RIVISTA DI STUDI POMPEIANI XXV 2014 «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER © 2015 «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER – Via Cassiodoro 19, Roma © Associazione Internazionale Amici di Pompei – Piazza Esedra, Pompei Direttore responsabile della Rivista Angelandrea Casale Rivista di studi pompeiani / Associazione internazionale amici di Pompei. A. 1 (1987)-, - Roma: «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 1987.-, III.; 29 cm. - annuale ISSN 1120-3579 ISBN 978-88-913-1019-4 1. Associazione internazionale amici di Pompei CDD 20. 937.005 Periodico: Autorizzazione Tribunale di Torre Annunziata n. 34 del 26-11-1996 Sommario PIER GIOVANI GUZZO, L’Internazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .7 ALESSANDRO GALLO, Il progetto architettonico-strutturale della Casa di M.E pidio Sabino a Pompei (IX,1, 22-29). Una lettura diacronica in chiave politica-sociale . . . . . . . . . . . . 9 RICCARDO FUSCO, Frammenti inediti di interni pompeiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41 MASSIMO RICCIARDI, Frutti, fiori e piante nei dipinti murali della Villa A (Villa di Poppea) ad Oplonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63 FABRIZIO RUFFO, Osservazioni sull’ager pompeianus e sugli effetti della colonizzazione sillana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 MICHELE DI GERIO, Studio sugli strumenti chirurgici nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 Notiziario Attività Soprintendenza speciale per Pompei Ercolano e Stabia . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111 Nota del Direttore (P.G. GUZZO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113 Attività Ufficio Scavi di Pompei (G. STEFANI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113 Ufficio mostre (G. STEFANI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113 Attività del Laboratorio Ricerche applicate (E. DE CAROLIS) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 Ufficio Editoria (M.P. GUIDOBALDI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 Ufficio Tecnico: Cinta muraria; Necropoli di Porta Nocera (V. PAPACCIO); Interventi al muro di cinta della Soprintendenza (V. PAGANO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 Indagini nel territorio: Via Nolana (U. PAPPALARDO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144 Nuova Cartografia di Pompei (R. MORICHI, R. PAONE, P. RISPOLI, F. SAMPAOLO) . . . . . . . . . 146 Ufficio Scavi di Boscoreale (A. M.SODO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150 Ufficio Scavi di Oplontis (L. Fergola); Indagini archeologiche nell’area della Villa A di Oplontis (A. BONINI, M. PREVITI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150 Ufficio Scavi di Ercolano (M.P. GUIDOBALDI); Le attività a gestione diretta del partner privato nell’ambito dell’Herculaneum Conservation Project (D. CAMARDO, M. NOTOMISTA) . 153 Notiziario Ercolano, Territorio: Carotaggi geoarcheologici nell’area della nuova Caserma dei Carabinieri a Ercolano (M.P. GUIDOBALDI, D. CAMARDO, M. NOTOMISTA); Portici, campagna di carotaggi geo-archeologici in Piazza San Ciro (M.P. GUIDOBALDI, D. CAMARDO, A. ROSSI); Torre del Greco, Villa Sora (M.P. GUIDOBALDI) . . . . . . . . . . . . . . . . 166 Ufficio Scavi di Stabia (G. BONIFACIO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174 Alcune riflessioni su Stabiae: Stabiae, San Marco: la villa, le Terme, il Narcisso (F. RUFFO); Il settore termale di Villa San Marco (L. JACOBELLI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174 Ufficio Scavi Zone periferiche (C. CICIRELLI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183 Discussioni La forma del Vesuvio: On the shape of Vesuvius before A.D. 79 (and why it should matter to modern archaologists) (G.F. DE SIMONE); Mediando ricerca e divulgazione: un nuovo modello del Vesuvio per il grande pubblico (E. QUINTO, P. SILVESTRI); Le lucerne in sigillata africana dalla villa romana di Pollena Trocchia (V. CASTALDO) . . . . . . . . . . . 201 Recensioni E. DE CAROLIS, Robert Rive,Un album fotografico di Pompei, Ass. Amici di Pompei, Quaderno St.Pomp VI 2013 (F. PROTO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212 V. SAMPAOLO, A. HOFFMAN, Pompeji, Götter, Mythen, Menschen (Bucerius Kunst Forum; Munchen: Hirmer 2014) (F. PROTO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212 A. PISTILLO, IL Museo civico G. Barone.Vetri e bronzi, Palladino ed., Campobasso 2013 (M. CASTOLDI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 213 Ager pompeianus et ager stabianus. L ’esempio della Villa B di Oplontis e della Villa Cuomo a S. Antonio Abate, Istituto per la diffusione delle scienze naturali, ed. f.c., 2013 (V. CASTIGLIONE MORELLI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 214 RICCARDO FUSCO Frammenti inediti d’interni pompeiani The present work illustrates fragments of marble intarsia that have never been published: the top of a one-foot table, some crustae representing animals and a portion