là di alcune critiche e mancanze92, il Codice ha consentito non solo un'ordinata riorganizzazione delle Chiese locali, ma ha anche favorito lo studio sistematico del diritto canonico, l'indagine sulla sua storia e il suo confronto con le varie parti del diritto civile vigente; si è così potuto distinguere meglio nella dottrina la natura peculiare del diritto canonico e risalire nelle sue linee essenziali alle fonti della Rivelazione, studiarne le relazioni con il mistero della Chiesa e preparare così anche il fiorire del Concilio Vaticano II. 2.2.4. Il periodo contemporaneo (dal XX sec. ad oggi) L'autorità del Codice e la sua idoneità a regolare in modo ordinato, sicuro e completo la vita della Chiesa non saranno più messe in discussione per alcuni decenni, sino al periodo successivo al secondo conflitto mondiale, quando andrà delineandosi e facendosi progressivamente più imperiosa l'esigenza di un profondo ripensamento sulla stessa realtà della Chiesa e sulla sua capacità di adempiere la sua missione evangelizzatrice in un mondo profondamente cambiato: questa spinta riformatrice sfocia nella celebrazione di un nuovo concilio ecumenico, il Vaticano II. L'anziano Giovanni XXIII recepisce questi fermenti e annuncia a sorpresa 93 la convocazione di questo Concilio, che avrebbe riunito in quattro sessioni dal 1962 al 1965 tutti i vescovi della Chiesa cattolica, oltre al sinodo della diocesi di Roma e alla riforma del diritto canonico. L'esigenza di tale riforma porta il beato Giovanni XXIII già nel 1963 ad istituire una prima commissione di studio, anche se i lavori di revisione veri e propri cominciano dopo la chiusura del Concilio, nel 1967, sotto la guida di una commissione cardinalizia istituita da Paolo VI e presieduta dal card. Pericle Felici; questo si avvale dell'apporto di una folta schiera di studiosi ed esperti, suddivisi in gruppi di studio, ciascuno dedito ad uno specifico settore della legislazione. Data la necessaria capillarità del lavoro, il suo cambiamento di prospettiva – dalla riforma del Codice del 1917, alla sua sostituzione ex novo con un altro – e alcune resistenze interne i lavori si sono protratti per molti anni94. Le dinamiche del rinnovamento fomentate dal Concilio non potevano per altro non ripercuotersi sulla legislazione, tanto che ad esso è seguita una frenetica e densa produzione normativa, specie da parte di Paolo VI. Tra i più importanti documenti di contenuto canonistico in questa fase si possono ricordare il m.p. “De Episcoporum muneribus” (1966), sui compiti istituzionali dei vescovi, il m.p. “Ecclesiae Sanctae”, dello stesso anno, sull'applicazione di alcuni documenti conciliari, il m.p. “Sacrum Diaconatus Ordinem” (1967), per la restaurazione del diaconato permanente nella Chiesa latina. Ad essi vanno aggiunti la costituzione apostolica “Regimini Ecclesiae universae”, sempre del 1967, circa il riordino della Curia romana, e due importanti encicliche, la “Sacerdotalis caelibatus” (1967), che riconferma il valore del celibato sacerdotale, oggetto di forte discussione negli anni del post Concilio, e la “Humanae vitae” (1968), che riconferma, seppure con alcune caute aperture verso la procreazione responsabile, la tradizionale dottrina cristiana in materia di sessualità e apertura alla vita. In campo matrimoniale, infine, sono da ricordare due importanti motu proprio: “Matrimonia mixta”, che ha predisposto una disciplina più moderna e più rispettosa dei diritti e della dignità degli appartenenti ad altre confessioni cristiane nella celebrazione dei matrimoni con cattolici, e “Causas matrimoniales”, che introduce novità di rilievo nel processo matrimoniale, accrescendo i diritti di difesa delle parti e snellendo il procedimento attraverso una possibile semplificazione 92 Per un bilancio, cf. G. Feliciani, Le basi del diritto canonico, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 20-22. 93 Discorso del 25 gennaio 1959 nella basilica di s. Paolo fuori le Mura, a Roma. 94 Per una storia sintetica dell'iter di codificazione, cf. L.Musselli, Storia del diritto canonico, Giappichelli, Torino 2007, pp. 103-106; G. Feliciani, Le basi del diritto canonico, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 24-44. 22 della fase di appello. A fronte di una siffatta produzione normativa e alla contestuale lentezza nei lavori di preparazione di un nuovo Codice che ne tenesse conto, Giovanni Paolo II, preoccupato per la situazione di incertezza e disorientamento venutasi a creare con il persistere di una legislazione ormai superata – non contraddetta, ma completata dai principi affermati dal Concilio, e per questo largamente disattesa – imprime una svolta decisiva ai lavori della riforma, riuscendo a portarla a termine con la promulgazione di un nuovo Codice, il 25 gennaio 1983 (costituzione “Sacrae disciplinae leges”). Il titolo del nuovo codice resta identico al precedente (per distinguerlo da esso, questa seconda opera viene abbreviata CIC83, o semplicemente CIC). Lo stesso pontefice ha da subito voluto sottolineare la stretta derivazione della nuova legislazione dalla dottrina conciliare, «quel carattere di complementarietà che il codice presenta in relazione all'insegnamento del Concilio Vaticano II», tanto da poterlo intendere «come un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico l'ecclesiologia conciliare. È quindi ai documenti del Concilio che ci si deve sempre riferire per intendere nel loro più genuino e pieno significato le disposizioni del codice. Ma prima ancora e al di sopra di questi due libri va posto il Libro eterno della Parola di Dio, di cui centro e cuore è il Vangelo». Si delinea così «come un ideale triangolo: in alto c'è la Sacra Scrittura, da un lato gli atti del Vaticano II e dall'altro il nuovo Codice Canonico»95. Il nuovo codice96 consta di 1752 canoni ed è diviso in sette libri, mostrando la tendenza a volere contemperare l'antica sistematica di tipo giuridico nella divisione delle materia con criteri di derivazione teologica; così, il primo libro continua ad essere dedicato alle norme generali e gli ultimi due al diritto penale e al diritto processuale. Nuova è invece la sistematica dei quattro libri centrali: il secondo, con un titolo di chiara impostazione conciliare (Il popolo di Dio), contiene la normativa riguardante tutti i soggetti appartenenti alla Chiesa – i christifideles – nelle loro varie condizioni ed articolazioni; accanto ad essa, le norme che regolano la struttura di governo in tutti i suoi molteplici livelli. Il terzo ed il quarto libro disciplinano due fondamentali compiti che la Chiesa, proprio per la missione specifica affidatale da Cristo suo fondatore, è tenuta a svolgere: quello di insegnare (libro III) e quello di santificare (libro IV; la gran parte di questo libro è occupata dalla disciplina giuridica dei sacramenti). Il quinto libro contiene la regolamentazione dei beni temporali, supporti materiali ed economici di cui anche una comunità religiosa ha inevitabilmente bisogno. Come abbiamo mostrato ripercorrendo la lunga storia della Chiesa, lo sviluppo e l'evoluzione del suo ordinamento giuridico non sono altro che il portato necessario del suo essere nel mondo, a servizio del mondo, ed è pertanto comprensibile con facilità che, in un'epoca segnata dalla complessità e dalla velocità delle trasformazioni, l'attività legislativa di Giovanni Paolo II nei quasi ventisette anni del suo pontificato non si sia fermata qui, ma abbia regolato e ordinato altri ambiti della vita della Chiesa. Così vanno ricordate la costituzione “Pastor bonus” (1988), che ha dato un nuovo assetto a quel complesso di organi, la curia romana, preposto al governo della Chiesa universale, e la costituzione “Universi dominici gregis” (1996), che ha disposto una nuova integrale regolamentazione per uno dei momenti più delicati che si trova ad affrontare la Chiesa, quello della sede vacante alla morte del Pontefice e dell'elezione del successore. Degne di menzione sono anche altre costituzioni apostoliche, come quella che ha profondamente innovato le procedure per giungere alla proclamazione di nuovi beati e santi nella Chiesa (“Divinus perfectionis Magister”, 1983)97, così come quelle che hanno istituito o riformato alcune strutture istituzionali della Chiesa, come la prelatura personale (“Ut sit”, 1982) e l'ordinariato militare (“Spirituali militum curae”, 1986), o anche il m.p. che ha precisato la natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali, con le conseguenti prerogative ad esse spettanti (“Apostolos suos”, 1998). L'attività legislativa del pontefice è spesso affiancata da altri provvedimenti normativi (denominati istruzioni, lettere circolari, decreti, direttori) emanati dai vari dicasteri della curia romana; essi hanno per lo più natura di normazione secondaria, analoga a quella dei regolamenti nell'ordinamento italiano, essendo diretti ad integrare, esplicitare, rendere 95 Giovanni Paolo II, Discorso di presentazione del codice canonico del 1983. 96 Dal giorno della sua promulgazione, è stato modificato il testo di alcuni canoni attraverso i motu proprio Ad tuendam fidem del 1998 e Omnium in mentem del 2009. Sulle caratteristiche peculiari del nuovo codice si vedano: J.B.Beyer, Il Codice del Vaticano II, EDB, Bologna 1983; A.D'Ostilio, La storia del nuovo codice di diritto canonico, Ed.Vaticana, Città del Vaticano 1983; G.Feliciani, s.v. «Codice» - III. Codice di diritto canonico, in Enciclopedia Giuridica, vol. VI, 1990. 97 Tutta la materia è stata successivamente riordinata con l'istruzione Sanctorum Mater del 2007. 23 concretamente operanti le disposizioni contenute nella legislazione pontificia. Tra questi atti una menzione particolare merita l'istruzione “Dignitas connubii” (2005), predisposta dal Pontificio Consiglio per l'interpretazione dei testi legislativi, in collaborazione con altri dicasteri della curia romana: essa riunisce in modo sistematico tutte le disposizioni del codice riguardanti, anche indirettamente, il processo per le cause di nullità del matrimonio, corredandole ed integrandole con altre disposizioni che ne facilitino la concreta applicazione e ne evitino il fraintendimento. Tuttavia, il provvedimento normativo più rilevante e significativo emanato nel 1990 98 è il Codex canonum ecclesiarum orientalium (abbreviato CCEO), destinato a regolare la vita di comunità dotate di peculiare storia e tradizione come le ventuno Chiese cattoliche orientali 99, salvaguardandone la legittima autonomia, pur nello stretto legame di comunione con Roma. Esso racchiude unicamente le norme essenziali e comuni a tutte queste Chiese, rinviando in maniera massiccia al diritto particolare di ciascuna100. Ambedue le codificazioni sono dunque quasi “leggi-quadro”, disponibili e dischiuse all'apporto del diritto particolare, che vale in zone geografiche ristrette o vincola soltanto i fedeli di certe comunità. La legislazione particolare faceva capo in passato precipuamente ai vescovi preposti alle Chiese locali (o ai concili plenari o provinciali); recentemente, nella Chiesa latina, ha conosciuto una stagione di rigogliosa fioritura l'attività normativa delle conferenze episcopali. Esse emanano decreti generali nelle materie previste dal diritto universale, oppure in quelle individuate da un mandato speciale della Santa Sede. Tali decreti generali normalmente integrano e perfezionano la legislazione universale, adattandola alle circostanze di luogo e di tempo, coordinandola con la normativa secolare vigente nelle diverse località. Attualmente, sono spesso gli accordi stipulati dalla Santa Sede con gli Stati a demandare alle conferenze episcopali di provvedere con proprie norme ad una puntuale capillarizzazione della disciplina pattizia. 98 Costituzione Sacri Canones. 99 Quelle che hanno restaurato la piena comunione con la sede romana dopo lo scisma del 1054. 