Subido por Jesús Martínez Codesido

Frammenti inediti dinterni pompeiani in

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RIVISTA DI STUDI
POMPEIANI
XXV
2014
«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
© 2015 «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER – Via Cassiodoro 19, Roma
© Associazione Internazionale Amici di Pompei – Piazza Esedra, Pompei
Direttore responsabile della Rivista Angelandrea Casale
Rivista di studi pompeiani / Associazione internazionale amici di Pompei. A. 1 (1987)-, - Roma: «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 1987.-, III.; 29 cm.
- annuale
ISSN 1120-3579
ISBN 978-88-913-1019-4
1. Associazione internazionale amici di Pompei
CDD 20.
937.005
Periodico: Autorizzazione Tribunale di Torre Annunziata n. 34 del 26-11-1996
Sommario
PIER GIOVANI GUZZO, L’Internazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .7
ALESSANDRO GALLO, Il progetto architettonico-strutturale della Casa di M.E pidio Sabino a
Pompei (IX,1, 22-29). Una lettura diacronica in chiave politica-sociale . . . . . . . . . . . .
9
RICCARDO FUSCO, Frammenti inediti di interni pompeiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
41
MASSIMO RICCIARDI, Frutti, fiori e piante nei dipinti murali della Villa A (Villa di Poppea) ad Oplonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
63
FABRIZIO RUFFO, Osservazioni sull’ager pompeianus e sugli effetti della colonizzazione
sillana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
75
MICHELE DI GERIO, Studio sugli strumenti chirurgici nel Museo Archeologico Nazionale
di Napoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
93
Notiziario
Attività Soprintendenza speciale per Pompei Ercolano e Stabia . . . . . . . . . . . . . . . . . .
111
Nota del Direttore (P.G. GUZZO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
113
Attività Ufficio Scavi di Pompei (G. STEFANI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
113
Ufficio mostre (G. STEFANI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
113
Attività del Laboratorio Ricerche applicate (E. DE CAROLIS) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
115
Ufficio Editoria (M.P. GUIDOBALDI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
115
Ufficio Tecnico: Cinta muraria; Necropoli di Porta Nocera (V. PAPACCIO); Interventi al
muro di cinta della Soprintendenza (V. PAGANO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
117
Indagini nel territorio: Via Nolana (U. PAPPALARDO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
144
Nuova Cartografia di Pompei (R. MORICHI, R. PAONE, P. RISPOLI, F. SAMPAOLO) . . . . . . . . .
146
Ufficio Scavi di Boscoreale (A. M.SODO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
150
Ufficio Scavi di Oplontis (L. Fergola); Indagini archeologiche nell’area della Villa A di
Oplontis (A. BONINI, M. PREVITI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
150
Ufficio Scavi di Ercolano (M.P. GUIDOBALDI); Le attività a gestione diretta del partner privato nell’ambito dell’Herculaneum Conservation Project (D. CAMARDO, M. NOTOMISTA) .
153
Notiziario Ercolano, Territorio: Carotaggi geoarcheologici nell’area della nuova Caserma dei Carabinieri a Ercolano (M.P. GUIDOBALDI, D. CAMARDO, M. NOTOMISTA); Portici,
campagna di carotaggi geo-archeologici in Piazza San Ciro (M.P. GUIDOBALDI, D. CAMARDO, A. ROSSI); Torre del Greco, Villa Sora (M.P. GUIDOBALDI) . . . . . . . . . . . . . . . .
166
Ufficio Scavi di Stabia (G. BONIFACIO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
174
Alcune riflessioni su Stabiae: Stabiae, San Marco: la villa, le Terme, il Narcisso (F. RUFFO);
Il settore termale di Villa San Marco (L. JACOBELLI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
174
Ufficio Scavi Zone periferiche (C. CICIRELLI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
183
Discussioni
La forma del Vesuvio: On the shape of Vesuvius before A.D. 79 (and why it should matter to modern archaologists) (G.F. DE SIMONE); Mediando ricerca e divulgazione: un
nuovo modello del Vesuvio per il grande pubblico (E. QUINTO, P. SILVESTRI); Le lucerne
in sigillata africana dalla villa romana di Pollena Trocchia (V. CASTALDO) . . . . . . . . . . .
201
Recensioni
E. DE CAROLIS, Robert Rive,Un album fotografico di Pompei, Ass. Amici di Pompei, Quaderno St.Pomp VI 2013 (F. PROTO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
212
V. SAMPAOLO, A. HOFFMAN, Pompeji, Götter, Mythen, Menschen (Bucerius Kunst Forum;
Munchen: Hirmer 2014) (F. PROTO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
212
A. PISTILLO, IL Museo civico G. Barone.Vetri e bronzi, Palladino ed., Campobasso 2013
(M. CASTOLDI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
213
Ager pompeianus et ager stabianus. L ’esempio della Villa B di Oplontis e della Villa Cuomo a S. Antonio Abate, Istituto per la diffusione delle scienze naturali, ed. f.c., 2013
(V. CASTIGLIONE MORELLI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
214
RICCARDO FUSCO
Frammenti inediti d’interni pompeiani
The present work illustrates fragments of marble intarsia that have never been published: the top of a one-foot table, some crustae
representing animals and a portion of acanthus scrolls. They come for sure, or most likely, from Pompeii, and allow to increase
the current knowledge of the roman art in multi-stone covering by identifying, on one hand, a new iconographic star theme and,
on the other hand, by demonstrating that on the I century also walls were decorated with inlaid plant motifs. The table top provides a new evidence of the Hebrew presence in ancient Pompeii.
Keywords: architettura; astri; Ebrei; intarsio; opus sectile
Il mito dell’origine tessile dell’architettura e il suo perpetuarsi nella
storia del rivestimento con ornamenti
di derivazione tessile costituì il nucleo
fondante di una cultura architettonica
che, poco dopo la metà dell’800, si
proponeva come alternativa a quelle
fondate sul mito classico, vitruviano,
di una struttura costruttiva trilitica nobilitata in ordine1. La formulazione
teorica del concetto di involucro/spazio, leggero per definizione e rispetto
al quale la struttura è solo supporto, è
di Gottfried Semper il quale diede finalmente voce a soluzioni architettoniche invalse sin dall’Antichità. Con
questa nuova idea del principio del
rivestimento, centrata su di una polarità oscillante tra il mascheramento e
la rivelazione della struttura, la teoria
e la prassi architettonica è stata continuamente costretta a confrontarsi,
nell’esasperazione di contenuti suscitata dai mutamenti tecnologici che
rendeva quell’idea ancora più attuale2. Frutti più pacifici, e forse duraturi,
ha invece garantito la visione semperiana a tutte le analisi successive sull’architettura antica. Scrive ad esempio Giulio Carlo Argan, nel 1968:
«nell’architettura romana la parete ha
la funzione di determinare lo spazio;
concepita come limite o fondo, qualifica
lo spazio atmosferico antistante allo stesso modo che il fondo di una piscina determina, per trasparenza, il colore dello
specchio d’acqua. La qualità plastica del-
la parete non è definita soltanto dalle
membrature architettoniche, ma anche
dalla decorazione plastica e, negli interni, pittorica. Poiché la parete non è sentita come una superficie solida, ma come
una spazialità o una profondità immaginaria, non sorprende che su di essa vengano rappresentati, plasticamente o pittoricamente, aspetti della natura o eventi
storici e mitologici. Lo spazio della parete rimane tuttavia uno spazio immaginario o ipotetico, un piano di proiezione: le
immagini – architettoniche o naturalistiche – risentono ad un tempo della condizione imposta dal piano e della libertà
concessa alla fantasia dell’artista dal fatto
che quello spazio è, appunto, uno spazio
immaginario»3
Polimatericità e tendenza ad una
spazialità immaginaria fatta d’involucri cromatici, più che di volumi o geometrie, sono fenomeni molto precoci
nell’architettura romana. Nessuna differenza concettuale è intercorsa a Roma fra intonaci dipinti, mosaici, stucchi o tarsie marmoree, al di là delle
percezioni di status. Il punto di fusione di questa eterogeneità di materiali
artistici è quello che Michelangelo
Cagiano De Azevedo chiamava il valore cromatico di uno spazio architettonico: spazio sorto e costantemente
definito da luce, atmosfera, colori4. I
vari tipi di rivestimento appaiono per
lo più associati; il mosaico passa alle
pareti, alle volte, ai soffitti già ai tempi
di Plinio, e nelle grandi aule tardo-antiche, di Roma e di Ostia, assurgono a
dimensione figurativa e monumentale le geometrie marmoree dei commessi pavimentali repubblicani5.
Complementari e intercambiabili, nella funzione e nel repertorio, sono
stucco e pittura, pittura e intarsio,
mentre i sistemi di partizione dei soffitti sono spesso quelli, centripeti, delle stesure pavimentali. Solo il quadro
da cavalletto possiede completa autonomia e vera rappresentatività artistica, «eccetto per quel tanto che comportava la sua destinazione»6. È nell’architettura che si sommano i multiformi aspetti dell’operare pittorico romano ed è romano lo spazio in cui la
decorazione si coordina organicamente all’architettura, segnando la
funzione di ambienti o d’interi edifici,
privati o pubblici che siano. La firma
di Q. Amiteius, architectus al di sotto
del pannello centrale del mosaico a
medaglioni da Luc-en-Diois, dimostra
presente anche alla coscienza degli
Antichi questa unità tra progetto e
realizzazione, decorazione e costruzione, arredi e struttura7. Un fenomeno simile è stato riscontrato da Elena
Calandra in quel limite architettonico
costituito dagli apparati cerimoniali
provvisori delle tende regali tolemaiche8. Gli arredi - e in particolare i tessuti ornati - rivestivano per esse una
funzione costituiva essenziale riverberata nelle fonti che ne parlano, come Ateneo della tenda di Tolomeo II,
descritta e definita, pressoché esclusivamente, mediante gli arredi.
42
Riccardo Fusco
1. Piano di tavolo con opus sectile pavimentale proveniente da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, Depositi (s. inv. n.) (da MILANESE 2007).
È molto probabile che Giuseppe
Abate, dal 1838 “Primo Disegnatore”
degli scavi di Pompei, abbia avuto
contatti con G. Semper nel corso dei
suoi due soggiorni londinesi9 tra
1853 e 1854. Lo stesso Semper era infatti coinvolto nell’impresa del Crystal Palace di Sydenham a Londra dove la storia dell’architettura e degli
stili decorativi erano illustrate al
grande pubblico con dieci Fine Arts
Courts (egyptian, assyrian, greek,
arabian, etc.) tra cui era la Pompeian
Court progettata ed eseguita proprio
da Abate. Lo stesso Abate almeno in
parte realizzò, su progetto di M. Ruggiero e F. Niccolini, le quattro sale in
stile neopompeiano volute da Giuseppe Fiorelli ed eseguite al pianterreno del Museo di Napoli tra 1864 e
1870. Esse segnarono un’apertura
verso le più aggiornate riflessioni
contemporanee sul design e le arti
applicate: destinate all’esposizione
della plastica in bronzo di provenienza vesuviana e tutte decorate su modelli pompeiani, esse intendevano ri-
dar vita a Pompei anche collegandone gli oggetti, le sculture e le decorazioni alla produzione artistica e al
mercato contemporanei10.
Ad alcuni monumenti di provenienza pompeiana, certa o molto
probabile, è dedicato questo lavoro:
si tratta di manufatti ad intarsio o a
commessi di marmi destinati agli arredi stabili o amovibili di alcune pareti domestiche dell’antica città vesuviana. Ancora inediti, essi offrono
l’opportunità di approfondire alcuni
aspetti, o declinazioni del gusto, della vita di Pompei, «un tema suggestivo come un dramma in atto» anche
sul piano artistico11. Il design d’interni in marmi colorati della prima età
imperiale romana costituisce invece
il quadro più generale.
Già ne I Pittori di Pompei, del
1963, Carlo L. Ragghianti affermava la
necessità di un esame completo dei
rapporti «tra pittura e architettura, pittura e scultura, pittura e c.d. arti minori, oltre a quelli, più scontati, con il
mosaico e la pittura vascolare», nella
vitalità di un clima verace in cui, allo
studioso, risultava più significativa la
freschezza originale della plastica a
stucco che il neoatticismo attardato12.