of acanthus scrolls. They come for sure, or most likely, from Pompeii, and allow to increase the current knowledge of the roman art in multi-stone covering by identifying, on one hand, a new iconographic star theme and, on the other hand, by demonstrating that on the I century also walls were decorated with inlaid plant motifs. The table top provides a new evidence of the Hebrew presence in ancient Pompeii. Keywords: architettura; astri; Ebrei; intarsio; opus sectile Il mito dell’origine tessile dell’architettura e il suo perpetuarsi nella storia del rivestimento con ornamenti di derivazione tessile costituì il nucleo fondante di una cultura architettonica che, poco dopo la metà dell’800, si proponeva come alternativa a quelle fondate sul mito classico, vitruviano, di una struttura costruttiva trilitica nobilitata in ordine1. La formulazione teorica del concetto di involucro/spazio, leggero per definizione e rispetto al quale la struttura è solo supporto, è di Gottfried Semper il quale diede finalmente voce a soluzioni architettoniche invalse sin dall’Antichità. Con questa nuova idea del principio del rivestimento, centrata su di una polarità oscillante tra il mascheramento e la rivelazione della struttura, la teoria e la prassi architettonica è stata continuamente costretta a confrontarsi, nell’esasperazione di contenuti suscitata dai mutamenti tecnologici che rendeva quell’idea ancora più attuale2. Frutti più pacifici, e forse duraturi, ha invece garantito la visione semperiana a tutte le analisi successive sull’architettura antica. Scrive ad esempio Giulio Carlo Argan, nel 1968: «nell’architettura romana la parete ha la funzione di determinare lo spazio; concepita come limite o fondo, qualifica lo spazio atmosferico antistante allo stesso modo che il fondo di una piscina determina, per trasparenza, il colore dello specchio d’acqua. La qualità plastica del- la parete non è definita soltanto dalle membrature architettoniche, ma anche dalla decorazione plastica e, negli interni, pittorica. Poiché la parete non è sentita come una superficie solida, ma come una spazialità o una profondità immaginaria, non sorprende che su di essa vengano rappresentati, plasticamente o pittoricamente, aspetti della natura o eventi storici e mitologici. Lo spazio della parete rimane tuttavia uno spazio immaginario o ipotetico, un piano di proiezione: le immagini – architettoniche o naturalistiche – risentono ad un tempo della condizione imposta dal piano e della libertà concessa alla fantasia dell’artista dal fatto che quello spazio è, appunto, uno spazio immaginario»3 Polimatericità e tendenza ad una spazialità immaginaria fatta d’involucri cromatici, più che di volumi o geometrie, sono fenomeni molto precoci nell’architettura romana. Nessuna differenza concettuale è intercorsa a Roma fra intonaci dipinti, mosaici, stucchi o tarsie marmoree, al di là delle percezioni di status. Il punto di fusione di questa eterogeneità di materiali artistici è quello che Michelangelo Cagiano De Azevedo chiamava il valore cromatico di uno spazio architettonico: spazio sorto e costantemente definito da luce, atmosfera, colori4. I vari tipi di rivestimento appaiono per lo più associati; il mosaico passa alle pareti, alle volte, ai soffitti già ai tempi di Plinio, e nelle grandi aule tardo-antiche, di Roma e di Ostia, assurgono a dimensione figurativa e monumentale le geometrie marmoree dei commessi pavimentali repubblicani5. Complementari e intercambiabili, nella funzione e nel repertorio, sono stucco e pittura, pittura e intarsio, mentre i sistemi di partizione dei soffitti sono spesso quelli, centripeti, delle stesure pavimentali. Solo il quadro da cavalletto possiede completa autonomia e vera rappresentatività artistica, «eccetto per quel tanto che comportava la sua destinazione»6. È nell’architettura che si sommano i multiformi aspetti dell’operare pittorico romano ed è romano lo spazio in cui la decorazione si coordina organicamente all’architettura, segnando la funzione di ambienti o d’interi edifici, privati o pubblici che siano. La firma di Q. Amiteius, architectus al di sotto del pannello centrale del mosaico a medaglioni da Luc-en-Diois, dimostra presente anche alla coscienza degli Antichi questa unità tra progetto e realizzazione, decorazione e costruzione, arredi e struttura7. Un fenomeno simile è stato riscontrato da Elena Calandra in quel limite architettonico costituito dagli apparati cerimoniali provvisori delle tende regali tolemaiche8. Gli arredi - e in particolare i tessuti ornati - rivestivano per esse una funzione costituiva essenziale riverberata nelle fonti che ne parlano, come Ateneo della tenda di Tolomeo II, descritta e definita, pressoché esclusivamente, mediante gli arredi. 