100 «Fra i connotati salienti di questa codificazione può registrarsi, oltre ad una nitida trasparenza e un eloquente ossequio, da parte della disciplina giuridica, dei principi teologici gelosamente custoditi in Oriente, il rispetto dell'autonoma organizzazione gerarchica, l'interesse che circonda l'ecumenismo e l'attività missionaria, l'attenzione rivolta alla vita consacrata, un maggior equilibrio tra potere personale e collegiale con una valorizzazione della dimensione della sinodalità, e ancora, sotto un profilo peculiare, il rigetto della concezione puramente contrattualistica del matrimonio...», G.Dalla Torre – G.Boni, Conoscere il Diritto canonico, Ed. Studium, Roma 2006, pp.87-88. 24 3. L'ATTUALE CORPO LEGISLATIVO A somiglianza dell'antico corpus iuris canonici, anche oggi possiamo riconoscere un insieme di documenti normativi della massima importanza, che sostengono l'ossatura giuridica della Chiesa, ne costituiscono il quadro di riferimento. Ci occuperemo dunque di tre documenti: • la costituzione apostolica Pastor Bonus, che disciplina la struttura e il funzionamento della curia romana, cioè quell'insieme di organismi che coadiuvano il pontefice nel governo della Chiesa universale; • il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, che è l'unico codice di riferimento delle Chiese cattoliche orientali; • il Codex Iuris Canonici, che è l'unico codice di riferimento della Chiesa cattolica latina. Anche questi tre testi legislativi potrebbero essere disposti a triangolo, con la Pastor Bonus collocata al centro nel vertice superiore e i due Codici collocati in basso: la disciplina sulla curia romana ha infatti vigore per l'intera Chiesa cattolica, mentre i due Codici si rivolgono a due gruppi di destinatari ben distinti. Non bisogna perdere di vista il fatto che questo corpo legislativo, pur della massima importanza, non esaurisce il diritto della Chiesa, ma ne è l'espressione più alta e universale. 3.1. Pastor Bonus (PB, 1988) Lettura e commento di alcuni articoli, presenti nell'estratto consegnato a lezione: EXCURSUS 3. Costituzione Apostolica PASTOR BONUS sulla curia romana (1988) • • • • • • art. 1, 2, 3, 13: introduzione art. 28-32: visita ad limina art. 39,40,41,45,46: Segreteria di Stato art. 48, 51, 56, 58, 62, 67, 68, 71, 76, 77, 85, 89, 93, 96, 105, 106, 110, 111, 112, 113, 115, 116: le nove congregazioni art. 117, 118, 121, 122, 123, 124, 126, 128: i tre tribunali (elenco dei dodici pontifici consigli) 3.2. Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium (CCEO, 1990) 3.2.1. I testi conciliari relativi alle Chiese orientali cattoliche EXCURSUS 4. Testi del Concilio Vaticano II relativi alle Chiese cattoliche orientali Il decreto conciliare sull’ecumenismo (Unitatis Redintegratio n.13b), riferendosi alle principali categorie di scissioni avvenute nella Chiesa nel corso dei secoli, afferma che «le prime di esse avvennero in oriente, sia per la contestazione delle formule dogmatiche dei concili di Efeso e di Calcedonia, sia, più tardi, per la rottura della comunione ecclesiale fra i patriarcati orientali e la Sede romana». In seguito a queste scissioni, si sono progressivamente formate ed organizzate varie comunità orientali, mediante il ristabilimento della comunione ecclesiastica con la Chiesa di Roma. La suprema autorità della Chiesa cattolica le ha riconosciute espressamente o tacitamente come tali. Storicamente quasi tutte101 le Chiese102 orientali, aventi comunione con la Sede Apostolica di 101 102 Fanno eccezione la Chiesa Italo-albanese e la Chiesa maronita: quest'ultima è situata principalmente in Libano ed è interamente in comunione con la Sede Romana, non esistendo dunque una Chiesa maronita ortodossa, ma solo la Chiesa maronita cattolica. È bene fare una sottolineatura riguardo all'uso del plurale nella parola “Chiese”. Infatti, come precisa la “Dichiarazione sull’espressione «Chiese sorelle»” della Congregazione per la dottrina della fede (30 giugno 2000), “in senso proprio, Chiese sorelle sono esclusivamente le Chiese particolari (o i raggruppamenti di Chiese particolari: 25 Roma, provengono da Chiese orientali che in poche diverse hanno rotto per varie cause la comunione con Roma. Infatti, alcuni dei tentativi di unione, nel secondo millennio, tra le Chiese d’Occidente e d’Oriente, che, come è noto, per ragioni varie fallirono, portarono alla realizzazione di riunificazione tra frazioni di queste Chiese orientali e la Chiesa cattolica romana, mentre altre frazioni orientali, quantitativamente più rilevanti, rimangono tuttora nello stato di non comunione con Roma. «Questo sacro Concilio, ringraziando Dio che molti orientali figli della Chiesa cattolica, i quali custodiscono questo patrimonio e desiderano viverlo con maggior purezza e pienezza, vivano già in piena comunione con i fratelli che seguono la tradizione occidentale, dichiara che tutto questo patrimonio spirituale e liturgico, disciplinare e teologico, nelle diverse sue tradizioni, appartiene alla piena cattolicità e apostolicità della Chiesa» (UR n. 17b). Per Chiese orientali si intendono qui proprio le Chiese orientali cattoliche, riconosciute da Roma in varie epoche. A tali Chiese fu dedicato il decreto del Vaticano II Orientalium Ecclesiarum (1964), affinché «esse fioriscano ed assolvano con nuovo vigore apostolico la missione a loro affidata» (OE n.1). Il decreto OE chiama le Chiese orientali cattoliche «Chiese particolari o riti» e le situa nel corpo della Chiesa una, santa: «unendosi in varie comunità stabili, congiunti dalla gerarchia, costituiscono le Chiese particolari o riti» (OE n.2). Più esplicita è in merito la costituzione dogmatica sulla Chiesa (LG 23d): «Per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi stabilite dagli apostoli e dai loro successori, durante i secoli si sono costituite in vari raggruppamenti, organicamente congiunti, i quali, salva restando l'unità della fede e l'unica costituzione divina della Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un proprio patrimonio teologico e spirituale. Alcune fra esse, soprattutto le antiche Chiese patriarcali, quasi matrici della fede, ne hanno generate altre a modo di figlie». Quindi le Chiese orientali cattoliche, sebbene riconosciute dalla Sede Apostolica dopo la rottura di comunione tra Oriente e Occidente, affondano le radici nelle antiche Chiese patriarcali, matrici della fede e delle loro tradizioni. Perciò la Chiesa cattolica non si identifica con la Chiesa latina, ma si compone di queste varie Chiese particolari o riti, cioè della Chiesa latina d’occidente e delle Chiese orientali, le quali, sebbene siano in parte tra loro differenti in ragione di riti liturgici, di disciplina ecclesiastica e di patrimonio teologico e spirituale, sono tuttavia allo stesso modo unite tra loro nella fede, sacramentalità ed ecclesialità, e in piena comunione ecclesiastica con la Chiesa di Roma, riconoscendo il primato del ministero del Papa, vescovo di Roma, sulla Chiesa cattolica. OE n. 3 afferma che queste varie Chiese «sono allo stesso modo affidate al governo pastorale del romano Pontefice, il quale per volontà divina succede al beato Pietro nel primato sulla Chiesa universale». Conseguenza ecclesiologica e canonica dell’unità e della pluralità della Chiesa è che «le Chiese d’Oriente come anche le Chiese d’Occidente hanno il diritto e il dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolari», poiché si raccomandano per veneranda antichità, sono più corrispondenti ai costumi dei loro fedeli e più adatte a provvedere al bene delle loro anime» (OE n. 5). «Il diritto e il dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolari» comporta soprattutto una propria autorità superiore ed autonomia interna entro i confini del proprio territorio, ossia una potestà legislativa, amministrativa e giudiziale, salva restando l’autorità suprema su di esse del romano pontefice e del concilio ecumenico. Perciò, secondo il Vaticano II, ciò che costituisce ecclesiologicamente e canonicamente una «Chiesa particolare o rito» viene descritto nei termini seguenti: l’aggruppamento stabile di fedeli (clero, monaci, religiosi e fedeli laici), organicamente congiunto da una gerarchia propria, il quale, nell’unità della Chiesa universale, vive e cresce nel suo patrimonio liturgico, teologico, disciplinare e spirituale. 3.2.2. Terminologia Il decreto OE, trattando delle Chiese orientali cattoliche, usa la terminologia «Chiese particolari o riti», identificando in questo modo il concetto di Ecclesia particularis (Chiese patriarcali, Chiese arcivescovili maggiori, Chiese metropolitane) con quello di ritus. La Pontificia commissione per la revisione del Codice di diritto canonico orientale ha giudicato il termine ritus inadatto a significare pienamente la realtà di una determinata comunità cattolica radunata intorno ad una gerarchia e dotata di particolari elementi etnico-religiosi, specialmente dopo che ad esempio, i Patriarcati e le Metropolie) tra di loro” (n. 10). Di conseguenza è inappropriato usare questi termini riferendosi ad esempio alla Chiesa cattolica e a quella ortodossa, perché occorre “rispettare una fondamentale verità della fede cattolica: quella cioè dell’unicità della Chiesa di Gesù Cristo. Esiste infatti un’unica Chiesa, e perciò il plurale Chiese si può riferire soltanto alle Chiese particolari” (n. 11). 26 è stato riconosciuto a queste comunità lo status di Ecclesiae sui iuris. Il termine ritus o Ecclesia ritualis, in uso dal sec. XVI, faceva convergere l’attenzione sulle particolarità piuttosto liturgiche, a danno di un intero patrimonio spirituale, culturale, storico e disciplinare. Nel frattempo il nuovo Codice della Chiesa latina ha usato l’espressione Chiese particolari per indicare le diocesi, chiamate nel diritto orientale eparchie. Infatti, il can. 368 prescrive che «le Chiese particolari, nelle quali e dalle quali sussiste la sola e unica Chiesa cattolica, sono innanzitutto la diocesi…»; di conseguenza, nel can. 177, § 1 del nuovo CCEO, l’eparchia è chiamata “Chiesa particolare”, e nei cann. 27 e 28 viene descritta la nozione di Ecclesia sui iuris e di ritus. Secondo il can. 27, «si chiama, in questo Codice, Chiesa sui iuris, un raggruppamento di fedeli cristiani congiunto dalla gerarchia, a norma del diritto, che la suprema autorità della Chiesa riconosce espressamente o tacitamente come sui iuris». Perciò, gli elementi giuridici costitutivi di una Ecclesia sui iuris sono: a) l’aggruppamento di fedeli; b) la gerarchia propria con cui tale aggruppamento è legittimamente congiunto; c) il riconoscimento espresso o tacito, da parte della suprema autorità della Chiesa, a un così strutturato aggruppamento di fedeli, dello status di Ecclesia sui iuris. Ogni Chiesa sui iuris, così costituita, è considerata dal diritto come una persona giuridica, rappresentata dal proprio capo (patriarca, arcivescovo maggiore, metropolita). Ogni Chiesa sui iuris segue ed osserva il proprio rito; il rito non è un elemento giuridico della Chiesa sui iuris, ma il suo patrimonio. Il can. 28, § 1 definisce il rito come «patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è proprio di ciascuna Chiesa sui iuris». I vari riti orientali provengono dalle grandi cinque tradizioni, così riportate, in ordine alfabetico, nel can. 28 §2: “I riti di cui si tratta nel Codice sono, a meno che non consti altrimenti, quelli che hanno origine dalle tradizioni Alessandrina 103, Antiochena104, Armena105, Caldea106 e Costantinopolitana107” (quest'ultima tradizione è comunemente detta bizantina). Da queste cinque tradizioni rituali discendono tutte le Chiese sui iuris: 108 Tradizione Chiesa sui iuris Tipologia amministrativa Provenienza storica Localizzazione109 Alessandrina Copta patriarcale Chiesa ortodossa orientale Egitto, Sudan 210.000 Etiopica metropolitana Chiesa ortodossa orientale Etiopia 208.000 Siriaca patriarcale Chiesa ortodossa orientale Iraq, Siria 123.000 Maronita patriarcale (nessuna controparte) Libano, MO Antiochena Fedeli110 3.000.000 Siro malankarese arcivescovile magg. Chiesa ortodossa orientale Kerala (India) 410.000 Armena Armena patriarcale Chiesa ortodossa orientale MO 540.000 Caldea Caldea patriarcale Chiesa siro orientale MO 1.000.000 Siro malabarese arcivescovile magg. Chiesa siro orientale Kerala (India) 3.600.000 Melchita patriarcale MO 1.200.000 Bizantina Chiesa ortodossa bizantina 103 Chiesa copta di Egitto e Chiesa etiopica. 