L’evidenza delle molteplici possibilità
combinatorie dei vari tipi di rivestimenti parietali nelle case di Pompei,
tra la fine della Repubblica ed il I secolo d.C., fu garantita, circa un ventennio più tardi, dalla sinossi degli
ornati di pitture e pavimenti di M. de
Vos e F. L. Bastet che compiva un primo tentativo nella direzione diastratica di Ragghianti13. Questa mostrò che
i più vistosi complessi di quell’epoca
comprendevano, spesso concomitanti, tarsie figurate, rilievi mitologici,
marmi dipinti, pinakes di legno dipinto. Una delle evidenze indirettamente fornite da quella sintesi riguardò la progressiva affermazione del
marmo negli spazi della vita sociale14. A questo tema l’area vesuviana
ha offerto numerose testimonianze,
la cui importanza è sottolineata dalle
acquisizioni raggiunte, anche grazie
a riferimenti cronologici numerosi e
sicuri. Così è accaduto, ad esempio,
per la definizione dello sviluppo dei
pavimenti settili, cui l’area vesuviana
ha fornito un importante campionario rappresentativo: da quelli a rombi
prospettici15 di palombino, ardesia
nera16 e scisto verde, testimoni della
diffusione anche nell’Italia tardo-ellenistica del decor divino di antica
ascendenza orientale, ai magnifici
esemplari neroniani, floreali e geometrici, tra i più rari e lussuosi del repertorio romano17. A Pompei ne possiamo ormai contare tre: uno nel triclinio della Casa dell’Efebo (I 7, 11)
dove, protetto da lamina plumbea,
occupava lo spazio sacro sotto la
mensa18; un altro dall’oecus della Casa di Bacco (VII 4, 10), anch’esso
marmoreo e vitreo, già ammirato da
William Gell19 e a noi noto solo da disegni antichi20; ed un altro ancora, interamente marmoreo (fig. 1) e di bottega urbana21, che, montato su di un
supporto di marmo di Carrara, fu trasformato in tavolo, su disegno di Michele Ruggiero22. Nell’allestimento
museale voluto dal Fiorelli, quest’ultimo fu dislocato nel “Salone Pompe-
43
Frammenti inediti d’interni pompeiani
iano”, dove i grandi bronzi erano
esposti, su basi di marmo colorato,
sotto volte dipinte come il soffitto
stellato del frigidarium delle Terme
Stabiane, tra pavimenti ispirati dall’opus scutulatum e pareti tipo I stile.
Non era l’unico tavolo in esposizione: un altro (fig. 2), delle stesse dimensioni, riproduceva in stile, con
un gusto cromatico ispirato ad opere
degli anni centrali del I secolo, il celebre motivo pavimentale dei tre quadrati iscritti23. Per realizzarlo Michele
Ruggiero adoperò forse alcune di
quelle ‘mostre’ di marmi pompeiani
di cui egli parla, nel 1872:
«Dei marmi bianchi, dei mischi, degli
alabastri e delle pietre dure usate in
Pompei ho fatto lustrare e mettere in ordine quadretti di quante più sorti ho potuto ritrovare; da cui si ravvisa che i marmi bianchi, alcuni erano dei monti nostri
di Carrara, alcuni di Grecia che si conoscono alla grana e ai lustri salini e i mischi quasi tutti di quelli che ora son detti
antichi, per essere o smarrite o consumate le cave»24.
Con testimonianze di diversa consistenza, Ercolano e Pompei dimostrano inoltre che il marmo, pur essendo ormai la norma per gli edifici
pubblici di I secolo, rimaneva, negli
spazi privati, un privilegio delle classi
medio-alte25. Parietes crustatae risultano oggi a Pompei soltanto nelle case dei Dioscuri (VI 9, 6-9), delle Vestali (VI 1, 6-8 e 24-26) e di Fabio Rufo (VI 16, 20-22)26; ad Ercolano invece, oltre che nelle Terme Suburbane,
nella Palestra (Ins. Or. II, 4) e nel Sacello degli Augustali, ancora nella
Casa dei Cervi (IV, 21) e in quella del
Rilievo di Telefo (Ins. Or. I, 2). Il triclinio (18) di questa casa conserva
uno degli esempi più belli di colonnato in miniatura ellenistico trasfigurato in schema parietale marmoreo27.
Di altezza relativamente considerevole28, esso mostra ampi specchi di
marmi policromi, delle varietà più
appariscenti (cipollino bluastro, giallo carnagione) oppure brecciate
(giallo antico, africano), disposti concepiti e lavorati come tappeti variopinti, tesi tra fusti tortili capitelli ed
architravi bianchi e rosa29. Seppure
2. Piano di tavolo con opus sectile di tipo pavimentale, creazione ottocentesca in stile. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, Depositi (s. inv. n.) (da MILANESE 2007).
incomparabile con lo sfarzo e la profusione di marmi ad intarsio allestiti
sul pulpito della fontana a scaenae
frons del primo palazzo di Nerone
sul Palatino30, di poco più antico, esso testimonia della grande creatività
dispiegata per le variazioni su questo
tema decorativo grazie ai marmi colorati31. La selezione attenta di peculiari qualità cromatiche, peraltro recentemente documentata nell’allestimento parietale tardo-augusteo di un
vestibolo del Foro di Cuma32, corrisponde ad un gusto specifico palesato dalla scelta della breccia di Sciro
negli oeci 20 e 21 della stessa casa e
dalla singolare ed incisiva presenza,
anche in altri complessi ercolanesi,
della più rara breccia rossa appenninica33. Il diverso carattere quantitativo e qualitativo della documentazione marmologica relativa ai due siti
vesuviani è dipesa in gran parte dalle
modalità del loro seppellimento che
solo ad Ercolano hanno impedito le
frenetiche attività antiche di recupero
di materiali di pregio34. A Pompei,
inoltre, i marmi delle dimore residenziali edificate sulle mura furono con-
tinuativamente spogliati, nel corso
degli scavi borbonici, per gli arredi
della Reggia di Portici35. Come ha
scritto Mariette de Vos, Pompei è solo
in apparenza povera di marmi36. Ne
sono indizi significativi la bottega di
marmorari37 rinvenuta tra 1796 e
1798 nella Regio VIII (7, 24); il blocco
di serpentino38 destinato, insieme ad
altre varietà policrome, ai restauri
della casa di Popidius Priscus (VII 2,
20.40); le 180 lastre di destinazione
parietale accatastate in deposito nella
cucina del complesso dell’agro Murecine39; ed infine i numerosissimi locali di ristoro della città40 (popinae prevalentemente, e cauponae, stabula,
hospitia) dove il bancone di mescita
dislocato lungo la facciata della bottega è spesso rivestito di frammenti
marmorei sparsi oppure accuratamente apparecchiati. I disegni dei
viaggiatori e le foto di scavo hanno
dimostrato autentici e non di restauro
questi decori, utili a richiamare, grazie alla bellezza e ricchezza dei marmi, l’interesse della clientela41.
Le testimonianze vesuviane hanno
poi rivestito un’importanza peculiare
44
3. Skyphos in ossidiana con figure egittizzanti ad intarsio di malachite, lapislazzuli,
corallo bianco e rosa, inserite in alveoli intagliati verticalmente e rivestiti di lamina
aurea, da Stabiae, Villa San Marco, quartiere del bagno (da LEOSPO 1999).
Riccardo Fusco
4. Pompei, Casa di Sallustio (VI 2, 4): lastra
parietale di ardesia ornata ad intarsio con
anthemion intermittente di palmette e fiori
di loto, reimpiegata nel tratto SE del pavimento del cubicolo (34) (da SAMPAOLO
1993).
5. Capitello corinzieggiante con calato ad intarsio ed elementi compositivi applicati da Ercolano, Casa dei Cervi (IV, 21), ed uno dei capitelli che lo copiano nella c.d. Basilica di Cibele del J. Paul Getty Museum Building di Malibu (da NEUERBURG 1975).
per la storia dell’arte romana dell’intarsio. Le sue radici egiziano-tolemaiche si sono ad esempio rivelate nel
prezioso vasellame d’ossidiana (fig.
3) dalla villa San Marco a Stabiae42.
Questi prodotti delle manifatture
alessandrine, molto amati dai Romani43 tra I a.C. e I d.C., costituirono un
modello diretto per i marmorari, allorché essi trasferirono gli intarsi minuti alle fastose pareti di grandi dimensioni44. Le stesse caratteristiche
tecniche formali e stilistiche si riscontrano su di una serie, ancora poco
nota, di manufatti augustei che segna
l’esordio dell’intarsio sulle pareti romane45. Ornati di forme solo vegetali,
essi recano un intarsio inciso, poco
profondo – spesso, ma non solo, su
fondo di lavagna – destinato a riempimenti di materiale non lapideo. A
Pompei un esemplare (fig. 4), forse
non completo, ornato di un anthe-
mion intermittente di palmette e fiori
di loto, si conserva reimpiegato in un
pavimento della Casa di Sallustio46
(VI 2, 4), a ridosso della soglia di una
porta aperta verso il portico e di uno
zoccolo rivestito di palombino e portasanta47. Alcune testimonianze antiquarie48 lasciano supporre che le
campiture di questi intarsi fossero in
foglia d’oro, applicata verosimilmente mediante la tecnica a tempera. Anche il calato del raro capitello dal
giardino della Casa dei Cervi ad Ercolano49 era decorato nello stesso modo (fig. 5). Dato a lungo per disperso,
Fedora Filippi ha potuto recentemente ritrovarlo nei depositi, dove il calato è risultato moderno, di cemento
grigio50. Non c’è ragione di dubitare
che esso sia un calco dell’originale,
andato distrutto per qualche ignota
ragione, e che questo fosse in origine
di lavagna: così è per Amedeo Maiuri
che lo portò in luce ed è di Nero del
Belgio il calato dei capitelli della Basilica di Cibele nel Getty Museum di
Malibu che precisamente lo copiano51. Il capitello ercolanese è di quelli corinzieggianti augustei con “volute
a stelo”52, un sottogruppo in cui esso
rientra come esemplare unico per
avere, oltre al calato ornato ad incisione, foglie, fiori, volute ed abaco lavorati separatamente in marmi colorati (giallo antico, palombino, rosso
antico) ed inseriti mediante appositi
alloggiamenti53. Il risultato ricorda i
vasi minoici dello stile di Kamares:
nel suo più intenso effetto, tuttavia,
lo straniamento visivo doveva rivelarsi con l’irradiazione diretta dei raggi
del sole, grazie all’accentuato contrasto cromatico delle pietre adoperate
e allo scintillio degli intarsi in foglia
d’oro54.
Provengono da Pompei i tre celebri pannelli intarsiati, ancora secondo il gusto dei vasi ialini, su fondo di
lavagna. Il raro stato d’integrità di
questi lavori, facilmente inclini alla
caduta e al distacco, ha offerto un riscontro monumentale compiuto alle
parole di Plinio che ancorano all’età
di Claudio la diffusione dell’intarsio
figurato55. Attribuiti da ultimo56 agli
anni 70 del I secolo, le diverse tradizioni figurative cui essi appartengono, se non imputabili ad uno sfasamento cronologico, testimoniano
precocemente di quella pluralità di
modelli tipica dell’intarsio romano57.
I primi due (figg. 6-7), certamente
pendant o resti di una serie, decoravano un ambiente soprastante il tablino della Casa dei Capitelli Colorati
(VII 4, 31 e 51), dimora di impianto
sannitico che conservò, nel tempo,
tutti i suoi caratteri ellenistici58. E un
tratto tipicamente greco possiedono
queste Menadi e questi Satiri danzanti oppure offerenti che, pur ispirandosi a modelli del manierismo ellenistico, ricordano da vicino i vasi a figure rosse per struttura dei corpi, interpretazione del movimento, disegno59: caratteristiche che traspaiono
in effetti anche dai Satiri del ninfeo di
Punta dell’Epitaffio60. Era murato invece nella zona mediana della parete
in III stile del triclinio della Casa di
45
Frammenti inediti d’interni pompeiani
6. Giuseppe Abbate, 1843: pannello con scena dionisiaca ad intarsio di marmi colorati da
Pompei, Casa dei Capitelli colorati (VII 4, 31), inchiostro su cartoncino (da PPM 1995).
8. Venere che si allaccia il sandalo, pannello
ad intarsio di marmi colorati, da Pompei,
Casa di Volusio Fausto (I 2, 10) (da BONANNI 1998).
7. Giuseppe Abbate, 1843: pannello con scena dionisiaca ad intarsio di marmi colorati da
Pompei, Casa dei Capitelli colorati (VII 4, 31), inchiostro su cartoncino (da PPM 1995).
9. Pompei, Casa del Primo Piano (I 11,
15.9), pianta. (da PPM II).
Villa B di Oplontis63, con le sue straordinarie agemine figurate in rame e
in argento, ancora molto vicine a
quella tradizione decorativa, e la piccola anta di legno intarsiata in avorio64 con Eroti alati in un reticolo di
rombi, kantharoi e piccole anfore,
dalla Casa pompeiana del Criptoportico (I 6, 2). Si tratta di manifestazioni
notevoli della continuità di quel gusto abitativo che le élites ellenistiche
avevano coltivato, conformandosi alle cadenze di uno stile principesco,
nell’esaltazione di una vita privata
voluttuosa, allegra, lussuosa, anche
negli arredi domestici. La trasmigrazione di questi modelli decorativi nel
linguaggio dei marmi proprio del I
secolo è indicata dalla mensa di pavonazzetto proveniente dal triclinio
estivo allestito in mezzo al frutteto
dell’insula I 22 di Pompei65. Priva dei
sostegni, essa è decorata a champlevé
con gli ornati geometrici di un esagono fiancheggiato sui due lati da tre
formelle quadrate, sul fondo di crustae di marmo africano rosso brecciato. Il gusto è quello dei pavimenti
Volusio Fausto (I 2, 10) il terzo pannello (fig. 8), con Venere che si allaccia il sandalo – cui faceva riscontro
un quadro dipinto, ora perduto, con
Dioniso che abbevera la pantera61. È
difficile riconoscere il modello formale tardoellenistico cui s’ispira questa Venere schiettamente romana, così somigliante agli Eroti e alle Danzanti della prima domus neroniana al
Palatino62.
Alla consuetudine regale ellenistica d’intarsiare anche gli arredi amovibili ci riportano la cassaforte della
46
Riccardo Fusco
10. Piano di tavolo in ardesia decorato ad intarsio con due rosette a sei petali entro cerchio,
da Pompei, Casa del Primo Piano (I 11, 15.9), tablino (Foto autore).
11. Piano di tavolo in ardesia decorato ad intarsio, dettaglio del margine frontale (Foto autore).
settili contemporanei, medi e piccoli,
anche di Pompei e di Ercolano, dove
continuamente ricorrono motivi geometrici semplici, come i quadrati e gli
esagoni, nelle più svariate combinazioni disegnative66.
Un piano rettangolare di ardesia67,
ancora inedito, offre invece un’ottica
inconsueta su questi arredi amovibili
pompeiani ad intarsio, arricchendo il
quadro sinora noto (fig. 10). Rinvenuto nel tablino della domus I 11,
15.9, insieme ad una grossa anfora68,
esso è intarsiato secondo la tecnica a
cassina di pieno I secolo, già testimoniata a Pompei dai materiali menzionati. L’abitazione (fig. 9) è una di
quelle, unifamiliari, create in età sannitica per le classi subalterne, in risposta ad un improvvisa e massiccia
richiesta di alloggi di piccole dimensioni verificatasi in città nei decenni
successivi alla guerra annibalica69.
Esse recano, seppure variata, una
struttura planimetrica egualitaria, sorta da una rigida parcellizzazione
dell’insula, in cui pochi ambienti si
raccolgono attorno ad un atrio scoperto. Questa tipologia edilizia, che
l’Hoffmann70 definì modernamente
“a schiera”, individua un modello
preciso che il Nappo71 ha potuto documentare nella Regio I. In origine
modeste e funzionali, queste abitazioni furono suscettibili di modifiche:
quella da cui il piano proviene fu dotata, nella sua ultima fase, di ambienti
padronali riccamente affrescati in IV
stile, al piano superiore di un corpo
di fabbrica edificato sul lato di fondo
del cortile72. La faccia principale del
piano, su cui restano solo le cassine,
è ornata da due grandi rosette entro
cerchio i cui petali – sei in tutto –,
frammezzati da sei cerchietti, si dispongono attorno ad un bottone cen-
trale. Lo spazio tra le rosette è campito da altri due cerchietti sormontati
da elementi semilunati con le punte
rivolte all’esterno, mentre gli angoli
della lastra sono evidenziati da triangoli isosceli. Anche tre dei quattro
margini della lastra sono intarsiati
(fig. 11): quello più lungo per ospitare listelli ai lati di una borchia centrale, i due laterali solo per listelli. L’ultimo margine è liscio, e la faccia opposta a quella principale è lavorata a
gradina. Per la forma e la distribuzione degli ornati, il manufatto può essere riconosciuto come un esemplare
di tavolo monopodico di piccole dimensioni, un genere di arredo molto
versatile e molto diffuso, a Pompei e
nell’impero, anche in abitazioni modeste, ma molto raramente in versione intarsiata73. Addossati alle pareti di
rappresentanza, questi tavoli, introdotti a Roma nel corso del II secolo
a.C. con i bottini delle guerre orientali74, erano destinati all’esposizione
di vasellame o di oggetti di pregio.
All’interno di questa tipologia, la peculiarità dell’esemplare pompeiano è
segnalata dalla prominenza assoluta
del motivo della rosetta a sei petali:
un motivo decorativo universale e
antichissimo, di origine sumerica75, e
noto a Pompei sin dall’età ellenistica76. Una madia dipinta su di un’hydria del Pittore di Gallatin77, dove esse compaiono similmente in coppia,
ma senza cerchio, dimostra che il
motivo è già di età classica: tuttavia
del manufatto in esame, ogni singolo
elemento iconografico, oltre che tecnico-formale, trova confronti precisi
ed esaurienti in monumenti prodotti,
a partire dai decenni finali del I secolo a.C., nel mondo giudaico della Palestina antica. Tra i tavoli lapidei rinvenuti nel quartiere ebraico di Gerusalemme, si discerne infatti una tipologia costituita da piccoli piani rettangolari sorretti da un sostegno centrale in forma di colonna, articolata in
base, fusto e capitello78. Scolpiti nel
duro calcare locale, essi sono ornati,
sulla faccia principale, di motivi floreali o geometrici realizzati con
un’incisione profonda79, tra cui, perspicue, le due rosette entro cerchio,
spesso intervallate da altri elementi
47
Frammenti inediti d’interni pompeiani
aniconici (vegetali, architettonici, o
geometrici), nella totale adesione alla
prescrizione biblica che segna l’arte
giudaica del tardo Secondo Tempio
(50 a.C.- 70 d.C.)80. Anche a Gerusalemme, questi tavoli servivano il vasellame potorio, come mostra un
esemplare di piano decorato che raffigura un tavolo di questo genere
(fig. 12), affiancato, all’altezza del sostegno, da due grandi orci81: ed in effetti una grossa anfora fu rinvenuta,
come s’è detto, accanto al piano di
tavolo di Pompei. In Giudea, la produzione di questi manufatti è legata
ad una vera e propria industria della
pietra, sorta dalle attività di ampliamento del Secondo Tempio ad opera
di Erode il Grande, cui dobbiamo anche vasellame, elementi della decorazione architettonica ed ossari82.
Nell’ambito di questi ultimi, prodotti
a partire dal 20-15 a.C., i confronti
con il manufatto pompeiano si moltiplicano a dismisura (fig. 13), per l’infinita e variata riproduzione del motivo ribattuto della rosetta entro cerchio83 e per l’horror vacui che impronta l’adozione dello schema, esteso a tutto il campo decorativo84. Sulla
base di questi esempi, possiamo supporre che gli elementi semilunati nello spazio tra le rosette vogliano raffigurare una menorah, il candelabro a
sette braccia, simbolo stesso della nazione ebraica. Per la spiccata tendenza alla stilizzazione aniconica, la menorah si trova infatti anche resa, proprio negli ossari, con due semplici
semicerchi che ne rappresentano la
base e le braccia, senza asta85. Sulla
lastra pompeiana, potrebbero tuttavia alludere a questa i due cerchietti
compresi tra le semilune, secondo la
convenzione figurativa che la compone di elementi globulari o circolari86. Non è da escludere tuttavia che
le semilune vogliano rappresentare il
crescente lunare, universalmente associato alla rosetta in numerosi monumenti, anche giudaici87, dalla più
remota antichità. In relazione al piano simbolico delle raffigurazioni, gli
studiosi dei materiali giudaici più antichi ritengono che esso sia del tutto
soffocato dalla forte tendenza ornamentale, pur riconoscendo la persi-
stenza di valori astrali e apotropaici,
connessi alla immagine della rosetta88. Può dirsi forse lo stesso per il
monumento pompeiano, soprattutto
se gli elementi semilunati intendono
raffigurare il crescente lunare piuttosto che la menorah: elemento che ne
accentuerebbe il valore talismanico,
in riferimento al tempo infinito, all’eternità, all’universo89. È importante
a questo punto ricordare che proviene dalla adiacente abitazione I 11, 14,
un’iscrizione che è ormai considerata
l’unica e più probabile attestazione di
una presenza ebraica in Pompei90,
delle tante un tempo congetturate a
partire da elementi decorativi, instrumenta domestica ed antroponimi91. Graffita in profondità tra due
pentacoli, nello stucco di rivestimento steso dopo il sisma del 62 d.C. sulla parete destra del vestibolo, essa
recita a mezza altezza, in modo da
essere ben visibile a chi entrava: POINIUM CHEREM. Il carattere magico-profilattico del testo, già evidenziato
dalle due stelle a cinque punte, è individuato, secondo Giancarlo Lacerenza, dal termine cherem92 in cui va
riconosciuto l’atto di riservare, conservare – qualcosa o qualcuno – alla
divinità: in latino, il sacrum. Pur non
essendo automaticamente ebraica
un’iscrizione magica in cui siano
presenti lemmi semitici93, la presenza, nella casa accanto a quella da cui
il testo proviene, di un tavolo altrettanto caratteristicamente giudaico,
attribuibile anch’esso al pieno I secolo e non estraneo, come si è visto,
ad un’intenzione magico-talismanica, può offrire un sostegno forte a
quest’identificazione.
È possibile che siano Ebrei immigrati i proprietari di queste due abitazioni pompeiane? Alcuni dati ci consentono almeno d’ipotizzarlo. La
Campania è la regione per cui si possiede la maggiore e più antica documentazione di comunità giudaiche
diasporiche, già prima dell’enorme
afflusso di schiavi ebrei a seguito delle campagne militari di Vespasiano e
Tito94, dopo le quali la destinazione
italica delle migliaia di prigionieri catturate in Giudea fu, in particolar modo, meridionale. Agli inizi del I seco-
12. Piano di tavolo lapideo decorato ad incisione, I secolo d.C., da Gerusalemme (da
HACHLILI 1988).
13. Ossario in calcare bianco, I secolo a.C. –
I secolo d.C., da Gerusalemme (da HACHLILI 1988).
lo, inoltre, Puteoli è sede di un’importante e fiorente comunità giudaica, in
rapporti con Erode, i suoi figli e la sua
corte95. Qui Paolo incontra, fra 59 e
61, alcuni suoi adelphoi e fonti rabbiniche vi testimoniano, per l’età domizianea, il passaggio di maestri palestinesi96. Indizi di presenza ebraica nel
corso della prima età imperiale permangono inoltre per Ercolano e Stabia97, ed infine una diffusione capillare del giudaismo in età tardoantica si
testimonia nell’agro nocerino-sarnese, dove la comunità ebraica, stabilmente radicata e fortemente strutturata, aveva anche una sinagoga in cui
incontrarsi98. È dunque molto probabile la presenza di Ebrei anche a
Pompei, cittadina mercantile in cui
erano noti o praticati vari culti stranieri. Tenuto conto anche del numero
molto limitato di conversioni nella
stessa Roma99, la probabilità che le
due abitazioni siano appartenute ad
Ebrei immigrati pare molto alta. Parte
essenziale della vita dei Giudei della
diaspora è la fiducia derivante dalla
celebrazione delle tradizioni avite,
anche per sopravvivere in una società
che cercava in tutti i modi di cancellarle100. Non possiamo non leggere
48
Riccardo Fusco
14. Protomi di orso, cavallo, grifo e corpo di
cetaceo, crustae in giallo antico, Napoli Museo Archeologico Nazionale, Depositi, invv.
nn. 6513, 6512, 6510, 6511 (Foto autore).
15. Frammento di globo celeste con figure di costellazioni ad intarsio: fondo in marmo bigio
antico tenario e crustae superstiti in giallo antico, da Roma, Berlin Antikensammlung der
Staatliche Museen, inv. n. Sk 1050 a (da KÜHNE 2011).
dunque nel tavolino di Pompei, allestito secondo la moda corrente per i
tavoli parietali nelle case delle élites
giudaiche di Gerusalemme, un’affermazione d’identità e d’appartenenza,
ribadita dal richiamo simbolico dei
suoi ornati, inneggianti al cuore stesso della nazione giudaica e alla sua
arte, di cui la rosetta può dirsi il più
importante simbolo rappresentativo,
come ha notato Rachel Hachlili101.
L’appropriazione concomitante del
linguaggio di beni di lusso tipici della
società romana di I secolo, come le
tarsie su fondo nero, può inoltre individuare un buon livello, o una chiara
volontà, d’integrazione sociale. Sul
piano dei modelli formali, in questo
manufatto pompeiano si vedono riecheggiati i tavoli principeschi deliomacedoni di ardesia intarsiata di paste colorate102: un modello che a
Pompei, fiorente porto allo sbocco
della valle del Sarno, poté diffondersi
grazie alle attività orientali dei mercatores italici, sollecitate dalla creazione a Puteoli del nuovo terminale
dei commerci marittimi diretti a Roma103.
Nei depositi del Museo Nazionale
di Napoli è stato finalmente possibile
ritrovare quattro delle cinque crustae
raffiguranti animali che Olga Elia citò
la prima volta nel 1929, in una nota
del saggio sui tre celebri intarsi pompeiani104. Si tratta delle protomi (fig.