104 Chiesa sira, Chiesa maronita (Libano), Chiesa malankarese (India). 105 Chiesa armena. 106 Chiesa caldea, Chiesa malabarese (India). 107 Chiese bielorussa, bulgara, greca, italo-albanese, melkita, romena, rutena, slovacca, ucraina, ungherese, russa, albanese. 108 Questi dati provengono dalla “Scheda informativa sulle chiese cattoliche orientali” presentata il 7 ottobre 2010 durante la “Conferenza stampa di presentazione del convegno di studi per ricordare il XX anniversario della promulgazione del Codice di diritto canonico orientale (8-9 ottobre 2010)”. Il documento afferma che “attualmente nella Chiesa Cattolica ci sono 23 Chiese sui iuris”, ma poi stranamente ne elenca solo 22. 109 Indica il principale luogo di residenza dei fedeli della Chiesa, ma occorre tener presente che, a causa delle migrazioni, a volte i fedeli di una Chiesa sono più numerosi negli Stati esteri in cui sono emigrati (soprattutto le Americhe), rispetto ai Paesi di origine. 110 Sono stime a volte imprecise, data la scarsità di notizie relative a molte di queste Chiese, che vivono in situazione di minoranza all'interno di Stati o culture che le hanno a lungo oppresse (si pensi al blocco comunista dell'Europa orientale e ai Paesi a maggioranza musulmana). Il totale di queste cifre ammonta a 16.700.000 fedeli, che corrisponde ad una percentuale di 1,5% sul totale di circa 1.100.000.000 di cattolici nel mondo. 27 Ucraina arcivescovile magg. Chiesa ortodossa bizantina Ucraina 4.300.000 Romena arcivescovile magg. Chiesa ortodossa bizantina Romania 750.000 Rutena metropolitana Chiesa ortodossa bizantina Ucraina, USA 600.000 Slovacca metropolitana Chiesa ortodossa bizantina Slovacchia 350.000 Albanese (altra) Chiesa ortodossa bizantina Albania 4.000 Bielorussa (altra) Chiesa ortodossa bizantina Bielorussia 7.000 Bulgara (altra) Chiesa ortodossa bizantina Bulgaria 10.000 Croata (altra) Chiesa ortodossa bizantina Croazia 15.000 Greca (altra) Chiesa ortodossa bizantina Grecia, Turchia Italo albanese (altra) (nessuna controparte) Italia 61.000 Macedone (altra) Chiesa ortodossa bizantina Macedonia 11.000 Russa (altra) Chiesa ortodossa bizantina Russia Ungherese (altra) Chiesa ortodossa bizantina Ungheria 3.000 300.000 Si contano dunque sei Chiese patriarcali sui iuris, quattro Chiese arcivescovili maggiori sui iuris, tre Chiese metropolitane sui iuris, nove Chiese sui iuris. Queste diverse tipologie amministrative dipendono da ragioni storiche e dalla maggiore o minore estensione di ogni Chiesa sui iuris. A livello lessicale, l’eparchia nel diritto orientale indica la diocesi, e di conseguenza l’eparca è il vescovo diocesano. L’esarcato (o esarchia) è una determinata porzione del popolo di Dio, circoscritta territorialmente o in un altro modo, che, per speciali circostanze, non è stata costituita come eparchia ed è affidata alla cura pastorale di un esarca. La costituzione di esarcati entro i confini del territorio patriarcale spetta al patriarca con il consenso del sinodo permanente; negli altri casi alla Sede Apostolica. Ad esempio, una Chiesa patriarcale sui iuris è formata da un certo numero di eparchie (cioè diocesi) governate ognuna dal proprio vescovo; le eparchie sono raggruppate in provincie ecclesiastiche, guidate da un metropolita; le provincie ecclesiastiche formano a loro volta la Chiesa patriarcale sui iuris, con a capo il patriarca. Quindi il patriarca riassume in sé tre funzioni: vescovo della propria eparchia, che è la sede patriarcale; metropolita della propria provincia; patriarca dell'intera Chiesa sui iuris.111 Le Chiese arcivescovili maggiori sui iuris e le Chiese metropolitane sui iuris hanno una struttura simile: sono un insieme di eparchie, delle quali una è anche sede arcivescovile maggiore o sede metropolitana, per cui il suo vescovo, oltre a svolgere il ministero episcopale nella propria sede, è anche gerarca dell'intera Chiesa sui iuris. Si tratta di un insieme di eparchie sorelle tra loro, delle quali una è la sorella maggiore. Le altre Chiese sui iuris possono essere costituite anche da una sola eparchia. 3.2.3. La promulgazione del nuovo CCEO e la legislazione orientale Giovanni Paolo II, con la costituzione Sacri Canones (1990), ha promulgato il nuovo CCEO comune a tutte le Chiese orientali cattoliche. Questo Codice non è diviso in libri, come il Codice della Chiesa latina, bensì in titoli, come le antiche collezioni canoniche orientali; comprende XXX titoli, divisi in capitoli, suddivisi in articoli; il numero complessivo di canoni è 1546, mentre il Codice della Chiesa latina comprende 1752 canoni. Tra le caratteristiche ed istituzioni specifiche della legislazione orientale se ne possono evidenziare alcune. Il nuovo titolo (Codice dei canoni delle Chiese orientali) è stato adottato, «data la grande considerazione nella quale le Chiese orientali hanno sempre tenuto i “sacri canoni” nelle loro collezioni canoniche e nella pratica della vita, adoperando proprio la terminologia stessa degli antichi concili ecumenici». La stessa ragione vale anche per l’articolazione del Codice in titoli, invece dell’ordine sistematico in libri del Codice latino: «la scelta del sistema di codificazione secondo titoli anziché libri… è stata da sempre considerata uno dei maggiori segni… per rispettare davvero la specificità delle tradizioni orientali, tra le quali vi è anche quella espressa nella struttura delle loro Collezioni di canoni». 111 È come se, per assurdo, il sindaco di Roma fosse anche presidente della regione Lazio e capo dello Stato. 28 Ma oltre a questa ragione, di carattere piuttosto storico e tecnicogiuridico, è da considerare anche un aspetto di prospettiva teologica diversa. Tra le diverse denominazioni di Codex iuris canonici e Codex canonum Ecclesiarum orientalium (CCEO) è manifesta una percezione diversa del diritto canonico stesso. Infatti, tra ius e canon ci sono delle accentuazioni, certo non contrarie, ma complementari. Nella concezione orientale, il diritto canonico si presenta come una regola di fede, professata, celebrata e vissuta. Il diritto canonico è il diritto della grazia, la guida ferma e certa che conduce ed orienta il fedele alla grazia. Il diritto canonico è un diritto teologico, e non soltanto di natura giuridistica e pratico-pratica. Ogni norma canonica, fosse la più pratico-pratica, deve essere basata sulla teologia, poiché mira alla grazia, alla santificazione del popolo fedele. I padri dell’antica Chiesa, in Oriente, nel promulgare i sacri canoni, ne includono sempre la ratio teologica, biblica e patristica. È significativo in questa prospettiva l’ordinamento della normativa del nuovo CCEO. Quanto perciò alla disposizione sistematica del Codice in “titoli”, per ordine di priorità sostanziale delle materie, si inizia con i diritti e gli obblighi fondamentali di tutti i fedeli, lasciando ai due ultimi titoli le norme generali di diritto, in quanto necessario sussidio per il funzionamento delle varie istituzioni e funzioni ecclesiastiche. Il CCEO non intende modellarsi sul Codice latino, ed in alcuni titoli specifici emerge la dottrina teologica e canonica delle Chiese orientali; essa emergerà indubbiamente in maggior misura mediante la promulgazione del diritto particolare da parte delle varie Chiese cattoliche sui iuris, diritto/dovere che il CCEO garantisce in modo particolarmente vasto. 3.2.3.1. L’istituzione patriarcale e sinodale delle Chiese orientali Tra le caratteristiche istituzionali, il CCEO conferma l’istituzione patriarcale e sinodale delle Chiese orientali, che vige nella Chiesa da tempi antichissimi, già riconosciuta dai primi concili ecumenici. Le “Chiese patriarcali” tengono il primo posto, e non poche di queste si gloriano di essere state fondate dagli apostoli stessi; la figura del Patriarca è pertanto centrale in queste Chiese sui iuris. Il funzionamento dell’istituzione patriarcale e sinodale nelle Chiese orientali cattoliche fu per la prima volta regolato nel diritto orientale comune dal motu proprio di Pio XII Cleri sanctitati, del 2 giugno 1957. Questa normativa ha avuto delle modifiche essenziali dal decreto conciliare Orientalium Ecclesiarum, in base alle quali la Pontificia Commissione per la revisione del Codice di diritto canonico orientale ha proceduto alla formazione dei nuovi canoni in materia. Così un buon numero dei canoni del motu proprio sono stati rielaborati, altri sono stati aggiunti ex novo. A) Origine dell’istituzione patriarcale. Il can. 55 del CCEO modifica notevolmente il testo precedente e rifacendosi ad OE nn. 7 e 9, prescrive: «Secondo l’antichissima tradizione della Chiesa, riconosciuta già dai primi concili ecumenici, nella Chiesa vige l’istituzione patriarcale; perciò i patriarchi delle Chiese orientali, che presiedono ciascuno la sua Chiesa patriarcale come padre e come capo, devono essere trattati con singolare onore». Il decreto conciliare sull’ecumenismo (UR n.14) afferma che “in oriente vi sono molte Chiese... tra le quali tengono il primo posto le Chiese patriarcali, e non poche di queste si gloriano di essere state fondate dagli apostoli stessi”, e il decreto OE n. 11 conferma e dichiara che “l’istituzione patriarcale nelle Chiese orientali è una forma tradizionale di governo”. I diritti e i privilegi di cui gode ciascun patriarca, in quanto egli presiede alla sua Chiesa patriarcale, sono stati concessi dai concili ecumenici antichi, celebrati insieme dall’oriente e dall’occidente. Anche dopo la rottura della comunione ecclesiastica tra oriente e occidente, la Chiesa di Roma ha sancito l’istituzione patriarcale con il Concilio Lateranense IV (1215) e con quello di Firenze (1439), che ribadiscono la dignità dei patriarchi orientali come seconda solo a quella del Pontefice. B) Nozione, elezione e diritti dei patriarchi orientali. “Il patriarca è il vescovo a cui compete la potestà su tutti i vescovi, non esclusi i metropoliti, e su tutti gli altri fedeli cristiani della Chiesa a cui presiede, a norma del diritto approvato dalla suprema autorità della Chiesa” (can. 56). Il patriarca è il vescovo di una sede determinata, cioè di una “eparchia” (= Chiesa particolare) insignita del titolo patriarcale, da cui desume precisamente il suo titolo, nella quale egli ha gli stessi diritti e doveri del vescovo eparchiale, distinti da quelli che gli competono come padre e capo della propria chiesa patriarcale sui iuris. Il patriarca viene eletto canonicamente nel “sinodo dei vescovi” della propria chiesa patriarcale. Il nuovo patriarca chiede quanto prima, per lettera, dal Pontefice, la comunione ecclesiastica; 29 intanto, canonicamente eletto, il patriarca esercita validamente il suo ufficio dal momento della intronizzazione, con cui egli ottiene l’ufficio di pieno diritto; tuttavia, prima di ricevere dal Pontefice la comunione ecclesiastica, non convoca il sinodo e non ordina i vescovi della sua chiesa patriarcale (CCEO can. 63) La potestà del patriarca si esercita a norma del diritto; è annessa all’ufficio patriarcale, e può essere validamente esercitata solamente entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale; bisogna notare che le genuine tradizioni orientali sottolineano piuttosto la sinodalità e corresponsabilità di tutti i vescovi nel governo della propria Chiesa patriarcale, da qui l’esigenza che i diritti e i privilegi del Patriarca siano esercitati a norma del diritto. Il Patriarca presiede in quanto primus inter pares tra i vescovi della propria Chiesa patriarcale