14), integre e lavorate separatamente,
di un orso, di un cavallo e di un grifo,
oltre che del corpo di un pesce, forse
un cetaceo, mancante solo di una
parte della coda105: della zampa,
elencata all’epoca nel gruppo, non
v’è più traccia106. Segate, apparentemente, in marmo giallo antico e ricoperte, nella prevalenza dei casi, di
una patina grigio-scura dovuta forse
a combustione, esse recano spessori,
tutti compresi tra 0,4 e 0,6 cm, e margini, arrotati e rientranti, che, insieme
alla resa prevalente dei dettagli anatomici mediante l’incisione, ne rendono certa la pertinenza originaria ad
un lavoro di tarsia di I secolo. Sulla
base delle occorrenze inventariali, è
possibile supporre che i frammenti
siano pervenuti nelle collezioni del
Museo tra 1820 e 1849: essi compaiono infatti solo a partire dall’Inventario San Giorgio107 dove, seppur elencati tra reperti vesuviani, non è esplicitata l’indicazione di questa provenienza, come anche nel successivo
Inventario del Fiorelli108. L’ipotesi di
un’origine pompeiana, pur molto
probabile, è destinata dunque a rimanere tale: anche nei diari di scavo di
quegli anni non se ne trova conferma. Omogeneità di materiale e dimensioni lasciano ipotizzare che le
crustae facessero parte di una stessa
composizione. Figure animali sono
presenti negli intarsi romani, incluse
in scene di carattere dionisiaco o, più
raramente, come elementi decorativi
isolati: così ad esempio il grifo, la
pantera, la farfalla, la lupa109. Mancano tuttavia esempi, anche di altro genere artistico, in cui tutti e quattro
questi animali appaiano raffigurati
insieme. In una raffigurazione di cacce circensi o di giochi gladiatori110
bene si troverebbero l’orso ed il cavallo, ma più difficile sarebbe la presenza del pesce e del grifo. Una scena di tiaso marino, pur includendo
cavallo, grifo e pesce lascerebbe da
parte, inevitabilmente, l’orso: solo in
un fregio “popolato” si potrebbero
forse trovare concomitanti tutti e
quattro gli animali111. Una più corretta e suggestiva alternativa ermeneutica, che può restituire ai frammenti in
esame il loro più alto valore testimoniale, sembra offerta da un frammento di globo celeste (fig. 15), in marmo
49
Frammenti inediti d’interni pompeiani
16. Frammento di globo con figure di costellazioni ad intarsio, Berlin Antikensammlung der Staatliche Museen, inv. n. Sk
1050 a, restituzione grafica (da BESCHREIBUNG 1881).
bigio tenario112, acquistato a Roma
nel 1889 e conservato oggi nei Musei
di Berlino113. Di questo importante
monumento, ignorato dagli studi
sull’intarsio romano, risulta tuttavia
necessario approfondire attribuzione
e datazione, sinora molto controverse. Di forma concava, il margine inferiore integro e lisciato, il frammento
reca sugli altri tre lati, tutti fratturati,
accurati intagli rettilinei114 (fig. 16)
che Georg Thiele interpretò come risega per l’alloggiamento di lastre
adiacenti lavorate separatamente.
Sullo sfondo di un cielo stellato, reso
con elementi puntiformi campiti in
giallo antico, vi sono figure di costellazioni di cui restano, invece, solo gli
incassi (fig. 17). Thiele vi riconobbe
circa un terzo dell’emisfero settentrionale, tra il circolo artico ed il tropico del Cancro, con la Via Lattea e le
costellazioni di Cassiopea, del Cigno,
della Lira e di Engònasin (l’Inginocchiato, ovvero Ercole). La calotta polare, similmente lavorata a parte, doveva incastrarsi, come coperchio,
lungo il bordo lisciato: una corniola
della collezione von Stosch e un brano dell’Antologia Palatina inducevano infatti Thiele a identificarvi i resti
di un recipiente di lusso in cui gli oggetti astronomici, dislocati erroneamente o casualmente e senza tener
conto delle mappe stellari antiche,
erano ridotti a puri ornamenti115. Circa l’identità delle costellazioni, è concorde con quello di Thiele il giudizio
recente di Ernst Künzl e di E. Dekker.
Attraverso i dati astronomici desumibili dalle costellazioni, Elly Dekker
ha tuttavia precisamente riferito il
segmento di globo in esame all’emi-
17. Nomenclatura adoperata per le cassine di Sk 1050 a (da KÜHNE 2011).
sfero nord, con una declinazione di
ca. 30° ed un’ascensione retta di
110°: al circolo artico corrisponderebbe il margine superiore116, perché
già gli antichi collocavano la Lira al di
sopra di esso, e quello inferiore al
tropico del Cancro117. Anche per queste ragioni, nel taglio obliquo che attraversa il frammento può effettivamente riconoscersi la Via Lattea118,
semplificata, come in Arato e nelle
mappe medievali, in una linea circolare passante anche attraverso Cassiopea ed il Cigno. L’insieme di questi elementi rifletterebbe le caratteristiche delle griglie celesti descritte
dagli astronomi antichi a partire dagli
studi di Gemino (I a.C. - I d.C.), ed
opera greca, senza ulteriori caratterizzazioni cronologiche, può essere
ritenuto, secondo Dekker, il globo di
Berlino. Identificando la prima costellazione a sinistra come Cefeo, in
posizione eretta, la testa di tre quarti
verso sinistra con barba e copricapo,
Ulrich Kühne è invece giunto a riconoscervi il frammento di un sofisticato strumento astronomico. Non più
destinati a crustae figurate, gli incassi
(fig. 18) della sella di Cassiopea insieme a quello della via Lattea ed ai tagli
laterali119, costituirebbero gli alloggiamenti di meccanismi metallici di
un orologio ad acqua simile a quello
di Ctesibio descritto da Vitruvio120, il
cui movimento, specificamente ca-
18. Ricostruzione delle parti funzionali dell’orologio ad acqua nell’ipotesi di U. Kühne
(da KÜHNE 2011).
19. Ricostruzione del globo di Berlino in sezione trasversale, con il serbatoio cilindrico
dell’orologio ad acqua allineato con l’asse
polare (da KÜHNE 2011).
denzato, era determinato da un flusso d’acqua continuo all’interno di un
recipiente dotato di fori di adduzione
e scarico opportunamente gestiti (fig.
19). Le regioni polari erano dunque
del tutto omesse, per fare spazio ad
50
Riccardo Fusco
20. Ricostruzione del globo di Berlino come
planetario meccanico, in grigio il frammento conservato (da KÜHNE 2011).
un serbatoio cilindrico allineato con
l’asse polare che veniva riempito mediante un foro presente anche al polo
meridionale. Un tubo adduttore, disponendosi lungo la via Lattea, s’immetteva nella sfera verso il sud astronomico, nei pressi della perduta Cassiopea e a sinistra di Cefeo, terminando in C5F: qui, lo spostamento d’acqua faceva scattare un asse ad aletta
dislocato in E3/C5F/C5G. La rotazione dell’intero globo, tuttavia, era determinata da un secondo asse che,
con un ingranaggio a corona, ne causava lo scivolamento attorno alla base fissa di un cilindro metallico pari
al diametro del serbatoio. Un anello
di tensione, infine, fissava al piano
dell’eclittica il meccanismo per i movimenti del sole, della luna, e dei pianeti (fig. 20). Così ricostruito, il globo
di Berlino, a questo punto un planetario meccanico, può essere messo in
relazione alla reale situazione del cielo121 a seconda che lo si ritenga allineato al polo dell’equatore celeste
oppure a quello dell’eclittica, con
due diverse possibili proiezioni delle
costellazioni superstiti122 (fig. 21).
Prova stringente che il frammento
fosse parte di una sphaera meccanica
è offerta dal confronto con il globo
dell’Atlante Farnese (fig. 22) che, per
Kühne, ne è la copia, come dimostrerebbero le corrispondenze nella posizione delle costellazioni ed alcune
correzioni operate da un artefice evidentemente all’oscuro di cultura
astronomica123. La cavità praticata alla
22. Globo celeste dell’Atlante Farnese, incisione (da STEVENSON 1921).
21. Mappe speculari della parte settentrionale del cielo attorno al 250 a.C., epoca alla
quale U. Kühne attribuisce il frammento
Sk1050a, con la sua estensione approssimata qualora esso sia allineato al polo dell’equatore celeste (mappa in alto) oppure al
polo dell’eclittica (mappa in basso). (da
KÜHNE 2011).
sommità del globo Farnese124 riproduce allora quella destinata, nel prototipo, al serbatoio cilindrico dell’orologio ad acqua; la forma rettangolare
scolpita su di essa nel punto in cui il
circolo artico, un coluro ed il bordo
della cavità si incontrano, l’aletta
dell’asse rotante; e il vicino elemento
circolare, infine, l’estremità a forma di
cono del tubo adduttore. In accordo
con la tradizione ellenistica, il Titano
raffigurato è l’astronomo inventore
della sfera, ed anzi proprio l’artefice
di quella di Berlino, maldestramente
riprodotta. Tra gli astronomi antichi il
nome più probabile è quello di Archimede, che nelle fonti, è alla testa anche della tradizione sferopoietica125.
Il frammento di Berlino può essere
allora il suo planetario meccanico
che, a Roma, fu conservato in casa di
Marco Marcello (Cic., De Re publica,
I, 21-22). Il senso sottile per la metafora visiva, disvelato dal suo artefice
nella dislocazione del tubo di adduzione lungo la via Lattea, può conferire valore simbolico anche al fatto
che questo entri in Cassiopea per terminare in Cefeo: quale migliore allegoria della coesione interna e del potere divino della coppia regale di Hierone II e di sua moglie Philistis? Anche per questo argomento il globo di
Berlino può essere attribuito, secondo Kühne126, alla Siracusa del secondo quarto del III sec. a.C..
Per essere di marmo colorato e lavorato ad intarsio, il globo di Berlino
certamente costituisce un unicum tra
i pochissimi globi celesti antichi che
ci sono pervenuti127. Come quello
Farnese, esso proviene da Roma e reca costellazioni figurate, presenti peraltro anche su quello (fig. 23), metallico e miniaturistico, di Mainz (150220 d.C.). Nell’ermeneutica della sfera
celeste farnesiana la forma rettangolare scolpita alla sua sommità costituisce, in effetti, un vero e proprio enigma, e motivo della sua datazione alta128. Allo stato degli studi, non c’è più
ragione129 d’identificarla con la costellazione del Caesaris thronos, come a
lungo supposto a partire da Franz
Boll che la riferiva alla cometa del 20
luglio del 44 a.C.. Esula dai nostri scopi una valutazione del confronto tra
questo globo e quello di Berlino. Secondo Dekker, tuttavia, il globo Far-
51
Frammenti inediti d’interni pompeiani
23. Globo celeste miniaturistico, Mainz Römisch-Germanisches Zentralmuseum, inv.
n. 42695D (da KÜNZL 1998).
nese, nonostante lo spiccato decorativismo, è legato ad una tradizione di
copia risalente a quello, matematico,
di Ipparco130. Se è valida la connessione tra i due globi stabilita da Kühne, ciò dovrebbe dunque dipendere
da un comune prototipo post-ipparcheo dell’ultimo quarto del II a.C.. Riguardo invece al taglio regolare della
calotta polare, esso è presente anche
sul globo perduto di Larissa131; mentre su quello, integro, di Mainz, tutti e
due i poli risultano forati, per favorirne l’alloggiamento su di un piccolo
obelisco domestico oppure alla sommità di uno scettro imperiale132. Nei
monumenti musivi, pittorici e scultorei in cui si trovano raffigurate, le sfere celesti appaiono, in effetti, sempre
dislocate sopra supporti. Su bassi piedistalli a quattro piedi, in un rilievo
tombale tardo-ellenistico nel museo
di Istanbul133 e nei mosaici romani
con l’Esedra dei Sette Sapienti134; su
piedistallo modanato, nell’affresco di
Urania (fig. 24) dalla Casa dei Vettii135;
su treppiedi, nel mosaico di Monnus
a Treviri, con la scena di Arato ed
Urania136. Se poi nel rilievo Dresnay,
della prima età claudia, il globo è
presso Atropos al di sopra di una bassa base liscia137, in tutti i rilievi romani
dei sarcofagi c.d. biografici, di II e III
secolo, in cui ugualmente è attributo
di una delle Parche, esso appare infine collocato su colonne138 anche al
fianco di meridiane, oppure ancora
su pilastri139 come già in un affresco
della villa di Fannius Synistor a Boscoreale140 (50-40 a.C.).
Una sfera illustrata accompagnava,
secondo le fonti, la lettura pubblica dei
Fenomeni di Arato alla corte macedone di Antigono Gonata: e simili sfere
astronomiche ellenistiche dovettero
effettivamente giungere a Roma. Al
momento della conquista di Sinope,
nel 69 a.C., L. Licinio Lucullo portò via
quella di Billarus insieme alla statua
dell’ecista Autolico, lasciando per il resto intatti gli ornamenti della città141.
Con la presa di Siracusa del 212 a.C. M.
Claudio Marcello, invece, entrò in possesso di ben due sphaerae di Archimede. Cicerone ne parla dettagliatamente142: i due strumenti avevano caratteristiche differenti. L’uno, di legno o
pietra, recava le costellazioni dipinte e
fu esposto in pubblico nel tempio della Virtus; l’altro invece era un planetario meccanico che mostrava il moto
apparente della luna, del sole e dei
pianeti con le loro relative e differenti
velocità, ed era conservato, come s’è
detto, in casa di Marcello. È molto probabile che per descriverlo, Cicerone
abbia tenuto presente uno strumento
che aveva potuto più certamente vedere, come quello confezionato da Posidonio143, il maestro stoico che egli
seguì a Rodi. Come era fatto il planetario di Archimede descritto da Cicerone? Secondo M. T. Wright144, era innanzitutto la mano che imprimeva il movimento ed è plausibile che questo
fosse perpetuato da un sistema di ruote dentate simile a quello del sofisticato strumento astronomico del Meccanismo di Anticitera (80-70 a.C.)145. Se il
planetario era in forma di globo, un sistema multiplo di ruote dentate poteva
esservi alloggiato con gli assi paralleli
al polo dell’eclittica e tutti i suoi movimenti in uscita coassiali con quel polo.
Non si può escludere, tuttavia, che,
proprio come quello di Anticitera, esso
fosse un quadrante piano. Sphaera era
infatti nome comune di ogni modello
del cosmo: dei planetari, dei planisferi,
come delle tavolette oracolari146.
Un primo più solido riferimento
per una corretta collocazione cronologica del frammento di Berlino può essere desunto dalla presenza, del tutto
rara ed eccezionale, della via Lattea147.
Per quanto non se ne possa più conoscere l’andamento complessivo né in
quale misura esso rispecchiasse le
mappe stellari antiche, è solo a partire
dall’opera di Manilio, della prima età
augustea, che ne abbiamo una descrizione circostanziata, che evidenzi anche il suo passaggio attraverso il Cigno e Cassiopea. Dopo Manilio, una
nuova analisi è nella Sintassi Matematica di Claudio Tolomeo (150 d.C.).
Ad escludere del tutto l’attribuzione
ad un orizzonte greco-ellenistico del
frammento di Berlino148 sono, tuttavia,
alcune importanti ragioni di natura
tecnica e materica, che al tempo stesso favoriscono ipotesi più precise sulla sua datazione. Il manufatto appartiene alla tipologia delle tarsie su fondo scuro presenti nell’arte romana a
partire dall’età claudio-neroniana. È
utile ricordare inoltre che l’uso scultoreo dei marmi bigio scuri149 si documenta a partire dall’età flavia, in sostituzione del basalto, addensandosi
massivamente in età adrianeo-antonina, per proseguire sino all’età severiana. Tali sculture provengono nella
maggior parte dei casi da Roma, spesso da edifici pubblici di diretta committenza imperiale oppure da residenze di altissimo livello sociale. La villa
neroniana di Anzio ha restituito almeno due esempi di tarsie vegetali su
fondo di bigio morato150; mentre alle
decorazioni di villa Adriana apparteneva il fregio bigio in cui riquadri ad
intarsio si affiancano a rilievi dionisiaci151. Se rivolgiamo infine la nostra attenzione all’aspetto esteriore delle sfere solide prescritto da Tolomeo, nel
capitolo della Sintassi sulle norme per
la loro costruzione (Synt. 8, 3), quello
della sfera di Berlino sembra aderirvi,
perfettamente:
«noi la faremo di un colore scuro, che
somigli non a quello del giorno, ma a
quello della notte che ci lascia vedere le
stelle... segneremo il luogo delle stelle,
servendoci di un colore giallo, o di tale
altro che avremo scelto seguendo la brillantezza e la grandezza delle stelle.»
Sulla base di questi elementi, il
frammento berlinese può essere dun-
52
24. Urania con la sfera. Pompei Casa dei
Vettii (VI 15, 1), affresco (da SCHEFOLD
1957).
que attribuito ad un orizzonte cronologico compreso tra l’età claudio-neroniana e quella adrianeo-antonina.
Allo stato delle conoscenze, la sua
datazione non può, in ogni caso, risalire oltre l’età augustea. La sfera, di
cui esso era parte, doveva verosimilmente dislocarsi alla sommità di un
supporto: base, piedistallo, colonna,
o pilastro, come lascia supporre il
confronto con altri monumenti, anche coevi, in cui sfere celesti si trovano rappresentate. Non doveva trattarsi di un sostegno di grandi dimensioni, tenuto conto del diametro originario della sfera, tra cm 42 e 48, massimo 60, secondo Künzl152. La cavità
dell’emisfero settentrionale potrebbe,
in questa ipotesi, avere avuto la funzione di mortasa per l’incastro di un
tenone presente sul supporto, secondo una tecnica attestata, nella lavorazione del marmo, anche per le membrature architettoniche. Ciò non ne
scredita l’ormai indiscusso valore
astronomico, né tanto meno esclude
del tutto che possa essersi trattato in
qualche modo di un planetario meccanico. Permane, in questa ipotesi,
Riccardo Fusco
l’identificazione della prima costellazione a sinistra come Cassiopea. I tagli rettilinei laterali, come voleva
Thiele, possono effettivamente esser
stati funzionali all’incastro di elementi lavorati separatamente, un espediente tecnico forse necessario a
comporre le lastre, concave, di un
marmo come il bigio tenario, estraibile solo in blocchi medio-piccoli153: tali tagli sono simili, ad ogni modo, alle
riseghe a baionetta create nelle tarsie
a pannello per il fissaggio in parete154. Il virtuosismo costruttivo dispiegato per la realizzazione di questa
sfera astronomica, di marmo prezioso, intarsiata su superficie convessa,
individuano le caratteristiche di un
artigianato artistico di livello altissimo: un’opera d’arte figlia d’un lavoro
insieme intellettuale e artigianale, destinata ad essere ammirata per la sua
unicità155. Essa proviene certamente
da un riguardevole contesto imperiale, segnato dalla figura di un monarca kosmocrator per il quale l’armonia
della rivoluzione degli astri è modello dell’ordine che deve regnare nel
mondo terrestre156. L’elaborata simbologia che Platone attribuì alle Moire, facendole figlie di Ananke e cosmiche divinità in trono presso i cerchi celesti, fu ripresa in età romana
non solo nella speculazione filosofica ma anche nelle iconografie, rendendo la sfera attributo di una di esse157. Questa idea celeste di fato, che
riguarda la vita di ogni essere, è dunque anche un destino trasmesso e
controllato dall’alto, determinato dagli astri per necessità. Come il cerchio, infine, la sfera partecipa di quei
valori simbolici di infinità, eternità e
divinità che la tradizione ellenisticoromana elaborò in relazione al sovrano, in quanto rappresentante di Dio
sulla terra. Il globo nella sua mano
costituì, nelle immagini, il simbolo
del dominio totale sull’orbe, di quel
cosmo sferico su cui l’imperatore, anche divinizzato, siede per consensus
universorum158.
Queste ragioni favoriscono, a nostro parere, un’attribuzione del frammento di Berlino all’età di Nerone e
al nuovo gusto imperiale segnato, an-
che negli oggetti d’arredo, da immagini astrali. Tra le creazioni che Trimalcione sfoggia per vivacizzare la
sua cena159, ad esempio, un oggetto
speciale attira, per la sua novitas, gli
sguardi di tutti i commensali:
«era un grande trionfo da tavola, di
forma circolare, con i dodici segni dello
zodiaco disposti in giro; e su ognuno di
essi l’artefice aveva posto una pietanza
appropriata e corrispondente».160
A Poppea in persona, per il suo
compleanno, Leonida alessandrino
vuol dare in dono, invece, una piccola sfera imitazione dell’universo (ouranion mimema)161. Questo gusto
riecheggia la propaganda celebrativa
di Nerone come Neos Helios, un concetto teocratico monarchico insieme
apollineo e dionisiaco, dove Dioniso
è inteso stoicamente come intelletto
di Giove e quindi dell’universo in cui
il Sole, cor coeli, governa tutto162. Attorno a questo concetto si organizzano le forme del consenso, come
quelle del dissenso163, vengono strutturati spazi e decorazioni nelle architetture, si costruisce l’iconografia
stessa dell’imperatore. Prefigurandone l’apoteosi, con in mano lo scettro
o sul carro fiammeggiante di Febo,
l’equatore celeste è per Lucano la sua
sede migliore, così che la sfera sia in
completo equilibrio, nel segno di Libra che protegge l’Italia, perché il
princeps non dimentichi, nel suo
orientalismo, la centralità di Roma
nell’impero164. La Domus Aurea, Palazzo sacro del Sole, forma terrena visibile dell’imminente e nuova età dell’oro sorta dal regnum Apollinis165, è
concepita e costruita secondo rigorosi calcoli astronomici. A partire dal 54
simboli cosmici accompagnano le
raffigurazioni dell’imperatore166 su
cammei, rilievi, statue loricate, monete, sino alla completa assimilazione
iconografica al Sole, nell’ultimo quinquennio del regno. Nerone è nel cielo stellato alla guida della quadriga
solare sul tendone eretto al teatro di
Pompeo per l’incoronazione di Tiridate d’Armenia167 ed appare colossale Helios/Sol nel vestibolo della sua
reggia, circonfuso di radii, nella de-
53
Frammenti inediti d’interni pompeiani
27. La costellazione di Draco o di Hydra
(Foto autore).
25. La costellazione di Ursa Maior (Foto
autore).
26. La costellazione di Pegasus (Foto autore).
28. La costellazione di Delphinus (Foto autore).
29. Frammento di fregio d’acanto a girali in opus sectile di marmi colorati (porfido verde e
rosso, palombino, giallo antico, lavagna), da Pompei, Casa dei Mosaici geometrici (VIII 2,
14-16), sala (h). Pompei, Magazzino Archeologico, inv. n. 20629 (Foto autore).
stra il timone e, nella sinistra, il globo168. La passione imperiale per gli
apparati automatici, come quelli stabilmente fissati alle strutture della
Domus Aurea, ed il rilevante fenomeno sociale della diffusione di raffinatissime macchine semoventi anche al
di fuori della corte169, costituirebbero
inoltre, qualora Kühne abbia ragione,
lo sfondo più appropriato per un sofisticato planetario meccanico.
Alla luce di questa significativa testimonianza che evidenzia una nuova
e importante tematica astrale negli in-
tarsi romani della prima età imperiale170, pare quindi molto convincente
che anche le crustae in esame raffigurino costellazioni, intarsiate su di una
sfera171 oppure su di un pannello parietale. Grazie al confronto con il globo Farnese e con quello di Mainz172
possiamo riconoscervi Ursa Maior
(fig. 25), Pegasus (fig. 26), Draco173
(fig. 27) e Delphinus (fig. 28), tutte
pertinenti all’Emisfero Boreale. Se non
pertinente all’anatomia di una delle
prime tre individuate, di una quinta
costellazione resta testimone la zampa
dispersa. Qualora infine ne fosse confermata la provenienza pompeiana,
potrebbe trattarsi di un ulteriore pregnante evidenza del legame tra la città
e Nerone, perspicuamente segnalato
non solo dagli straordinari pavimenti
che imitano quelli della sua reggia, ma
anche dai doni con cui la coppia imperiale onorò la Venere pompeiana in
occasione della visita del 64 al suo
santuario: una collana di perle e berilli, da Poppea, e da Nerone, una preziosa lucerna d’oro174.
Al ciglio della collina compreso tra
54
Riccardo Fusco
30. Pompei, Casa dei Mosaici geometrici
(VIII 2, 14-16), pianta (da PPM VIII).