ed esercita la potestà di governo esecutiva o amministrativa, mentre la potestà di governo legislativa e giudiziaria nella chiesa patriarcale compete al “sinodo dei vescovi” (CCEO can. 110). La funzione patriarcale è inseparabile dalla sinodalità dei vescovi, salva restando l’autorità suprema del Romano Pontefice e del Concilio ecumenico sulla Chiesa universale, e di ciascun vescovo nella sua eparchia. Invece, perché tale potestà possa essere validamente esercitata sui propri fedeli fuori di questo territorio, si richiede che ciò sia stabilito dal diritto comune o dal diritto particolare, approvato dal Pontefice (CCEO can. 78). «Il territorio della Chiesa a cui presiede il Patriarca si estende a quelle regioni nelle quali si osserva il rito proprio della stessa Chiesa e dove il Patriarca ha il diritto legittimamente acquisito di erigere province, eparchie, come pure esarcati» (CCEO can. 146, § 1). Tra i diritti del Patriarca, il CCEO menziona: il diritto di rappresentare la persona giuridica della Chiesa patriarcale, di emanare decreti amministrativi e di indirizzare ai fedeli istruzioni e lettere encicliche; il diritto di costituire delle province ed eparchie ecclesiastiche, unirle, dividerle o sopprimerle, dopo aver consultato la Sede Apostolica e con il consenso del sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale; il diritto di ordinare i vescovi della propria Chiesa patriarcale e il diritto di essere commemorato nei servizi liturgici dopo il Pontefice; il diritto di vigilanza nei riguardi dei fedeli cristiani della propria Chiesa patriarcale ovunque dimoranti (CCEO cann. 79- 101; 110, § 4; 148, § 1); il diritto di stipulare delle convenzioni con l’autorità civile (CCEO can. 98). C) Il sinodo dei vescovi della Chiesa patriarcale. Il decreto OE n. 9d stabilisce che “i patriarchi coi loro sinodi costituiscono la superiore istanza per qualsiasi questione del patriarcato, non escluso il diritto di costituire nuove eparchie e di nominare vescovi del loro rito entro i confini del territorio patriarcale, salvo restando l’inalienabile diritto del romano pontefice di intervenire in singoli casi”. La funzione del Patriarca, perciò, come pater et caput della chiesa patriarcale, cui presiede, e come primus inter pares tra i vescovi della medesima Chiesa, è strettamente legata con l’istituzione sinodale, nel senso che la potestà patriarcale si esercita nel e col sinodo dei vescovi della Chiesa patriarcale. Anche la potestà amministrativa/esecutiva del Patriarca (CCEO can. 110, § 4) è in rapporto con quella legislativa e giudiziaria del sinodo (CCEO can. 110, §§ 1-2). Ovviamente non ci può essere sinodo senza il patriarca, a cui spetta convocarlo e presiederlo, ma non ci può essere patriarca senza sinodo. Il patriarca è il garante canonico del funzionamento della sinodalità nella propria Chiesa. La “struttura sinodale” di una chiesa può essere riassunta come segue: a capo dei vescovi di una vasta area territoriale si trova un vescovo, il quale, in quanto primo tra loro, è il loro capo; ogni vescovo però nella propria chiesa locale è il vero ed autentico capo e pastore, in virtù dell’ordinazione episcopale; per tutte le questioni che riguardano l’insieme delle Chiese locali di una vasta area territoriale le decisioni si prendono insieme da parte di tutti i vescovi, discutendo e deliberando in comune con il loro protos (il vescovo della città principale), cioè nel sinodo episcopale, di modo che essi non possano decidere nulla senza l’assenso del primo, e il primo non possa decidere nulla senza l’assenso degli altri. In questo senso, il primato del protos non è distruttivo della conciliarità, e la conciliarità non è distruttiva della primazialità del protos; con questo modo di agire dei vescovi sinodalmente nella concordia si rende culto e glorificazione a Dio per Cristo nello Spirito Santo. Al sinodo, al quale partecipano tutti e soli i vescovi ordinati della Chiesa patriarcale, spetta emanare leggi per la Chiesa patriarcale. Il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale costituisce la superiore autorità legislativa nella Chiesa patriarcale. Compete esclusivamente ad esso emanare leggi per l’intera Chiesa patriarcale. Ovviamente, le leggi emanate dal sinodo e promulgate dal patriarca non devono essere contrarie al diritto comune, ossia alle leggi e alle 30 legittime consuetudini della Chiesa universale, e alle leggi e alle legittime consuetudini comuni a tutte le Chiese orientali. Il diritto promulgato dall’autorità legislativa di ogni Chiesa patriarcale, cioè dal proprio Sinodo dei vescovi, costituisce fonte principale del proprio diritto particolare. Il sinodo è anche il superiore tribunale entro il territorio patriarcale 112. Infine, al sinodo spetta il diritto di eleggere canonicamente il patriarca e i vescovi entro il territorio della Chiesa patriarcale (CCEO cann. 110, §§ 1-3; 150, §§ 2-3; 1062) e la terna di candidati per l’ufficio di vescovi eparchiali, di vescovi coadiutori o ausiliari costituiti dalla Sede apostolica fuori del territorio patriarcale, per proporli per la nomina, a mezzo del patriarca, al Pontefice. Lo stesso diritto comune riserva alcuni atti amministrativi allo stesso Sinodo: ad esso compete accettare la rinuncia del patriarca, dopo aver consultato il pontefice; esso stabilisce i tempi del sinodo metropolitano nella Chiesa patriarcale, può determinare gli argomenti da trattare nell’assemblea patriarcale e ne approva gli statuti, pubblica il piano di formazione dei chierici, compone il direttorio catechistico, può proibire l’uso di certi strumenti di comunicazione sociale, stabilisce la somma minima e massima per l’alienazione dei beni temporali. D) L’elezione dei vescovi nelle Chiese orientali. Il Vaticano II con il decreto OE n. 9 stabilisce che “i patriarchi coi loro sinodi costituiscono la superiore istanza per qualsiasi negozio del patriarcato, non escluso il diritto di costituire nuove eparchie e di nominare i vescovi del loro rito entro i confini del territorio patriarcale, salvo restando l’inalienabile diritto del romano pontefice di intervenire in singoli casi”. Per quanto riguarda l’elezione dei vescovi delle Chiese patriarcali, il CCEO stabilisce: 1) i vescovi entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale sono designati mediante l’elezione canonica dal sinodo dei vescovi della medesima Chiesa 113; 2) i vescovi della Chiesa patriarcale istituiti fuori dei confini del territorio della Chiesa patriarcale vengono nominati dal romano pontefice. Il sinodo dei vescovi della Chiesa patriarcale elegge almeno tre candidati che tramite il patriarca propone al romano pontefice per la nomina. E) Le Chiese arcivescovili maggiori, le Chiese metropolitane, le altre Chiese sui iuris e gli esarcati. Tutte queste tipologie sono Chiese sui iuris a norma del can. 27 del CCEO. Il can. 151 del CCEO stabilisce: «L’arcivescovo maggiore è il metropolita di una sede determinata o riconosciuta dalla suprema autorità della Chiesa, il quale presiede a un’intera Chiesa orientale sui iuris, non insignita del titolo patriarcale». E il can. 152 aggiunge: «Quanto è detto nel diritto comune delle Chiese patriarcali o dei patriarchi s’intende che vale anche per le Chiese arcivescovili maggiori e per gli arcivescovi maggiori, a meno che non sia espressamente disposto diversamente dal diritto comune o non consti dalla natura della cosa». Perciò quanto precedentemente si è detto dei patriarchi e dei sinodi dei vescovi delle Chiese patriarcali vale anche per gli arcivescovi maggiori e per i sinodi delle rispettive Chiese. Secondo la tradizione orientale, le differenze tra il patriarca e l’arcivescovo maggiore sono piuttosto ad extra, nel grado onorifico, che ad intra, rispetto alla potestà. Tuttavia un’essenziale differenza consiste nella designazione dell’arcivescovo maggiore rispetto al patriarca. Infatti, l’arcivescovo maggiore viene canonicamente eletto nel sinodo dei vescovi della propria Chiesa, ma si richiede la “conferma” da parte del romano pontefice, mentre per il patriarca si richiede solo la concessione da parte del romano pontefice della “comunione ecclesiastica”. Quanto alle Chiese metropolitane sui iuris, il can. 155, § 1 stabilisce: «A una chiesa metropolitana sui iuris presiede il metropolita di una determinata sede, nominato dal romano 112 Esso elegge dal suo gruppo un Moderatore generale dell’amministrazione della giustizia; elegge due vescovi che con questo Moderatore come presidente costituiscono il tribunale collegiale, per giudicare le cause contenziose sia delle eparchie, sia dei vescovi, ; l’appello in queste cause si fa al sinodo dei vescovi della Chiesa patriarcale, escluso un ulteriore appello, salvo il diritto di ogni fedele di deferire la sua causa, in qualsiasi stato e grado del giudizio, all’esame dello stesso romano pontefice; il sinodo dei vescovi della Chiesa patriarcale può erigere un tribunale di primo grado per diverse eparchie dentro i confini del territorio della Chiesa patriarcale; il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale può riservare (con una legge emanata per gravi circostanze) la remissione delle pene al patriarca. 113 Il Sinodo dei vescovi della Chiesa patriarcale compone un elenco di candidati, che viene inviato tramite il patriarca alla Sede Apostolica per ottenere l’assenso del romano pontefice. L’elezione canonica avviene in base al suddetto elenco su cui il romano pontefice ha dato l’assenso. Se l’eletto è uno tra quelli compresi nell’elenco, il patriarca gli comunica l’elezione ed informa la Sede Apostolica. Se l’eletto non è tra quelli compresi nell’elenco, il patriarca informa la Sede Apostolica in vista di ottenere l’assenso del romano pontefice sul candidato eletto. 31 pontefice e aiutato, a norma del diritto, da un consiglio di gerarchi». Ovviamente le Chiese metropolitane non sono equiparate alle Chiese patriarcali né alle Chiese arcivescovili; l’assemblea dei loro vescovi non costituisce un sinodo con le potestà ad esso annesse. Per quanto riguarda la designazione del metropolita e dei vescovi della Chiesa metropolitana, il consiglio dei gerarchi invia alla Sede Apostolica, per ogni singolo caso di provvista, un elenco di almeno tre candidati, mentre la nomina spetta al romano pontefice, il quale può nominare anche uno che non risulti nel suddetto elenco. Infine, il nuovo Codice prevede la possibilità di erigere anche altre Chiese sui iuris minori, immediatamente dipendenti dalla Sede Apostolica. Perciò, il nuovo CCEO riconosce come Chiese di diritto proprio le antiche Chiese patriarcali, le Chiese arcivescovili maggiori e le Chiese metropolitane, mentre ammette anche altre forme minori di Chiese sui iuris. Si tratta, ovviamente, di un’autonomia relativa secondo diversi gradi, delimitata dal diritto comune della Chiesa universale, dal diritto comune delle Chiese orientali, e salvo sempre restando il primato di diritto divino del romano pontefice. È proprio nel contesto di questa autonomia, che le Chiese sui iuris godono del «diritto e del dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolari»; è proprio nell’ambito del diritto comune che le varie Chiese orientali sui iuris provvedono adeguatamente alla loro vita interna, mediante il loro diritto particolare, esistente o da stabilirsi dai rispettivi sinodi dei vescovi e consigli di gerarchi, o dalla Sede Apostolica. 