32. Pompei, Casa dei Mosaici geometrici (VIII 2, 14-16), atrio al nr. 16 (Foto autore).
31. Pompei, Casa dei Mosaici geometrici
(VIII 2, 14-16), sala h, lacerto di mosaico
bianco con tessere disposte in ordito irregolare presso la soglia dell’ambiente (i) (da
PPM VIII).
la terrazza di questo santuario e quella
del Foro Triangolare, nel cuore della
città antica, ci conduce l’ultimo frammento: un girale d’acanto in opus sectile interamente marmoreo175, noto da
tempo176, eppure ancora sostanzialmente inedito (fig. 29). Esso fu rinvenuto nel 1890 nel settore orientale della Casa dei Mosaici geometrici (VIII 2,
14-16), all’interno di un ampio ambiente aperto, con un portico colon-
nato, verso i monti e il mare177 (fig. 30
ad h). Al momento della scoperta, il
fregio correva al di sopra di uno zoccolo interamente rivestito di marmo
bianco, giallo antico, africano, serpentino e lavagna, in lastre e listelli, di cui
non v’è più traccia178 (fig. 31). La ricca
dimora, riportata in luce179 tra 1888 e
1891, è una di quelle «a terrazza» sorte
per il ceto elevato nel periodo successivo alla fondazione della colonia180: a
cavallo delle mura ormai prive di funzione difensiva, logge e criptoportici,
corridoi e ripide rampe, ricavati dallo
sbancamento delle antiche colate laviche, riproponevano dentro la città i
modi della vita in villa e la stessa scenografica combinazione di natura e
architettura181. Nell’ultima fase edilizia
di Pompei, la dimora si estendeva tra
la Casa di Championnet (VIII 2, 1) e le
terme del Sarno (VIII 2, 19-22) per
una superficie complessiva di circa
3000 mq generata dall’accorpamento
di cinque abitazioni preesistenti, con
tre diversi accessi, tra cui, in particolare, quello privilegiato dal vicolo del
Foro182. Certamente la più grande casa
di Pompei nel 79 d.C., essa è dunque
tra le più grandi attualmente cono-
sciute183. In questa estensione, i lavori
di ristrutturazione erano in pieno corso, guidati da un geniale pensiero costruttivo che, infrangendo le linee di
fuga divergenti del complesso, le ricomponeva attorno ad una grande
corte centrale: una soluzione architettonica che K. Lehmann-Hartleben paragonò alla Domus Augustana al Palatino184. Nel settore centrale le preesistenze furono infatti cancellate del tutto per fare spazio al nuovo cuore del
complesso, un ampio peristilio in cui
convergevano tutti i percorsi (fig. 30
ad P). La rifazione tuttavia non fu totale. Se nella parte occidentale gli interventi si limitarono a piccole variazioni planimetriche, in quella orientale la ricostruzione dei setti murari, in
eleganti cortine laterizie arricchite di
reticolato policromo (fig. 32), conservava intatta la planimetria originaria,
ricalcando, all’interno del modello
abitativo a doppio atrio, l’organizzazione spaziale canonica della casa aristocratica descritta da Vitruvio. Le sontuose abitazioni a due atri avevano costituito, dagli inizi del II secolo a.C.,
un modello abitativo caratteristico di
Pompei ellenistica185, in particolare
55
Frammenti inediti d’interni pompeiani
33. Pompei, Casa dei Mosaici geometrici
(VIII 2, 14-16), ambiente (o), parete N, letti
di preparazione del rivestimento marmoreo
(Foto autore).
nella Regio VI, perpetuatosi nel tempo
grazie a un fenomeno di cristallizzazione delle forme architettoniche, di
cui l’esempio più manifesto resta
quella vera e propria dimora storica186
che dovette apparire, agli occhi dei
contemporanei, la Casa del Fauno (VI
12, 2). Un secolo e mezzo dopo, questa parte della Casa dei Mosaici geometrici è una filiazione diretta di quel
modello, nella precisa volontà di rievocare, come ha notato Sandra Zanella, il paesaggio urbano di un’epoca
fondamentale della storia civile e culturale della città187. In questa dimora
monumentale, sontuoso memoriale
della forma urbis pompeiana e dei valori che in essa vi avevano preso forma, una pianta demodè di dimensioni
imponenti si trovò dunque associata
alle più recenti soluzioni architettoniche. Allo stesso gusto, oscillante tra
antico e moderno, conservazione e innovazione, sembrano improntati gli
arredi decorativi che ci sono pervenuti. Nella parte orientale della dimora, a
lavori conclusi, eleganti mosaici bianchi e neri tardo-repubblicani e marmi
di rivestimento all’ultima moda si sarebbero trovati in una relazione di
eloquente contiguità. Al momento
dello scavo furono recuperati rilievi figurati in pavonazzetto o piccoli capitelli di lesena in giallo antico, ed il piccolo ambiente adiacente (fig. 30 ad k)
a quello da cui proviene il fregio, conservava ancora un bel pavimento di
marmo bianco profilato di bardiglio188. Nell’ambiente (o), similmente
affacciato sul portico, i marmi degli
zoccoli - con letti di preparazione (fig.
34. Fregio d’acanto in opus sectile, dettaglio
del girale con fiore in boccio (Foto autore).
35. Fregio d’acanto in opus sectile, dettaglio
del fusto maggiore con crustae tratte anche
da altre composizioni (Foto autore).
33) paragonabili, per l’accuratissima
dislocazione, a quelli della Domus Aurea189 - facevano da cornice al vermicolato con pesci190 pendant di quello
della Casa del Fauno, montato all’interno di una vasca marmorea centrale.
Nella stanza (s) sarebbe stato invece
forse riposizionato l’emblema con il
ratto delle Leucippidi, che nella ristrutturazione fu appoggiato allo stipite meridionale del vano di ingresso,
dove fu rinvenuto191.
Il livello molto alto delle opere in
marmo è oggi soprattutto testimoniato dal fregio in esame. Ricomposto
con elementi in gran parte pertinenti,
il frammento restituisce una porzione
di fregio a girali d’acanto orientato a
destra. Frammezzato da piccoli calici
anulari, lo stelo sottile di un girale fiorito, con pistillo oblungo come in
boccio (fig. 34), sorge dalla corolla fogliacea del fusto robusto di un altro
girale, non conservato. Lo stelo ed il
fusto, di palombino e giallo antico
carnagione, sono commessi su un
fondo di sottilissime lastre di porfido
verde: l’uso combinato e alternante
del giallo e del bianco rende la sovrapposizione plastica degli elementi
compositivi dislocandoli, impressionisticamente, nel gioco delle luci e
delle ombre. Soprattutto presso il fu-
sto maggiore (fig. 35), alcune crustae
sono state ricollocate casualmente:
cinque petali di altri fiori, a ridosso
della curva esterna; la voluta di una
piccola palmetta, nella sua terminazione; due tasselli di porfido rosso,
del tutto incongruamente, nel fondo.
August Mau che lo descrisse poco dopo la scoperta ebbe modo di notare
tracce d’incrostazioni anche in altre
zone della parete192: ed in effetti presso lo stesso fusto sussistono elementi
derivanti da altre composizioni, forse
anche di tipo figurato. Uno di essi reca la focatura tipica delle anatomie;
un altro somiglia alla coda di un pesce; un altro ancora deriva da differenti tipologie vegetali. La ricomposizione, plausibile nel suo insieme, è
accostata a ciò che resta degli elementi che la inquadravano: una piccola incorniciatura con gola dritta,
una fascetta di porfido rosso lattinato;
e due listelli, di palombino e lavagna193. L’opera è da attribuire, per ragioni di contesto, alla prima età flavia194. Preziosità dei materiali e livello
esecutivo lasciano supporre che, come la dimora da cui proviene, essa sia
legata ad una committenza, se non
pubblica, di rango altissimo e forse all’attività della stessa bottega, urbana,
cui dobbiamo anche il pavimento set-
56
Riccardo Fusco
ABBREVIAZIONI
36. Fregio d’acanto a girali in opus sectile, dal Palatino, Domus transitoria. Roma, Museo
Palatino inv. n. 425525 (da FUSCO 2014 b).
tile ora nel Museo di Napoli. I confronti più stretti appartengono infatti
tutti a contesti neroniani: il fregio a girali di palombino (fig. 36) e i cespi
d’acanto, le palmette, le ghirlande, di
giallo antico e porfido rosso e verde,
dal triclinio della Domus transitoria
al Palatino195; i tralci fogliati, ancora di
porfido rosso e verde, da una sala del
padiglione della villa di Subiaco dislocato sul pendio panoramico del
Fosso di S. Croce196. Si è a lungo ipotizzato che questi lavori, a noi giunti
tutti in stato disciolto, fossero inseriti
in un supporto intarsiato, come documentano altri esempi di I secolo ed
un frammento di bigio morato, d’incerta collocazione cronologica, dalla
villa neroniana di Anzio197. Il fregio
pompeiano dimostra invece che essi,
con certezza quelli vegetali, potevano
essere realizzati anche a commesso,
secondo quella prassi decorativa che,
sebbene ormai documentata198 anche
per il II e III secolo, troverà il suo più
ampio sviluppo in epoca tardo-antica.
Non furono evidentemente limitate ai
pavimenti le esuberanti esperienze
decorative dei commessi neroniani,
tipicamente segnati dal largo uso di
forme vegetali e floreali. Sorprende
tuttavia di rilevare per il I secolo una
descrittività basata sull’accostamento
di zone cromatiche più che sulla linea
di contorno, così sostanzialmente divergente, ad esempio, da quella dei
girali su fondo nero delle pareti di IV
stile199. August Mau giudicò il fregio
lavoro
«difficile e artificioso il quale c’insegna che strisce simili ovvie su pareti del
Primo Stile non sono, come io credetti
una volta, imitazioni di pittura su marmo,
bensì di vera incrostazione e precisamente di opus sectile quale qui si vede»200.
Più che le opere settili di pieno I
secolo, sono oggi gli intarsi delle ardesie augustee, dei vasi alessandrini
ialini e metallici, come quelli dei tavoli circolari di Pella e di Delo prodotti, verso la fine del IV secolo a.C.,
secondo la stessa concezione decorativa dei mosaici regali macedoni, a ribadire questa strettissima affinità, formale e stilistica, tra i fregi vegetali
delle pareti201 in stile strutturale e le
incrostazioni. Marmo, pittura, mosaici ed arte vascolare: furono casi come
questi a spingere Semper, che di Mau
fu contemporaneo, ad elaborare una
teoria evoluzionistica dell’architettura
fondata sull’idea di un’arte tessile primigenia, perpetuata nel principio del
rivestimento.
Questo lavoro è dedicato alla memoria della Professoressa Stefania
Adamo Muscettola e ai doni della sua
attenzione che ancora vivono con
noi.
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NOTE
1
FANELLI-GARGIANI 1994, p. 4.
Per il prevalere della forza “mistica” della verità della struttura, cfr. FANELLI-GARGIANI 1994, p. 5.
3 ARGAN 1984, pp. 154-155.
4 CAGIANO DE AZEVEDO 1970, pp. 252-253.
5 MANSUELLI - LAURENZI - LAGONA 1979, pp. 10-11.
6 Cfr. PLIN., Nat. Hist. 35, 118; MANSUELLI - LAURENZI - LAGONA 1979, pp. 10-11.
2
7 Q. Amiteius architect. fecit: cfr. LAVAGNE 1978,
pp. 440-441.
8 CALANDRA 2008, pp. 26-34; CALANDRA 2010, pp.
1-38.
9 Cfr. MILANESE 2007, pp. 175-179 e nota 10.
10 MILANESE 2007, pp. 168-179.
11 RAGGHIANTI 1963, pp. 156-157.
12 RAGGHIANTI 1963, p. 129.
13 Cfr. BASTET-DE VOS 1979, pp. 114-115.
14 Un ricco repertorio analitico, anche in tavole
sinottiche, dei rivestimenti pavimentali (cementizi,
musivi, settili) e parietali (musivi e settili) è contenuto nel recente volume su Ercolano di GUIDOBALDI
et alii 2014.
15 Cfr. DE VOS 1991, p. X; GUIDOBALDI - OLEVANO
1998, pp. 224-231, part. p. 226 e nota 23 (sul problema dell’uso del termine scutulatum per definirli), tav. 1, 1-3; ANGELELLI 2004, pp. 147, 152-153.
16 Probabilmente palombino nero dei Monti
della Tolfa: cfr. GUIDOBALDI - OLEVANO 1998, p. 224.
17 Cfr. GUIDOBALDI 1997, pp. 64-110. Per gli
esempi da Ercolano e Stabia, vd. GUIDOBALDI - OLEVANO 1998, pp. 236-237, tav. 14, 3-4.
18 Cfr. DE VOS 1990 a, pp. 682-684 figg. 110-112;
GUIDOBALDI - OLEVANO 1998, p. 236, tav. 14,5.
19 Cfr. GELL 1832, pp. 39-40, tav. LXXVII.
20 Cfr. ANGELELLI 2004, pp. 149-152, 157 fig. 2.
L’ipotesi dell’uso di paste vitree avanzata dalla studiosa per le bordure ed i rettangoli centrali trova conferma in ROMANELLI 1831, p. 291 dove è specificato: «avea
non di meno su tre lati fasce di smalto pesto».
21 MILANESE 2007, pp. 172, 175, 179 e nota 11,
fig. 3; FUSCO 2011, pp. 294-295, 299, fig. 3.
22 Architetto del Museo tra 1862 e 1866, oltre
che, assai più a lungo, Architetto Direttore degli
Scavi di Pompei, cfr. MILANESE 2007, p. 171.
23 MILANESE 2007, pp. 173, 175, fig. 4; FUSCO
2011, pp. 236, 239 fig. 4.
25 Cfr. DE VOS 1991, p. XII.
26 Rispettivamente: oecus (46); ambiente (43);
triclinio (21), cfr. GUIDOBALDI et alii 2014, p. 445. Il
computo complessivo effettuato da M. de Vos delle
case pompeiane in cui marmi settili compaiano anche su pavimenti o zoccoli calcola 28 case e 47 ambienti; 45 invece sono gli ambienti delle case più
modeste in cui occorra anche soltanto un piccolo
tappeto di sectilia, cfr. DE VOS 1991, p. XII, nota 14.
27 Cfr. LOERKE 1990, p. 30-33.
28 Esso infatti è pari ad un altezza di m 1,70: cfr.
GUIDOBALDI et alii 2014, p. 446.
30 FUSCO 2014 c, pp. 200-203, nn. 24, 1-26.
31 Cfr. LOERKE 1990, pp. 27 fig 4; 32 fig. 9.
32 Cfr. GASPARRI - CAPALDI - CORAGGIO - GUARDASCIONE 2010, pp. 703-704 tav. LXVI, 3.
33 GUIDOBALDI et alii 2014, p. 445.
34 Cfr. DE VOS 1991, p. XII e nota 14.
35 Cfr. PAH II, pp. 160, 166, 177, 258, 483-484.
36 Cfr. DE VOS 1991, p. XII e nota 14.
37 Cfr. DE CAROLIS 1994, p. 3.
38 h. 15; lungh. 51; largh. 27; dal peristilio
(02/06/1863, 1865) cfr. DE CAROLIS 1999, p. 159 n.
170. Riguardo al porfido verde di Grecia, uno dei
marmi più costosi dell’antichità romana insieme a
quello rosso egiziano, si veda la notizia relativa ai
c.d. edifici municipali del Foro civile di Pompei
contenuta in PAH II, p. 160: «nel nettarsi di fatti quel
di mezzo dei Saloni, che stanno sul lato meridionale del Foro, in uno spazio vuoto, a certa altezza dal
suolo praticato, escì fuora buon numero di lastre di
quel marmo serpentino che dicesi porfido verde, il
quale è rarissimo oggidì, e può con sfarzo regale al-
le più ragguardevoli intarsiature che fare se ne vogliano riserbarsi». 80 pezzi di serpentino furono di
seguito spediti al Museo di Napoli cfr. IBID., p. 166.
39 Cfr. DE SIMONE 2000, pp. 65-66 fig. a p. 58 e
190.
40 Cfr. GROSSI 2011, pp. 8, 10.
43 Cfr. HAEVERNICK 1963, pp. 122-130, tavv. 2123; GASPARRI 2003.
44 DOHRN 1965, pp. 140-141.
45 Cfr. BONANNI 1998, pp. 266-267, fig. 1.
46 Nel pavimento (tratto SE) del cubicolo (34),
cfr. SAMPAOLO 1993, p. 138 figg. 85-86.
47 In giacitura secondaria sono state rinvenute
anche le lastre, del tutto analoghe, del Foro di Cuma, cfr. GASPARRI - CAPALDI - CORAGGIO - GUARDASCIONE 2010 pp. 701-703 fig. 2.
48 Cfr. CIMA 1986 a, 38; CIMA 1986 b, 54 e nota
14.
49 Cfr. MAIURI 1958, pp. 304, 322 fig. 257; TRAN
TAM TINH 1988, fig. 202; GANS 1992, pp. 9, 11 nr. 10,
14, fig. 7; BONANNI 1998, pp. 269-270, tav. 12,5.
50 FILIPPI 2006, pp. 53-55, figg. 6-8, nota 6.
51 Di giallo di Siena, le volute e le foglie; di rosso dell’Amiata, il fiore d’abaco; di marmo di Carrara, l’abaco: cfr. NEUERBURG 1975, pp. 27, 29; GANS
1992, p. 13 nota 32.
52 Cfr. GANS 1992, pp. 9-14.
53 Cfr. BONANNI 1998, p. 260; FILIPPI 2006, pp.
52-65.
54 Cfr. GANS 1992, p. 14.
55 Plin., Nat Hist 35, 2; FUSCO 2006, pp. 22-23;
FUSCO 2014 a, pp. 124-125.
56 BRAGANTINI 1990, p. 22.
57 Cfr. FUSCO 2013, pp. 484-485.
58 ELIA 1929, p. 275 e nota 1; BONANNI 1998, p.
261, tav. 1, 1-2.
59 DOHRN 1965, pp. 131-132.
60 BONANNI 1998, p. 262, tav. 2, 3.
61 BONANNI 1998, p. 261, tav. 1, 3.
62 cfr. DE VOS 1984, p. 174; FUSCO 2014 b, pp.
190-191 n. 22.1.
63 FERGOLA 2003, pp. 157-158 fig. II. 2.
64 ASËMAKOPOULOU-ATZAKA 1980, p. 51, fig. 5 b.
65 JASHEMSKI 1979, p. 253, fig. 372; BONANNI 1998,
p. 269, tav. 12.6.
66 cfr. GUIDOBALDI 1985, pp. 182-199, 200, 202,
210-211, 213, fig. 26, e; tavv. 2-5; 9,3; 9,5; 10,3; 15,5;
16,3.
67 Pompei, Magazzino Archeologico D II, 4, B;
inv. n. 12687; misure: l. cm 44, 2; largh. cm 23, 1;
sp. cm 5,4. Sono particolarmente grato alla Soprintendente per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei, Dott.ssa T. E. Cinquantaquattro, per averne
concesso lo studio ed alla Dott.ssa G. Stefani per
averlo in ogni modo agevolato.
68 Cfr. Diario di scavo, 5-6 luglio 1960: «Liberato
completamente l’atrio si mette alla luce un vasto
ambiente occupante il suo angolo nord-est, e comunicante con esso a mezzo di porta aperta nella
parete occidentale. ... Il giorno 6-8 in detto ambiente e nel suo angolo sud est, accosto ad una grossa
anfora contenente (sic, manca)... Si rinviene una lastra rettangolare di lavagna sulla cui faccia nobile
sono incavati (sic)».
68 Cfr. PESANDO 1997, pp. 212-213.
70 HOFFMANN 1980, pp. 162-164.
71 Cfr. NAPPO 1996, pp. 77-104. Le abitazioni I
11, 12-15 sono inserite nel tipo 1, segnalato da abitazioni articolate in fauces e cubicoli, atrio scoperto, tablino, triclinio, cubicolo, cucina e viridarium:
è ormai del tutto escluso che l’atrio fosse coperto a
60
doppio spiovente già nella fase dell’impianto, cfr.
part. NAPPO 1996, pp. 80, 93.
72 Cfr. FERGOLA 1990, pp. 614-615, 620-629 figg.
8-22.
73 Cfr. DE CAROLIS 2007, pp. 93, 96.
74 DE CAROLIS 2007, pp. 96, 105.
75 Cfr. SANNIBALE 2008, p. 348 e nota 62.
76 Cfr. SAMPAOLO 1993, p. 210 fig. 22 b; BRAGANTINI
1993, p. 950 fig. 174 b; DICKMANN 1998, p. 453 fig. 1.
77 BOARDMAN 1992, fig. 192.
78 HACHLILI 1988, pp. 72-78, figg. 8-9, MAGNESS
2012, p. 144, fig. 7.6.
79 Cfr. HACHLILI 2005, p. 355.
80 FIGUERAS 1983, p. 36.
81 HACHLILI 1988, pp. 72, 77 fig. 8.
82 Cfr. HACHLILI 1988, pp. 72-79.
83 Cfr. FIGUERAS 1983, tav. 25 n. 30; FINE 2010,
pp. 448-449, fig. 24.4. Per motivi simili presenti su
altri monumenti di età erodiana, cfr. MAGNESS 2012,
pp. 211-212, fig. 10.6 (mosaici del palazzo di Masada); FINE 2013, p. 45 (decorazioni della sinagoga di
Gamla); HACHLILI 1988, p. 80, figg. IV, 7; IV, 18 (facciate di tombe, casse di sarcofagi).
84 Cfr. MEYERS 1971, p. 48. La resa dei motivi decorativi negli ossari consente di ipotizzare una caratterizzazione simile per le crustae inserite negli
intarsi del tavolo pompeiano: petali con nervatura
mediana incisa, circonferenze e semilune con motivi a zig-zag, cerchietti incisi concentricamente.
85 Cfr. FIGUERAS 1983, p. 44 tav. 25 nr. 30; HACHLILI 1988, p. 240 fig. 4a.
86 Cfr. HACHLILI 1988, pp. 236, 242-243, figg. 5 a;
257 fig. 14 b.
87 Cfr. HACHLILI 1988, pp. 22, 83, 166, 168; GOODENOUGH – NEUSNER 1992, pp. 145-146 e fig. 27.
88 Cfr. FIGUERAS 1983, p. 39; HACHLILI 1988, p. 82.
89 Cfr. DEONNA 1947, pp. 9, 37, 45.
90 Cfr. GIORDANO - KAHN 1979, pp. 90-106; NOY
1993, pp. 58-59, nr. 39; LACERENZA 2001, pp. 100-102.
91 Cfr. GIORDANO - KAHN 1979, part. pp. 41-54;
55-73; VARONE 1979; VARONE 2004.
92 Le diverse interpretazioni avanzate per poinium (“gregge”, “nome di persona”, “riscatto, retribuzione”) sembrano in definitiva inverificabili, cfr.
NOY 1993, p. 58; LACERENZA 2001, pp. 101-102.
93 Cfr. LACERENZA 2001, p. 102.
94 Probabilmente per le costanti richieste di manodopera legate allo sfruttamento del territorio, cfr.
LACERENZA 2009, p. 446.
95 LACERENZA 2009, p. 447.
96 LACERENZA 2009, p. 447.
97 Cfr. GIORDANO- KAHN 1979, pp. 28-35; LACERENZA 2009, p. 446 e nota 20.
98 Cfr. LACERENZA 2010 p. 372.
99 Cfr. LACERENZA 2009, p. 442; RUTGERS 2005, pp.
237-254.
100 RUTGERS 2005, pp. 253-254.
101 HACHLILI 1988, p. 80.
102 DEONNA 1938, pp. 59 nn. 6693, 3355, B3526,
B6579; 60, nn. B2740, 171, B 7625-11091; tav. XXVI,
nn. 181-188.
103 Cfr. ZEVI 2006, pp. 71-76.
104 ELIA 1929, pp. 275-276 nota 16: «...oltre questo
esempio devo segnalare anche cinque frammenti di
marmo bigio, esistenti nei depositi del Museo, nelle
forme di una testa di cinghiale, testa di grifo, testa di
cavallo; un intero delfino ed una zampa, tutte di piccole proporzioni, provenienti quasi certamente da
Pompei ed appartenenti ad un opus sectile».
105 Napoli, MANN, inv. n. 6513 (a.i. 1622): h.
3,1; l. 5,1; sp. 0,4; inv. n. 6512 (a.i. 1621): h. 6,2; l.
Riccardo Fusco
3,5; sp. 0,5; inv. n. 6510 (a.i. 1619): h. 4; l. 2,2; sp.
0,6; inv. n. 6511 (a.i. 1620): h. 3; l. 7,1; sp. 0,5.
L’identificazione del marmo è di carattere macroscopico e sostenuta da alcuni elementi (cromia e
venature della protome di orso; presenza di clasti
rosati nella sezione di quella di grifo): si tratta, in
ogni caso, di un marmo a grana finissima.
106 Ringrazio la Dott.ssa T. Giove ed il Sig. S. Venanzoni per l’aiuto fornito alla ricerca dei frammenti nel Museo di Napoli.
107 ASSAN, 82, Inventario San Giorgio (1849,
1851): Real Museo Borbonico. Inventario delle statue e bassirilievi in marmo, nn. 1619-1622.
108 Dove si specifica: «6510: Pezzetto di lastrina
di marmo bigio rappresentante la testa di un grifo;
lung. 0, 006 (inv. n. 1619); 6511: pezzetto simile
rappresentante un pesce lung. 0, 007 (inv. cit. n.
1620); 6512: pezzetto simile rappresentante la testa
di un cavallo lung. 0, 006 (inv. cit. n. 1621); 6513:
pezzetto simile rappresentante la testa di un cinghiale lung. 0, 004 (inv. cit. n. 1622)».
109 Cfr. BONANNI 1998, tavv. 1, 2; 3, 2-4; 4, 1.
110 Cfr. PAPINI 2004, pp. 31-36.
111 Come nel tardo girale in sectile della Maison
aux consoles di Apamea, in cui compare anche l’orso: cfr. BALTY 2004, pp. 167-173, figg. 13-20 (part.
fig. 18).
112 L’identificazione è di carattere macroscopico. Sul bigio antico tenario vd.: LAZZARINI 2007, pp.
97-98; 108.
113 Berlin, Antikensammlung der Staatlichen
Museen, inv. n. SK 1050 a; misure: cm 7,5 x 32 x 15.
Cfr.: BESCHREIBUNG 1881, p. 418, n. 1050 A; THIELE
1898, pp. 42-43; GUNDEL 1992, p. 204 n. 10; GURY
1997, p. 1179 n. 3; KÜNZL 2000, p. 535, fig. 51.2; tav.
VIII, n. 2; KÜNZL 2005, pp. 81-82 fig. 7.5; KÜHNE
2011, pp. 1-26; DEKKER 2013, p. 52-53.
114 Fig. 17 ad E2, E3, E4.
115 THIELE 1898, pp. 42-43.
116 Fig. 17 ad E1, con una latitudine geografica
di 36°.
117 cfr. DEKKER 2013, p. 53: la studiosa legge il
frammento ponendo il circolo artico verso l’alto.
118 Cfr. KÜNZL 2000, p. 535; KÜNZL 2005, p. 82:
dove vi si riconosce il parallelo settentrionale.
119 Fig. 17 ad C5F, C5G, M1, E2, E3, E4; cfr. KÜHNE 2011, p. 4.
120 Cfr. PUGLIARA 2003, p. 39.
121 Attorno al 250 a.C. data alla quale l’autore
attribuisce l’oggetto, per cui vedi infra.
122 Nel primo caso, il significato astronomico
dell’asse di rotazione sarebbe quello di dare forma
al moto diurno del cielo, nel secondo, invece, di
esplicitare il fenomeno della precessione degli
equinozi, implicando un meccanismo creato per
assolvere una rotazione in circa 26.000 anni!, cfr.