3.2.3.2. Ascrizione ad una Chiesa orientale Il can. 29 tratta del battezzando che non ha compiuto i quattordici anni di età e stabilisce le regole da seguire per definire la sua appartenenza ecclesiale. Si possono dare tre casi: - i genitori appartengono alla medesima Chiesa sui iuris: in questo caso il figlio è ascritto a questa, anche se è stato battezzato, legittimamente o illegittimamente, in una Chiesa sui iuris diversa da quella dei genitori; - i genitori appartengono a Chiese sui iuris cattoliche diverse: conformemente alle consuetudini vigenti ancora nei paesi orientali e agli “statuti personali” vigenti in oriente, si applica il principio della prevalenza del padre, alla cui Chiesa sui iuris devono essere canonicamente ascritti, mediante il battesimo, i figli prima del compimento dei quattordici anni di età; - uno dei genitori appartiene alla Chiesa latina e l’altro ad una Chiesa orientale sui iuris: si segue il can. 111 § 1 del Codice latino, secondo cui il figlio, prima dei quattordici anni, mediante il battesimo appartiene alla Chiesa latina, se i genitori di comune accordo hanno optato che fosse battezzato in essa; solo se manca il comune accordo, il figlio è ascritto alla Chiesa sui iuris cui appartiene il padre. Tuttavia, il principio della prevalenza del padre nel can. 29 ammette due eccezioni a favore della Chiesa cui appartiene la madre: a) quando solo la madre è cattolica, e b) quando ambedue i genitori di comune accordo chiedono che il figlio, mediante il battesimo, sia ascritto alla Chiesa della madre. Quanto alla madre cattolica, nel matrimonio misto, le incombe un grave obbligo di fare quanto è in suo potere affinché tutti i figli siano battezzati ed educati nella Chiesa cattolica, e col battesimo vengono ascritti alla Chiesa cattolica sui iuris alla quale ella appartiene. Concludendo, si può affermare che il CCEO conserva la normativa finora applicata della prevalenza dello stato giuridico del padre cattolico, nella prospettiva di assicurare meglio la sopravvivenza delle Chiese orientali specialmente nella diaspora, ma non limita la libertà dei genitori, appartenenti a diverse Chiese sui iuris, inclusa la Chiesa latina, di scegliere la Chiesa alla quale intendono di comune accordo ascrivere il loro figlio minorenne, praticamente alla Chiesa della madre. Così si salvaguarda anche il principio della parità dei diritti, doveri e responsabilità dei genitori, padre e madre, diritto fondamentale della persona umana che deve essere rispettato anche dalle Chiese orientali. Comunque, per situazioni particolari in cui può trovarsi qualche Chiesa orientale nella diaspora oppure in oriente stesso, si provvede con la clausula «salvo restando il diritto particolare stabilito dalla Sede Apostolica»; tale diritto particolare potrebbe in certi luoghi e in certe circostanze stabilire la prevalenza esclusiva del padre senza l’alternativa di scegliere per comune accordo la Chiesa della madre. 3.2.3.3. La disciplina dei sacramenti Prima del Vaticano II era già stato promulgato il m.p. Crebrae allatae (1949) sul sacramento del matrimonio, mentre per gli altri sacramenti non era stata ancora promulgata alcuna normativa. La Pontificia Commissione per la redazione del CCEO, funzionante sino al Vaticano 32 II, aveva ormai terminato la redazione del cosiddetto motu proprio de sacramentis, a cui mancava solo la firma papale per essere promulgato alla fine del 1958; con la convocazione del Vaticano II, tale promulgazione fu rinviata. La nuova Pontificia Commissione per la revisione del CCEO orientale ha utilizzato quei testi iniziali sui sacramenti, procedendo ovviamente ad una profonda rielaborazione, secondo le direttive del decreto conciliare OE che, al n. 12 dichiara: “Il santo Concilio conferma e loda e, se occorra, desidera che venga ristabilita l’antica disciplina dei sacramenti vigente presso le Chiese orientali, e così pure la prassi che si riferisce alla loro celebrazione e amministrazione”. Conformemente a questa direttiva conciliare sono stati formulati i canoni CCEO del titolo XVI («Il culto divino e specialmente i sacramenti»). Ne evidenziamo solo alcune caratteristiche. − È particolarmente sottolineato nella celebrazione di tutti i sacramenti l’aspetto pneumatologico, oltre a quelli cristologico, soteriologico ed ecclesiologico, cioè l’energia dello Spirito Santo; infatti, ciò che avviene nei sacramenti, azioni di Cristo e della Chiesa, avviene in virtù dello Spirito Santo. − È particolarmente sottolineata l’unità dei tre sacramenti dell’iniziazione cristiana, non solo nel loro intimo nesso teologico, ma anche nella loro celebrazione liturgica, sia per gli adulti che per i bambini. Infatti, in oriente è stata mantenuta l’unità temporale della celebrazione liturgica dei tre sacramenti, sottolineando così l’unità dell’opera dello Spirito Santo e la pienezza dell’incorporazione del fedele al mistero di Cristo e alla vita sacramentale della Chiesa. − Ministro ordinario del battesimo è solo il presbitero, mentre il diacono può conferire il battesimo solo in caso di necessità; in caso di estremo bisogno anche il laico battezzato può battezzare lecitamente. − Per tradizione delle Chiese orientali, la crismazione del santo myron114 è conferita dal presbitero, insieme col battesimo. − Il nuovo Codice non comprende alcuna norma circa le indulgenze, poiché esse non sono conosciute nella tradizione orientale, sebbene i fedeli cattolici orientali possano usufruirne, osservando le norme stabilite per la loro concessione. − Il nuovo Codice, confermando la legislazione orientale antica, ammette i presbiteri sposati. Il can. 373 prescrive: «Il celibato dei chierici, scelto per il regno dei cieli e tanto conveniente per il sacerdozio, deve essere tenuto ovunque in grandissima stima, secondo la tradizione della Chiesa universale; così pure deve essere tenuto in onore lo stato dei chierici uniti in matrimonio, sancito attraverso i secoli dalla prassi della Chiesa primitiva e delle Chiese orientali». Tuttavia, è stata aggiunta la norma restrittiva del can. 758, § 3, secondo la quale «a riguardo dell’ammissione agli ordini sacri dei coniugati si osservi il diritto particolare della propria Chiesa sui iuris o le norme speciali stabilite dalla Sede Apostolica». Questa norma potrebbe imporre il celibato in una o l’altra Chiesa sui iuris, che sostiene il suo mantenimento, soprattutto fuori dei confini del proprio territorio, per mezzo del diritto particolare o di norme speciali della Sede Apostolica. Infatti la Sede Apostolica ha proibito alle Chiese patriarcali di ordinare coniugati nei paesi d’oltremare. − Il nuovo CCEO ha omesso il canone 4 del m.p. Crebrae allatae circa il “matrimonio rato” e il “matrimonio consumato”, sebbene i fedeli cattolici orientali possano far ricorso al pontefice per lo scioglimento del vincolo del matrimonio “rato e non consumato”. − Il nuovo CCEO, contrariamente al Codice della Chiesa latina, conserva l’impedimento matrimoniale proveniente dalla “parentela spirituale” che si crea con il battesimo tra il padrino/madrina e il battezzato/a ed i suoi genitori, conformemente alle tradizioni orientali; parimenti, il CCEO non ammette che il matrimonio sia celebrato validamente “sotto condizione”, non solo “futura”, ma anche “passata” o “presente”. La condizione futura non è valida neppure nella Chiesa latina, che però ammette quella passata e quella presente (can. 1102). − Infine, quanto alla forma della celebrazione del matrimonio, in can. 828, riconfermando la tradizione liturgica e canonica delle Chiese orientali, richiede per la validità il «rito sacro», per cui il competente ministro sacro assiste e benedice il matrimonio. «Benedire il matrimonio» nella tradizione teologica e liturgica delle Chiese orientali significa celebrare il sacramento del matrimonio, in virtù dell’ordinazione sacerdotale, invocando sugli sposi lo 114 Con questo termine si intende l’unguento profumato, ricavato dall’olio di olive oppure di altre piante e dal balsamo, misto a varie sostanze odorifiche, che si usa per l’amministrazione della cresima, come segno visibile della trasmissione dei doni invisibili dello Spirito Santo. 33 Spirito Santo. 3.3. Codex Iuris Canonici (CIC, 1983) Il Codice venne promulgato da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983 ed entrò in vigore il 27 novembre dello stesso anno. Dalla sua promulgazione è stato modificato due volte : il motu proprio “Ad tuendam fidem” (18/5/1998) ha modificato i cann. 750115 e 1371116; il motu proprio “Omnium in mentem” (26/10/2009) ha modificato i cann. 1008-1009117, 1086, 1117, 1124118. Seguendo le fotocopie di tre libri, analizziamo: • i dieci “Principi che devono orientare la revisione del Codice di diritto canonico”, 119 stabiliti il 15 giugno 1967 nella prima assemblea generale del sinodo dei vescovi (Gherri pp. 288-290); • normatività del CIC (CIDC pp. 66-70 + cann. 1-6 CIC): ambiti, persone, limiti entro cui si estende la portata normativa del Codice; • ermeneutica del CIC (Gherri pp. 292-294 + Sartoni pp. 27-32): quali principi occorre tener presenti per interpretare correttamente il Codice; • struttura del Codice: suddivisione in 7 libri (Sartoni pp. 22-27) e articolazione interna del testo (CICD pp. 65-66). EXCURSUS 5. Gherri P., Lezioni di teologia del diritto canonico, Città del Vaticano 2010, pp. 287-296. EXCURSUS 6. Corso istituzionale di diritto canonico, Milano 2005, pp. 62-72. EXCURSUS 7. Sartoni C., Il diritto canonico, mezzo, ausilio, presidio della comunione con Signore, Imola 2008, pp. 17-32. 115 116 È stato aggiunto il secondo paragrafo, circa le dottrine non direttamente appartenenti al deposito della fede, ma necessarie per custodirlo fedelmente. Si tratta semplicemente della citazione del can. 750 §2. 117 Specificazioni sulla natura del diaconato, che non implica partecipazione alla missione di Cristo Capo. 118 In questi tre canoni viene eliminata la previsione normativa circa le persone battezzate nella Chiesa cattolica, ma separate da esse con un atto formale: in un certo senso la normativa precedente poteva spingere all'apostasia per ottenere delle condizioni più favorevoli. Testo originale latino e traduzione italiana (purtroppo non eccelsa) in Enchiridion del Sinodo dei Vescovi, a cura della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, Bologna 2005, vol. 1 (1965-1988), pp. 46-63. Cf. anche la rivista Communicationes 1 (1969), pp. 77-85. 119 34 4. LA POTESTA' DI GOVERNO Partiamo dal n. 2 della Nota Esplicativa Previa, un insieme di alcune “osservazioni generali” brevi ma dense, che i padri conciliari hanno voluto aggiungere al testo di Lumen Gentium sul tema della collegialità: Nella consacrazione è data una "ontologica" partecipazione ai "sacri uffici", come indubbiamente consta dalla tradizione, anche liturgica. Volutamente è usata la parola "uffici" (munerum), e non "potestà" (potestatum), perché quest'ultima voce potrebbe essere intesa di potestà esercitabile di fatto (ad actum expedita). Ma perché si abbia tale potestà esercitabile di fatto, deve intervenire la "determinazione" canonica o "giuridica" (iuridica determinatio) da parte dell'autorità gerarchica. E questa determinazione della potestà può consistere nella concessione di un particolare ufficio o nell'assegnazione dei sudditi, ed è concessa secondo le norme approvate dalla suprema autorità. In questo testo si affermano: • la distinzione tra munus e potestas, che sono concetti vicini tra loro, ma non sovrapponibili; • la connessione necessaria, ontologica, diretta, tra la consacrazione episcopale e la partecipazione ai munera, per cui chiunque riceve tale consacrazione diventa subito partecipe anche dei munera; • la connessione indiretta tra la consacrazione episcopale e la partecipazione alla potestas: infatti essere consacrati è condizione necessaria, ma non sufficiente, per esercitare la potestas, in quanto deve intervenire anche una determinazione giuridica (una “nomina”), come la concessione di un incarico o l'assegnazione di una parte del popolo di Dio su cui esercitare il governo. EXCURSUS 8. Moneta P., Introduzione al diritto canonico, Torino 2001, pp. 119-131. Analizziamo ora i cann. 129-131, 133-137, 142-144 del CIC. Lo schema seguente (necessariamente semplice e scarno) può aiutare a fissare alcuni concetti in modo chiaro e ordinato, orientandosi nello studio del testo dei canoni: 35 36 5. LA CHIESA UNIVERSALE Un testo magisteriale fondamentale per lo studio dell'autorità nella Chiesa universale è il n. 22 di Lumen Gentium, le cui affermazioni sono riprese (a volte anche riprese alla lettera) nei relativi canoni del CIC. Ecco il testo del documento conciliare: Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, sono uniti tra loro. Già l'antichissima disciplina, in virtù della quale i vescovi di tutto il mondo vivevano in comunione tra loro e col vescovo di Roma nel vincolo dell'unità, della carità e della pace e parimenti la convocazione dei Concili per decidere in comune di tutte le questioni più importanti mediante una decisione che l'opinione dell'insieme permetteva di equilibrare significano il carattere e la natura collegiale dell'ordine episcopale, che risulta manifestamente confermata dal fatto dei Concili ecumenici tenuti lungo i secoli. La stessa è pure suggerita dall'antico uso di convocare più vescovi per partecipare all elevazione del nuovo eletto al ministero del sommo sacerdozio. Uno è costituito membro del corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le sue membra. Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli. Infatti il romano Pontefice, in forza tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente. D'altra parte, l'ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch'esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del romano Pontefice. Il Signore ha posto solo Simone come pietra e clavigero della Chiesa (cfr. Mt 16,18-19), e lo ha costituito pastore di tutto il suo gregge (cfr. Gv 21,15 ss); ma l'ufficio di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro (cfr. Mt 16,19), è noto essere stato pure concesso al collegio degli apostoli, congiunto col suo capo (cfr. Mt 18,18; 28,16-20). Questo collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e l'universalità del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l'unità del gregge di Cristo. In esso i vescovi, rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo, esercitano la propria potestà per il bene dei loro fedeli, anzi di tutta la Chiesa, mente lo Spirito Santo costantemente consolida la sua struttura organica e la sua concordia. La suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa, è esercitata in modo solenne nel Concilio ecumenico. Mai può esserci Concilio ecumenico, che come tale non sia confermato o almeno accettato dal successore di Pietro; ed è prerogativa del romano Pontefice convocare questi Concili, presiederli e confermarli. La stessa potestà collegiale insieme col papa può essere esercitata dai vescovi sparsi per il mondo, purché il capo del collegio li chiami ad agire collegialmente, o almeno approvi o liberamente accetti l'azione congiunta dei vescovi dispersi, così da risultare un vero atto collegiale. Ulteriori sottolineature sul tema della suprema autorità nella Chiesa si hanno, ancora una volta, dalla Nota Esplicativa Previa a Lumen Gentium, che riportiamo integralmente: 1) "Collegio" non si intende in senso “ strettamente giuridico ”, cioè di un gruppo di eguali, i quali abbiano demandata la loro potestà al loro presidente, ma di un gruppo stabile, la cui struttura e autorità deve essere dedotta dalla Rivelazione. Perciò nella risposta al modus 12 si dice esplicitamente dei Dodici che il Signore li costituì “a modo di collegio o "gruppo" (coetus) stabile”. Cfr. anche il modus 53, c. Per la stessa ragione, per il collegio dei vescovi si usano con frequenza anche le parole "ordine" (ordo) o "corpo" (corpus). Il parallelismo fra Pietro e gli altri apostoli da una parte, e il sommo Pontefice e i vescovi dall'altra, non implica la trasmissione della potestà straordinaria degli apostoli ai loro successori, né, com'è chiaro, 37 "uguaglianza" (aequalitatem) tra il capo e le membra del collegio, ma solo "proporzionalità" (proportionalitatem) fra la prima relazione (Pietro apostoli) e l'altra (papa vescovi). Perciò la commissione ha stabilito di scrivere nel n. 22 non "medesimo" (eodem) ma "pari" modo. Cfr. modus 57. 2) Si diventa "membro del collegio" in virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le membra. Cfr. n. 22. Nella consacrazione è data una "ontologica" partecipazione ai "sacri uffici", come indubbiamente consta dalla tradizione, anche liturgica. Volutamente è usata la parola "uffici" (munerum), e non "potestà" (potestatum), perché quest'ultima voce potrebbe essere intesa di potestà esercitabile di fatto (ad actum expedita). Ma perché si abbia tale potestà esercitabile di fatto, deve intervenire la "determinazione" canonica o "giuridica" (iuridica determinatio) da parte dell'autorità gerarchica. E questa determinazione della potestà può consistere nella concessione di un particolare ufficio o nell'assegnazione dei sudditi, ed è concessa secondo le norme approvate dalla suprema autorità. Una siffatta ulteriore norma è richiesta "dalla natura delle cose", trattandosi di uffici, che devono essere esercitati da "più soggetti", che per volontà di Cristo cooperano in modo gerarchico. È evidente che questa "comunione" è stata applicata nella vita della Chiesa secondo le circostanze dei tempi, prima di essere per così dire codificata "nel diritto". Perciò è detto espressamente che è richiesta la comunione "gerarchica" col capo della Chiesa e con le membra. "Comunione" è un concetto tenuto in grande onore nella Chiesa antica (ed anche oggi, specialmente in Oriente). Per essa non si intende un certo vago "sentimento", ma una "realtà organica", che richiede una forma giuridica e che è allo stesso tempo animata dalla carità. La commissione quindi, quasi d'unanime consenso, stabilì che si scrivesse: “ nella comunione "gerarchica" ”. Cfr. Mod. 40 ed anche quanto è detto della "missione canonica", sotto il n. 24. I documenti dei recenti romani Pontefici circa la giurisdizione dei vescovi vanno interpretati come attinenti questa necessaria determinazione delle potestà. 3) Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto essere: “anche esso soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale ”. Ciò va necessariamente ammesso, per non porre in pericolo la pienezza della potestà del romano Pontefice. Infatti il collegio necessariamente e sempre si intende con il suo capo, "il quale nel collegio conserva integro l'ufficio di vicario di Cristo e pastore della Chiesa universale". In altre parole: la distinzione non è tra il romano Pontefice e i vescovi presi insieme, ma tra il romano Pontefice separatamente e il romano Pontefice insieme con i vescovi. E siccome il romano Pontefice è il "capo" del collegio, può da solo fare alcuni atti che non competono in nessun modo ai vescovi, come convocare e dirigere il collegio, approvare le norme dell'azione, ecc. Cfr. Modo 81. Il sommo Pontefice, cui è affidata la cura di tutto il gregge di Cristo, giudica e determina, secondo le necessità della Chiesa che variano nel corso dei secoli, il modo col quale questa cura deve essere attuata, sia in modo personale, sia in modo collegiale. Il romano Pontefice nell'ordinare, promuovere, approvare l'esercizio collegiale, procede secondo la propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa. 4) Il sommo Pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può esercitare la propria potestà in ogni tempo a sua discrezione, come è richiesto dallo stesso suo ufficio. Ma il collegio, pur esistendo sempre, non per questo permanentemente agisce con azione "strettamente" collegiale, come appare dalla tradizione della Chiesa. In altre parole: Non sempre è “in pieno esercizio”, anzi non agisce con atto strettamente collegiale se non ad intervalli e "col consenso del capo". Si dice “ col consenso del capo ”, perché non si pensi a una "dipendenza", come nei confronti di chi è "estraneo"; il termine "consenso" richiama, al contrario, la "comunione" tra il capo e le membra e implica la necessità dell'atto", il quale propriamente compete al capo. La cosa è esplicitamente affermata nel n. 22 ed è ivi spiegata. La formula negativa "se non" (nonnisi) comprende tutti i casi, per cui è evidente che le "norme" approvate dalla suprema autorità devono sempre essere osservate. Cfr. modus 84. Dovunque appare che si tratta di "unione" dei vescovi "col loro capo", e mai di 38 azione dei vescovi "indipendentemente" dal papa. In tal caso, infatti, venendo a mancare l'azione del capo, i vescovi non possono agire come collegio, come appare dalla nozione di "collegio". Questa gerarchica comunione di tutti i vescovi col sommo Pontefice è certamente abituale nella tradizione. N. B.- Senza la comunione gerarchica l'ufficio sacramentale ontologico, che si deve distinguere dall'aspetto canonico giuridico, "non può" essere esercitato. La commissione ha pensato bene di non dover entrare in questioni di "liceità" e "validità", le quali sono lasciate alla discussione dei teologi, specialmente per ciò che riguarda la potestà che di fatto è esercitata presso gli Orientali separati e che viene spiegata in modi diversi. Per studiare la suprema autorità della Chiesa (romano pontefice, collegio dei vescovi, sinodo dei vescovi, cardinali), analizziamo ora i cann. 330-359: si trovano all'interno del libro II del CIC (Il popolo di Dio), parte II (La costituzione gerarchica della Chiesa), sezione I (La suprema autorità della Chiesa). EXCURSUS 8. Moneta P., Introduzione al diritto canonico, Torino 2001, pp. 131-156. 6. LE CHIESE PARTICOLARI Nella struttura sistematica del CIC, subito dopo la sezione relativa alla suprema autorità della Chiesa, troviamo una ampia sezione che si intitola “Le Chiese particolari e i loro raggruppamenti”. 6.1 Diocesi e Chiese assimilate Analizziamo i cann. 368-375, 381-382, 391, 401, 403, 431-433, 447, relativi alla diocesi e alle altre Chiese particolari; ai vescovi (diocesano, ausiliare, coadiutore); alle provincie e regioni ecclesiastiche. Sullo sfondo della normativa che riguarda le diocesi abbiamo il testo del decreto conciliare Christus Dominus, che al n. 11 ne definisce gli elementi essenziali (ripresi dal can. 369): La diocesi è una porzione del popolo di Dio affidata alle cure pastorali del vescovo, coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore, e da questi radunata nello Spirito Santo per mezzo del Vangelo e della eucaristia, costituisca una Chiesa particolare nella quale è presente e opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica. I singoli vescovi, ai quali è affidata la cura di una Chiesa particolare, sotto l'autorità del sommo Pontefice, pascono nel nome del Signore come pastori propri, ordinari ed immediati le loro pecorelle ed esercitano a loro vantaggio l'ufficio di insegnare, di santificare e di reggere. Essi però devono riconoscere i diritti che legittimamente competono sia ai patriarchi, sia alle altre autorità gerarchiche. I vescovi devono svolgere il loro ufficio apostolico come testimoni di Cristo al cospetto di tutti gli uomini, interessandosi non solo di coloro che già seguono il Principe dei pastori, ma dedicandosi anche con tutta l'anima a coloro che in qualsiasi maniera si sono allontanati dalla via della verità, oppure ignorano ancora il Vangelo di Cristo e la sua misericordia salvifica; così agiranno, fino a quando tutti quanti cammineranno “ in ogni bontà, giustizia e verità ” (Ef 5,9). Alla diocesi vengono assimilati, secondo il can. 368, altri cinque tipi di Chiese particolari, tutte individuate sulle base del loro territorio: • prelatura territoriale (can. 370): il prelato può essere vescovo, ma può anche non esserlo. Sono prelature territoriali quelle situazioni particolari legate alle presenza di un grosso santuario, che attirando migliaia di pellegrini snaturerebbe la normale vita diocesana (è il 39 caso, in Italia, della Prelatura territoriale di Loreto e della Prelatura territoriale di Pompei); • abbazia territoriale, già abbatia nullius dioecesis (can. 370): si tratta di una abbazia (o monastero) di tipo benedettino, a cui è annesso il governo di alcune