KÜHNE 2011, pp. 10-11.
123 Cfr. KÜHNE 2011, pp. 12-14.
124 Per le varie spiegazioni circa questa cavità intervento secondario per un utilizzo della scultura
come fontana; traccia dell’inserimento di un’immagine di Vittoria o di Giove o di uno gnomone metallico - cfr. PAFUMI 2009, pp. 155-158.
125 Cfr. KÜHNE 2011, pp. 15-17.
126 KÜHNE 2011, pp. 17-18.
127 Tra quelli marmorei, oltre la sfera dell’Atlante Farnese: Città del Vaticano (Musei Vaticani, inv.
n. 784, marmo bianco, cm 71 x 65, con stelle e nastro zodiacale, forse complemento di una statua di
Atlante, dalla collezione Rondinini, cfr. SPINOLA
1999 p. 117 n. 91); Larissa, Tessaglia, rinvenuto nel
1888 ed oggi perduto (marmo blu di Tessaglia, d.
cm 90, con griglia di circoli astronomici e nastro zodiacale, cfr. KÜNZL 2005, p. 83, fig 7.6; DEKKER 2013,
pp. 54-57); Stoccarda (Württembergisches Landesmuseum, inv. n. 1.83, marmo grigio-bianco, d. cm
16, con nastro zodiacale e attributi di Zeus, complemento di una statua di Zeus, I-II d.C., dalla collezione Fürsten von Waldeck, cfr. SAVAGE-SMITH 1985,
p. 11; KÜNZL 2005, p. 83 fig. 7.7); Atene, teatro di
Dioniso (d. cm 31, con simboli astrologico-divinatori, III d.C., cfr SAVAGE-SMITH 1985, p. 11; KÜNZL
2005, p. 83). Metallici e miniaturistici, invece: Parigi,
Collezione J. Kugel (argento, d. mm 6,3, h. 60, II
a.C.-I d.C., cfr.; DEKKER 2013, pp. 57-69; 102-106);
Mainz (Römisch-Germanisches Zentralmuseum,
inv. n. 42695D, ottone, d. cm 11, 150-220 d.C., cfr.
KÜNZL 1998; DEKKER 2013, pp. 69-80, 106-111). Meridiane marmoree sferiche più che globi astronomici sono infine: il globo di Prosymna (marmo bianco, d. cm 53, II sec. a.C., cfr. BLEGEN 1939) e quello
di Matelica (Museo Civico Archeologico, inv. 77238,
marmo bianco, d. cm 29,3, con cavità conica all’emisfero meridionale, cfr. MARENGO 2005, pp. 290291 n. 153), ambedue dotati di diagrammi e didascalie in greco di segni zodiacali.
128 La sua identificazione con il sidus iulium
fonda, infatti, l’attribuzione del globo e dell’Atlante
al periodo successivo al 44 a.C., nel corso del regno
di Augusto, cfr. BOLL 1899, pp. 121-124, nota 3; PAFUMI 2009, pp. 155-158.
129 Cfr. DEKKER 2013, 88-91, dove si evidenzia
che le coordinate astronomiche corrispondono a
quelle di un oggetto celeste apparso a dicembre,
per cui (IBID. p. 91): «However that may be, a date
based on it is meaningless as long as its significance is obscure».
130 Cfr. DEKKER 2013, pp. 88, 98.
131 Cfr. THIELE 1898, p. 171; DEKKER 2013, pp. 5455. Per questo globo in letteratura non si propone
alcuna datazione.
132 Piccolo (mm 8 x 8) e quadrato il foro al polo
nord, più grande (d. mm 39) e circolare quello al
polo sud, cfr. KÜNZL 2000, p. 501; DEKKER 2013, pp.
69-72, fig. 2,14.
133 BRENDEL 1977, p. 15,, tav XI.
134 BRENDEL 1977, pp. 1-18, tavv. I-VII.
135 Pompei (VI 15, 1.27), dal peristilio, II terzo
del I secolo d.C., cfr.: SCHEFOLD 1957, p. 144. Simile è
il piedistallo bronzeo che sorregge il globo e la statuetta di Vittoria che gli si appoggia, da Augst (età
protoseveriana): cfr. KÜNZL 2000, p. 542, tav. 54 2-3.
136 Cfr. SCHLACHTER 1927, p. 69 (metà del III secolo d. C.).
137 Cfr. DE ANGELI 1991, pp. 110-111.
138 Cfr. DE ANGELI 1991, p. 115.
139 Cfr. DE ANGELI 1991, pp. 116-117, 126 fig. 11.
140 Cfr. BERGMANN 2010, p. 18, fig. 27; KÜNZL
2005, p. 59, fig. 5.12.
141 La notizia è in Strabo, Geogr., XII, 3, 11; cfr.
TOSI 2003, p. 138; MASTROCINQUE 2009, pp. 313-319
dove si ritiene, per coincidenza di date e unicità di
testimonianza, che la sphaera di Billarus sia in realtà il meccanismo di Anticitera.
142 Cfr. anche Cic., Tusc. Disp., I, 25, 63.
143 Cic., De nat. deor., II, 34-35.
144 Cfr. M. T. Wright, The planetarium of Archimedes, s.l. s.d..
145 WRIGHT 2004, 4-11; WRIGHT 2005, 32-37. Sulle sculture del carico: BOL 1972.
146 Cfr. SCHLACHTER 1927, p. 29.
147 Essa occorre solo sul globo di Mainz, dove
61
Frammenti inediti d’interni pompeiani
compaiono anche le stelle a cerchietto, cfr.: KÜNZL
2005, p. 82.
148 Come già in parte suggerito, sulla base del
confronto con il globo Farnese, in KÜNZL 2005, p. 82.
149 Sulla storia d’uso di questi marmi le conoscenze sono ancora insufficienti, cfr. LAZZARINI 2007,
p. 98.
150 Riprodotte in disegno da P. L. Ghezzi, cfr.:
GUERRINI 1971, pp. 24-25, 67, tav. X, I (a, c). Non
sappiamo tuttavia a quale delle numerose fasi decorative della villa esse siano appartenute: cfr. CACCIOTTI 2009, p. 31.
151 Cfr. da ultimo BONANNI 1998, p. 266, tav. 7,
2-3.
152 Cfr. DEKKER 2013, p. 52-53; KÜNZL 2000, p.
545.
153 LAZZARINI 2007, p. 102.
154 Cfr. BONANNI 1998, p. 263, nota 45.
155 Cfr. PUGLIARA 2003, pp. 61-62.
156 Cfr. PUGLIARA 2003, p. 62.
157 Cfr. DE ANGELI 1991.
158 SCHLACTHER 1927, pp. 95-97; DI COSMO 2009,
pp. 48-49.
159 Cfr. PUGLIARA 2003, pp. 52-53.
160 Petr., Sat., 35 (trad. it. U. Dettore); cfr. TOSI
2003 p. 135.
161 Anth. Pal. XIX, epigr. 355: «Questa figura del
cielo nel giorno natale ricevi dal figliolo del Nilo,
da Leonida, sposa di Zeus, augusta Poppea: ché regali gradisci e del tuo letto e di tua scienza degni»,
cfr. MALCOVATI 1947, p. 38; PONTANI 1980.
162 Cfr. DE VOS 1990 b, p. 155, 171.
163 Cfr. DOMENICUCCI 1996, p. 151, per l’uso politico delle comete apparse nel 60 e nel 64 d.C. interpretate come signa di sciagure imminenti.
164 Cfr. DOMENICUCCI 1996, pp. 151-158.
165 Cfr. L’ORANGE 1942, p. 68; VOISIN 1987 pp.
509-543 (part. p. 514); HEMSOLL 1990, pp. 10-38;
BERGMANN 1993, pp. 3-37.
166 BERGMANN 1998, pp. 150-170, tavv. 29,5; 30,
1-4; 31, 1-5; 33, 4.
167 Cfr. CADARIO 2006, pp. 479-480.
168 Cfr. BERGMANN 1998, pp. 190-191 fig. 3; ENSOLI 2000, pp. 70-71.
169
Cfr. PUGLIARA 2003, pp. 53-54.
Nei pannelli marmorei dispersi con il tripode apollineo della Basilica di Giunio Basso, del 331
d.C., era presente il globo celeste, di pasta vitrea
azzurra e giallo antico: cfr. BECATTI 1969, pp. 202204 tavv. 46, 3; 47, 2,4.
171 Sulla quale, dimostra il frammento berlinese,
gli inserti non recavano sezione curvilinea.
172 Cfr. KÜNZL 2000, pp. 518-519 figg. 11 (20,22),
12 (nn. 26, 29).
173 La testa di grifo potrebbe anche individuare
la costellazione di Hydra, pertinente all’emisfero
australe, cfr. KÜNZL 2000, p. 525 fig. 14; DEKKER
2013, pp. 111-112.
174 DE CARO 1998, pp. 241-244.
175 Pompei, Magazzino Archeologico, coll. D.
IV, 4 B; inv. n. 20629 (già nell’Antiquarium, cfr. Libretta n. 119, inv. n. SN 1365); il pannello in cui le
crustae sono state ricomposte misura cm 47,8 x
31,8, sp. cm 3; il girale da solo invece ca. cm 43 x
22,3. Sembra che i frammenti siano stati prima riassemblati nel gesso e poi inseriti nella malta: un procedimento simile si documenta per un mosaico rinvenuto, il 6 settembre 1890, nel settore della dimora
al n° 14, cfr. Giornale di Scavo, p. 116 (retro).
176 MAU 1892, p. 9; DE VOS - DE VOS 1982, p. 57;
SAMPAOLO 1988, p. 36; BONANNI 1998, p. 261 e nota 31.
177 Su questa casa da ultimi: SAMPAOLO 1988, pp.
72-93; ZANELLA 2012.
178 MAU 1892, p. 9.
179 Cfr. NICCOLINI 1896, p. 55: «negli anni 18881891 continuò il disterro dell’isola 2° della Regione VIII e tornò a luce il caseggiato compreso fra i
numeri 21 e 14 dei vani, che si aprono nella via
detta delle scuole ad oriente delle curie. E qui dobbiamo ricordare che gli scavi, procedendo verso la
basilica, seguono l’ordine inverso della numerazione».
180 Questa fase, per la dimora in esame, è indicata dai suoi mosaici geometrici, databili tra la fine
dell’età repubblicana ed i primi decenni successivi,
cfr. ZANELLA 2012, pp. 5-6.
181 Cfr. ZANKER 1993, pp. 41-51; BONINI 2003, p.
168.
170
182 A N, oltre che da questo, dal Vicolo di
Championnet, ad E dalla Via delle Scuole. La risistemazione augustea della piazza non modificò gli assetti viari del lato S, lasciando la casa accessibile dal
vicolo del Foro, cfr. ZANELLA 2012, pp. 1, 4.
183 Cfr. ZANELLA 2012 p. 1.
184 Dove il progetto del peristilio inferiore risale
alla prima età flavia: cfr. LEHMANN HARTLEBEN - NOACK
1936, p. 159; SOJC 2005-2006, pp. 339-350; FUSCO
2012, p. 357.
185 cfr. MAR 1995; PESANDO 1998; DICKMANN 1999,
pp. 52-89.
186 Cfr. ZEVI 1991, p. 70.
187 ZANELLA 2012, pp. 5-8.
188 Cfr. Giornale di Scavo, p. 116 (16/09/1890),
dove si cita anche un frammento di oscillum con
protome di Medusa; SOGLIANO 1890, p. 328; ID.
1893, p. 48.
189 Cfr. BALL 2002, pp. 552-554, 557, figg. 2-3.
190 SOGLIANO 1893, pp. 49-50; MEYBOOM 1977,
pp. 51-52; SAMPAOLO 1998 a, pp. 88-89 figg. 28 e 29;
PISAPIA 2010, p. 332.
191 Cfr. PESANDO 1996, p. 224; SAMPAOLO 1998, p.
72.
192 MAU 1892, p. 9.
193 Questi elementi misurano, rispettivamente
cm 1,3; 1,3; 0,5; 0,6.
194 Cfr. ZANELLA 2012, pp. 3, 8.
195 FUSCO 2010, pp. 86-88, tavv. VIII, 2, IX, 1-2;
FUSCO 2014 b, pp. 190-194, nn. 22, 22.2.
196 MARI - FIORE CAVALIERE 2001, pp. 433-434,
443, fig. 8.
197 Cfr. GUERRINI 1971, pp. 24-25, 67, tav. X, I (a,
c); BONANNI 1998, p. 264, tav. 4, 1-3; CACCIOTTI 2009,
p. 31.
198 Cfr. FIORE - MARI 2003, p. 42; DONATI 2000, p.
335.
199 A Pompei nel Tempio di Iside (VIII 7, 28),
nella Casa di Sirico (VII 1, 25), nella Casa del Poeta
Tragico (VI 8, 3) nella Casa degli Amanti I 10, 11):
cfr. SAMPAOLO 1998 b, p. 732.
200 MAU 1892, p. 9.
201 Cfr. LING 1991, 12-13 fig. 7.
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