parrocchie e fedeli. L'abate di un'abbazia territoriale ha quindi un duplice compito: governare la vita dell'abbazia, i rapporti tra i monaci, le questioni interne; dirigere le parrocchie e i preti del territorio facente parte dell'abbazia territoriale, come un vescovo dirige la propria diocesi; • vicariato apostolico (can. 371 §1): il vicario apostolico è un vescovo e svolge nell'ambito del proprio vicariato tutti i compiti che il vescovo diocesano svolge nella propria diocesi. Il motivo per cui una determinata zona non diventa diocesi, ma vicariato apostolico, è che si trova in una zona di missione, dove il cristianesimo non è ancora radicato e non sarebbe possibile costituire una vera diocesi, dato che la struttura di Chiesa è ancora debole. Questo tipo di Chiesa particolare, insieme alle due seguenti, formano un trittico di Chiese nascenti che pian piano vanno strutturandosi, fino a diventare diocesi; • prefettura apostolica (can. 371 §1): è come il vicariato apostolico, con l'unica differenza che il vicario apostolico è vescovo, mentre il prefetto apostolico no; • amministrazione apostolica (can. 371 §2): l'amministratore apostolico può essere vescovo, ma solitamente non lo è. I motivi per cui una determinata zona non diventa diocesi, ma amministrazione apostolica, possono risiedere in particolare difficoltà di rapporto tra la Santa Sede e lo Stato a cui appartiene il suo territorio, oppure per mutamenti di confine tra due o più Stati. Inoltre il codice al can. 372 prevede espressamente la creazione di Chiese particolari non territoriali: • i “confini” di tali Chiese non saranno da individuare in un certo territorio (per cui tutte le persone del territorio fanno parte della Chiesa particolare e tutte le altre no), ma in altri elementi come il rito, la lingua, particolari situazioni di vita. Una Chiesa particolare non territoriale si sovrappone dunque a quelle territoriali, sottraendo alla loro giurisdizione quei fedeli che rispondono alle caratteristiche richieste. Si può così comprendere la recente creazione dell'ordinariato personale di Nostra Signora di Walsingham, 120 che estende la propria giurisdizione sui fedeli cattolici provenienti dall'anglicanesimo, che siano residenti nel territorio corrispondente alla giurisdizione della Conferenza Episcopale di Inghilterra e Galles e manifestino per iscritto la volontà di farne parte. Infine, esiste un particolare tipo di Chiesa particolare non territoriale che il Codice non conosce, perché è stato istituito dopo la promulgazione del CIC: • ordinariato militare (o ordinariato castrense): è organizzato su un criterio funzionale, essendo suo compito il fornire assistenza spirituale ai fedeli cattolici presenti nelle forze armate di un determinato Paese. Così ad esempio tutti i militari italiani, per il tempo in cui sono militari, non fanno parte di una qualche diocesi, ma dell'ordinariato militare italiano, e questo indipendentemente dal territorio: in qualsiasi parte del mondo essi si trovino, ad esempio per qualche missione all'estero, restano soggetti all'ordinariato. Le funzioni degli ordinariati militari sono regolamentate dalla costituzione apostolica “Spirituali militum curae” (21 aprile 1986). Invece non sono Chiese particolari (anche se in qualche modo potrebbero averne l'aspetto): • la prelatura personale: è una istituzione di natura gerarchica della Chiesa cattolica governata da un prelato e formata da presbiteri e diaconi del clero secolare, alla quale possono cooperare organicamente anche laici, limitatamente all'espletamento dell'azione apostolica, secondo le modalità previste dallo statuto. La caratteristica principale è di non essere legata a un territorio, come la prelatura territoriale, ma di avere un popolo, anche distribuito in diverse diocesi, composto da fedeli che hanno qualcosa in comune (ad esempio: una provenienza nazionale, una vocazione specifica, una professione, una condizione sociale). Al prelato, che non è necessariamente un vescovo, sono riconosciute prerogative quali incardinare i chierici ed erigere un seminario; • la missione sui iuris: nella terra di missione ancora non esistono parrocchie, ma solo cappelle e piccole comunità; non esistono preti diocesani, ma solo missionari venuti da fuori; non esiste vescovo, né diocesi, né curia diocesana, ma solo un lavoro di coordinamento tra i missionari presenti. Quando una missione diventa sui iuris (cioè: "di diritto proprio"), essa inizia appena ad avere una qualche autonomia e una prima forma di struttura; la sua guida 120 Eretto dalla Congregazione per la dottrina della fede con decreto del 15 gennaio 2011. 40 viene affidata ad uno dei preti missionari. Con il passare del tempo e il crescere delle comunità essa potrà poi diventare prefettura apostolica, vicariato apostolico e da ultimo diocesi. EXCURSUS 8. Moneta P., Introduzione al diritto canonico, Torino 2001, pp. 157-166. 6.2 La parrocchia Analizziamo i cann. 515, 517-519, 522, 528-530, 536-538, 545 relativi alla parrocchia, al parroco, ai consigli parrocchiali, al vicario parrocchiale. 7. LE SANZIONI NELLA CHIESA 7.1. Natura del diritto penale canonico Can. 1311 - La Chiesa ha il diritto nativo e proprio di costringere con sanzioni penali i fedeli che hanno commesso delitti. Can. 1341 - L'Ordinario provveda ad avviare la procedura giudiziaria o amministrativa per infliggere o dichiarare le pene solo quando abbia constatato che né con l'ammonizione fraterna né con la riprensione né con altre vie dettate dalla sollecitudine pastorale è possibile ottenere sufficientemente la riparazione dello scandalo, il ristabilimento della giustizia, l'emendamento del reo. Can. 1399 - Oltre i casi stabiliti da questa o da altre leggi, la violazione esterna di una legge divina o canonica può essere punita con giusta pena, solo quando la speciale gravità della violazione esige una punizione e urge la necessità di prevenire o riparare gli scandali. La Chiesa, comunità di fedeli con una struttura anche visibile e sociale, ha il compito di individuare eventuali comportamenti negativi al suo interno (delitti) e di punirli (sanzioni). Un delitto è sempre un peccato, ma non tutti i peccati sono delitti. Il delitto si definisce come una violazione esterna, gravemente imputabile, di una legge o di un precetto penale. Sono dunque necessari tre elementi: elemento oggettivo (una violazione esterna), elemento soggettivo (violazione imputabile), elemento legale (violazione di una legge che prevede la punibilità). Quando si parla di “legge” si intendono in realtà due possibili provvedimenti: una vera e propria legge penale, emanata da chi gode di potestà legislativa per un insieme di casi (la legge si applica a tutti); oppure anche un precetto penale, cioè un atto amministrativo singolare emanato da chi gode di potestà esecutiva per un caso concreto (il precetto si applica solo al suo o ai suoi diretti destinatari). La sanzione si definisce come restrizione della libertà o dei beni, in conseguenza ad un comportamento non conforme alla legge. Ogni sanzione nella Chiesa ha un triplice scopo, una triplice finalità pastorale: riparare lo scandalo (funzione pedagogica); ristabilire la giustizia (funzione vendicativa); emendare il colpevole (funzione medicinale). Se si può raggiungere questo triplice scopo percorrendo altre strade non penali, queste hanno la precedenza; le sanzioni sono dunque una extrema ratio, quando altri tentativi non risultassero fruttuosi. Tra questi tentativi vengono citati nel can. 1341 l'ammonizione (fraterna correctio) e la riprensione (correptio): se la prima allude ad un dialogo fraterno, dove prevalga lo spirito di benevolenza, la seconda si configura come un biasimo formale, motivato, dato per iscritto. Nel diritto penale è fondamentale il principio di legalità, espresso dal motto: “nullum crimen, nulla poena, sine previa lege poenali”, cioè non può esserci alcun crimine né alcuna pena, senza che vi sia in precedenza una legge che lo stabilisca. Questo principio di legalità a tutela del fedele è problematico nella Chiesa, perché la funzione legislativa e quella giudiziaria non sono separate, ma appartengono entrambe alla gerarchia. Inoltre il can. 1399 prevede che la violazione di una legge può essere punita anche “oltre i casi stabiliti da questa o da altre leggi”, cioè in mancanza di una legge penale, cioè in deroga al principio di legalità. Questa eccezione è comunque mitigata da due incisi molto stringenti (sono necessari una violazione di speciale gravità e l'urgenza di prevenire o riparare gli scandali) e trova motivazione nel non porre ostacoli alla legge suprema della salvezza delle anime, che in particolare situazioni potrebbe 41 esigere il ricorso ad una pena anche in mancanza di una esplicita legge al riguardo. 7.2. Destinatari delle norme penali Can. 11 - Alle leggi puramente ecclesiastiche sono tenuti i battezzati nella Chiesa cattolica o in essa accolti, e che godono di sufficiente uso di ragione e, a meno che non sia disposto espressamente altro dal diritto, hanno compiuto il settimo anno di età. Can. 1323 - Non è passibile di alcuna pena chi, quando violò la legge o il precetto: 1° non aveva ancora compiuto i 16 anni di età; 2° senza sua colpa ignorava di violare una legge o un precetto; all'ignoranza sono equiparati l'inavvertenza e l'errore; 3° agì per violenza fisica o per un caso fortuito che non poté prevedere o previstolo non vi poté rimediare; 4° agì costretto da timore grave, anche se solo relativamente tale, o per necessità o per grave incomodo, a meno che tuttavia l'atto non fosse intrinsecamente cattivo o tornasse a danno delle anime; 5° agì per legittima difesa contro un ingiusto aggressore suo o di terzi, con la debita moderazione 6° era privo dell'uso di ragione, ferme restando le disposizioni dei cann. 1324,§ 1, n. 2 e 1325; 7° senza sua colpa credette esserci alcuna delle circostanze di cui al n. 4 o 5. Per delimitare l'ambito di applicazione del diritto penale, occorre premettere che esso è costituito da leggi meramente ecclesiastiche, cioè leggi emanate dalla Chiesa in un preciso contesto storico, culturale, pastorale, leggi che non derivano dal diritto divino e quindi non sono immutabili: possono evolvere, possono essere tolte, possono essere aggiunte. Il can. 11 ci ricorda che alle leggi ecclesiastiche sono soggetti tutti e solo i fedeli cattolici che abbiano uso di ragione e abbiano compiuto sette anni. Viene quindi definito un insieme di persone dal quale sono esclusi, ad esempio, i non battezzati e i non cattolici.121 Il can. 1323 entra ancora di più nel dettaglio, disegnando un sottoinsieme all'interno del gruppo definito dal can. 11: l'ambito di applicazione del diritto penale è infatti più ristretto rispetto a quello delle altre norme ecclesiastiche. Il can. 1323 agisce sull'elemento soggettivo del delitto, restringendo l'imputabilità della persona. Non sono imputabili e sono dunque esclusi dalle leggi penali: chi non ha compiuto sedici anni; chi agì per ignoranza, senza sapere che un certo comportamento era sanzionato da una pena;122 chi agì senza la necessaria libertà (costretto da violenza o da timore); chi agì per legittima difesa; chi era privo dell'uso di ragione, in modo anche temporaneo, a causa di motivi psichici o per causa esterne (come l'uso di alcol o di altre sostanze). 7.3. Tipi di pene Can. 1312 - § 1. Le sanzioni penali nella Chiesa sono: 1° le pene medicinali o censure, elencate nei cann. 1331-1333; 2° le pene espiatorie di cui al can. 1336. § 2. La legge può stabilire altre pene espiatorie, che privino il fedele di qualche bene spirituale o temporale e siano congruenti con il fine soprannaturale della Chiesa. § 3. Sono inoltre impiegati rimedi penali e penitenze, quelli soprattutto per prevenire i delitti, queste piuttosto per sostituire la pena o in aggiunta ad essa. Le sanzioni penali sono di tre tipi: le prime due categorie indicano le pene propriamente dette: la terza riguarda misure preventive o sostitutive della pena. 1. Pene medicinali o censure: sono le più gravi, per questo nel Codice se ne dà un elenco tassativo. Il loro scopo principale è quello di ottenere il pentimento del colpevole, di emendare il reo: non servono quindi per punire la persona dopo aver commesso un delitto, 121 122 Alle norme di diritto divino, invece, sono tenuti tutti gli uomini, anche quelli che non fanno parte o che nemmeno conoscono la Chiesa: questo perché il diritto divino viene prima della Chiesa stessa, è iscritto nella natura delle cose e la Chiesa può soltanto riconoscerlo ed esplicitarlo, senza poterne disporre. Questo aspetto è molto diverso dal diritto civile, dove l'ignoranza della legge non è mai una scusante. 42 ma “durante”. Per questo esse devono obbligatoriamente cessare non appena il colpevole esce dal proprio stato di colpevolezza, che si chiama contumacia. 123 Per recedere dalla contumacia si richiede che il reo “si sia veramente pentito del delitto e che abbia inoltre dato congrua riparazione ai danni e allo scandalo o almeno abbia seriamente promesso di farlo” (can. 1347 §2). Le censure sono di tre tipi: • scomunica (can. 1331): comporta il divieto di celebrare e ricevere i sacramenti; di celebrare i sacramentali; di ricoprire qualsiasi ufficio e compiere atti di governo; di godere di privilegi e dei frutti del proprio ufficio; • interdetto (can. 1332): comporta il divieto di celebrare e ricevere i sacramenti; di celebrare i sacramentali; • sospensione (can. 1333): è una pena riservata ai chierici e comporta il divieto di compiere tutti o alcuni atti legati alla potestà di ordine o di governo; il divieto di godere di tutti o alcuni diritti e funzioni del proprio ufficio. 2. Pene espiatorie: il loro scopo principale è quello di riparare lo scandalo o ristabilire la giustizia; per questo esse hanno una durata propria, indipendente dalla contumacia del reo (durata che in certi casi può essere perpetua). Non toccano la possibilità di accedere ai sacramenti, ma l'ambito delle relazioni ecclesiali e sociali. Il Codice non ne dà un elenco tassativo; possono essere le seguenti, o anche altre simili (can. 1336): • il divieto o l'obbligo di dimorare in un certo luogo; • la privazione o la proibizione della potestà, dell'ufficio, dell'incarico, di un diritto, di un privilegio, di una facoltà, di una grazia, di un titolo, di un'insegna, anche se semplicemente onorifica; • il trasferimento penale ad un altro ufficio; • la dimissione dallo stato clericale (questa è la pena espiatoria più grave prevista dal Codice ed è di per sé perpetua124). 3. Rimedi penali e penitenze (cann. 1339-1340). Sono i provvedimenti penali più leggeri. Per rimedi penali si intendono la ammonizione e la riprensione, fatte dall'Ordinario, nei confronti di qualcuno che si trovi nell'occasione prossima di compiere un delitto (ammonizione) o abbia commesso un delitto non grave (riprensione). Le penitenze consistono in una qualche opera di religione, di pietà o di carità da farsi. 123 124 Questa parola può trarre in inganno, perché ha due significati distinti nel diritto civile e nel diritto canonico: nel diritto civile contumacia è la condizione di chi non si costituisce in giudizio, non si presenta davanti ad un tribunale; nel diritto canonico è invece la permanenza del reo nello stato di colpevolezza. Questa pena è oggi riservata, ad esempio, ai chierici colpevoli di pedofilia. La materia oggi è tristemente attuale, ma nei mezzi di comunicazione di massa non si parla mai della pena canonica prevista per questo odioso delitto. Infatti il vero motivo del contendere e le critiche mosse da tanta parte dell'opinione pubblica alla gerarchia ecclesiastica riguardano la presunta mancanza di trasparenza e di collaborazione nei confronti della giustizia civile: si accusano cioè le gerarchie di voler coprire gli scandali, proteggendo i colpevoli e sottraendoli ai processi secolari. Non ci addentriamo in questa questione, che esula dall'oggetto del corso; riteniamo utile piuttosto descrivere quali sanzioni prevede la Chiesa al suo interno, riaffermando anche la piena e doverosa responsabilità dello Stato nel perseguire i preti pedofili. Essi si trovano così a dover rispondere in due sedi penali: sia davanti alla Chiesa, secondo le regole del diritto canonico; sia davanti allo Stato, secondo le leggi del codice penale. Il Codice del 1917 al can. 2368 prevede la sospensione per chi commette il crimine di sollecitazione, ovvero l'uso del sacramento della confessione da parte del confessore per indurre il penitente ad un peccato di natura sessuale. Nel 1922 il Sant'Uffizio emana l'istruzione “Crimen sollecitationis”, per regolare i processi contro il crimine di sollecitazione; nel titolo V la materia e le pene connesse vengono estese anche all'omosessualità, alla bestialità e alla pedofilia (“fatto esterno osceno, gravemente peccaminoso, commesso o tentato con impuberi”). Il Codice di Diritto Canonico promulgato dal Papa Giovanni Paolo II nel 1983 rinnovò la disciplina in materia al can. 1395, § 2: “Il chierico che abbia commesso altri delitti contro il sesto precetto del Decalogo, se invero il delitto sia stato compiuto con violenza, o minacce, o pubblicamente, o con un minore al di sotto dei 16 anni, sia punito con giuste pene, non esclusa la dimissione dallo stato clericale, se il caso lo comporti”. Si prevede quindi la dimissione (non più la sospensione) per i delitti sessuali più gravi, tra cui la pedofilia. Alla luce del nuovo Codice, la “Crimen sollecitationis” venne sostituita dalle “Normae de gravioribus delictis”, promulgate col motu proprio “Sacramentorum sanctitatis tutela” del 30 aprile 2001; il 21 maggio 2010 il Papa Benedetto XVI approvò alcuni cambiamenti al testo di queste “Normae”, il cui art. 6 attualmente in vigore recita: “§1. I delitti più gravi contro i costumi, riservati al giudizio della Congregazione per la Dottrina della Fede, sono: 1° il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore di diciotto anni; in questo numero, viene equiparata al minore la persona che abitualmente ha un uso imperfetto della ragione; 2° l’acquisizione o la detenzione o la divulgazione, a fine di libidine, di immagini pornografiche di minori sotto i quattordici anni da parte di un chierico, in qualunque modo e con qualunque strumento. §2. Il chierico che compie i delitti di cui al § 1 sia punito secondo la gravità del crimine, non esclusa la dimissione o la deposizione”. Viene quindi confermata la pena della dimissione nei casi di pedofilia (l'età della vittima viene estesa dai 16 ai 18 anni), di atti sessuali con persone che abbiano imperfetto uso di ragione, di pedopornografia; inoltre questi casi vengono riservati alla Congregazione per la Dottrina della Fede. 43 7.4. Applicazione e cessazione della pena Can. 1314 - La pena per lo più è ferendae sententiae, di modo che non costringe il reo se non dopo essere stata inflitta; è poi latae sententiae, così che vi s'incorra per il fatto stesso d'aver commesso il delitto, sempre che la legge o il precetto espressamente lo stabilisca. Per quanto riguarda l'applicazione della pena, tutte le sanzioni penali sopra descritte possono essere ferendae sententiae oppure latae sententiae, che letteralmente significa “con sentenza da emettere” e “con sentenza già emessa”. Le pene ferendae sententiae sono quelle che, come nel diritto civile, vengono emesse da un provvedimento dell'autorità: è la situazione più normale e più frequente. In questo caso si aprono due possibili strade. Si può ricorrere ad un vero e proprio provvedimento giudiziario (un processo penale), con giudici, avvocati, prove, sentenza: è una strada più lunga, ma garantisce al meglio i diritti di tutti (in particolare il diritto di difesa del reo). In alternativa è possibile anche irrogare una pena senza processo, ma attraverso un provvedimento amministrativo (can. 1342), sicuramente più veloce, ma meno garantista. Le pene latae sententiae sono proprie del diritto canonico e non richiedono alcun intervento dell'autorità: nel momento stesso in cui una persona compie un delitto a cui è associata una pena di questo tipo, subito il colpevole è soggetto alla pena stessa. Sono efficaci e necessarie soprattutto per punire i delitti occulti. Sono talmente gravi che la legge deve espressamente prevedere tutti i singoli casi in cui una pena sia latae sententiae. Per quanto riguarda la cessazione della pena, essa cessa in tre modi: con la morte del colpevole; con il compimento della pena stessa; con la revoca (remissione) fatta dall'autorità competente (che solitamente è l'Ordinario, mentre in certi casi più gravi si rimanda alla Santa Sede). 7.5. Le sanzioni più gravi nella Chiesa Le scomuniche latae sententiae sono in assoluto le sanzioni più gravi dell'ordinamento canonico: da un lato si tratta di censure, quindi del tipo di pena più grave, che va a toccare sia l'accesso ai sacramenti sia le relazioni nella comunità; dall'altro lato non richiedono la necessità di essere irrogate da qualcuno, ma scattano in modo automatico, non appena viene commesso il delitto. Il Codice di diritto canonico prevede sette casi di scomunica latae sententiae; un ulteriore caso è previsto nel decreto Congregatio quo della Congregazione per la dottrina della fede (23 settembre 1988) circa la divulgazione del contenuto della confessione; altri quattro casi sono aggiunti dalla costituzione apostolica Universi dominici gregis (22 febbraio 1996) circa l'elezione del Sommo Pontefice. Di questi dodici casi, sei presentano una ulteriore aggravante, nel fatto che la loro remissione è riservata esclusivamente alla Santa Sede. È soggetto alla scomunica latae sententiae riservata alla Santa Sede (soltanto il Sommo Pontefice o la Penitenzieria apostolica possono verificare la cessazione della contumacia e togliere la pena): 1. chi profana le specie consacrate, cioè l'Eucarestia (can. 1367); 2. chi usa violenza fisica contro il Romano Pontefice (can. 1370 §1);125 3. il sacerdote che dà l'assoluzione (peraltro invalida) al proprio complice in un peccato contro la castità (can. 1378 §1 e 977); 4. il vescovo che consacra un altro vescovo senza il mandato dalla Santa Sede, come anche il vescovo che riceve tale consacrazione (can. 1382); 5. il sacerdote che viola direttamente il sigillo sacramentale della confessione, rendendo pubblico il peccato e il peccatore (can. 1388 §1); 6. chi, incaricato dei vari servizi durante il conclave, viola il segreto relativo all'elezione del Sommo Pontefice (Universi dominici gregis, 58). È soggetto alla scomunica latae sententiae non riservata alla Santa Sede (spetta all'Ordinario 125 Il pensiero potrebbe andare subito al terrorista turco Ali Ağca, che sparò a Giovanni Paolo II, ma è necessario ricordare che egli, non essendo battezzato, non è soggetto alle leggi penali canoniche, a norma del can. 11. 44 verificare la cessazione della contumacia e togliere la pena): 7. chi compie il delitto di apostasia (rinnegare interamente la propria fede), eresia (rinnegare una verità essenziale della propria fede), scisma (separarsi dalla comunione ecclesiale) (can 1364 §1); 8. chi procura l'aborto (can. 1398); 9. il cardinale che si rende colpevole di simonia in occasione dell'elezione del Sommo Pontefice (Universi dominici gregis, 78); 10. il cardinale che si rende latore di un qualche veto imposto dall'esterno in occasione dell'elezione del Sommo Pontefice (Universi dominici gregis, 80); 11. i cardinali che fanno patteggiamenti, accordi, promesse od altri impegni di qualsiasi genere, che li possano costringere a dare o a negare il voto ad uno o ad alcuni in occasione dell'elezione del Sommo Pontefice (Universi dominici gregis, 81); 12. chi registra con qualsiasi strumento tecnico ciò che nella confessione sacramentale viene detto dal confessore o dal penitente, oppure lo divulga (Congregatio quo). 45