42 Riccardo Fusco 1. Piano di tavolo con opus sectile pavimentale proveniente da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, Depositi (s. inv. n.) (da MILANESE 2007). È molto probabile che Giuseppe Abate, dal 1838 “Primo Disegnatore” degli scavi di Pompei, abbia avuto contatti con G. Semper nel corso dei suoi due soggiorni londinesi9 tra 1853 e 1854. Lo stesso Semper era infatti coinvolto nell’impresa del Crystal Palace di Sydenham a Londra dove la storia dell’architettura e degli stili decorativi erano illustrate al grande pubblico con dieci Fine Arts Courts (egyptian, assyrian, greek, arabian, etc.) tra cui era la Pompeian Court progettata ed eseguita proprio da Abate. Lo stesso Abate almeno in parte realizzò, su progetto di M. Ruggiero e F. Niccolini, le quattro sale in stile neopompeiano volute da Giuseppe Fiorelli ed eseguite al pianterreno del Museo di Napoli tra 1864 e 1870. Esse segnarono un’apertura verso le più aggiornate riflessioni contemporanee sul design e le arti applicate: destinate all’esposizione della plastica in bronzo di provenienza vesuviana e tutte decorate su modelli pompeiani, esse intendevano ri- dar vita a Pompei anche collegandone gli oggetti, le sculture e le decorazioni alla produzione artistica e al mercato contemporanei10. Ad alcuni monumenti di provenienza pompeiana, certa o molto probabile, è dedicato questo lavoro: si tratta di manufatti ad intarsio o a commessi di marmi destinati agli arredi stabili o amovibili di alcune pareti domestiche dell’antica città vesuviana. Ancora inediti, essi offrono l’opportunità di approfondire alcuni aspetti, o declinazioni del gusto, della vita di Pompei, «un tema suggestivo come un dramma in atto» anche sul piano artistico11. Il design d’interni in marmi colorati della prima età imperiale romana costituisce invece il quadro più generale. Già ne I Pittori di Pompei, del 1963, Carlo L. Ragghianti affermava la necessità di un esame completo dei rapporti «tra pittura e architettura, pittura e scultura, pittura e c.d. arti minori, oltre a quelli, più scontati, con il mosaico e la pittura vascolare», nella vitalità di un clima verace in cui, allo studioso, risultava più significativa la freschezza originale della plastica a stucco che il neoatticismo attardato12. L’evidenza delle molteplici possibilità combinatorie dei vari tipi di rivestimenti parietali nelle case di Pompei, tra la fine della Repubblica ed il I secolo d.C., fu garantita, circa un ventennio più tardi, dalla sinossi degli ornati di pitture e pavimenti di M. de Vos e F. L. Bastet che compiva un primo tentativo nella direzione diastratica di Ragghianti13. Questa mostrò che i più vistosi complessi di quell’epoca comprendevano, spesso concomitanti, tarsie figurate, rilievi mitologici, marmi dipinti, pinakes di legno dipinto. Una delle evidenze indirettamente fornite da quella sintesi riguardò la progressiva affermazione del marmo negli spazi della vita sociale14. A questo tema l’area vesuviana ha offerto numerose testimonianze, la cui importanza è sottolineata dalle acquisizioni raggiunte, anche grazie a riferimenti cronologici numerosi e sicuri. Così è accaduto, ad esempio, per la definizione dello sviluppo dei pavimenti settili, cui l’area vesuviana ha fornito un importante campionario rappresentativo: da quelli a rombi prospettici15 di palombino, ardesia nera16 e scisto verde, testimoni della diffusione anche nell’Italia tardo-ellenistica del decor divino di antica ascendenza orientale, ai magnifici esemplari neroniani, floreali e geometrici, tra i più rari e lussuosi del repertorio romano17. A Pompei ne possiamo ormai contare tre: uno nel triclinio della Casa dell’Efebo (I 7, 11) dove, protetto da lamina plumbea, occupava lo spazio sacro sotto la mensa18; un altro dall’oecus della Casa di Bacco (VII 4, 10), anch’esso marmoreo e vitreo, già ammirato da William Gell19 e a noi noto solo da disegni antichi20; ed un altro ancora, interamente marmoreo (fig. 1) e di bottega urbana21, che, montato su di un supporto di marmo di Carrara, fu trasformato in tavolo, su disegno di Michele Ruggiero22. Nell’allestimento museale voluto dal Fiorelli, quest’ultimo fu dislocato nel “Salone Pompe- 43 Frammenti inediti d’interni pompeiani iano”, dove i grandi bronzi erano esposti, su basi di marmo colorato, sotto volte dipinte come il soffitto stellato del frigidarium delle Terme Stabiane, tra pavimenti ispirati dall’opus scutulatum e pareti tipo I stile. Non era l’unico tavolo in esposizione: un altro (fig. 2), delle stesse dimensioni, riproduceva in stile, con un gusto cromatico ispirato ad opere degli anni centrali del I secolo, il celebre motivo pavimentale dei tre quadrati iscritti23. Per realizzarlo Michele Ruggiero adoperò forse alcune di quelle ‘mostre’ di marmi pompeiani di cui egli parla, nel 1872: «Dei marmi bianchi, dei mischi, degli alabastri e delle pietre dure usate in Pompei ho fatto lustrare e mettere in ordine quadretti di quante più sorti ho potuto ritrovare; da cui si ravvisa che i marmi bianchi, alcuni erano dei monti nostri di Carrara, alcuni di Grecia che si conoscono alla grana e ai lustri salini e i mischi quasi tutti di quelli che ora son detti antichi, per essere o smarrite o consumate le cave»24. Con testimonianze di diversa consistenza, Ercolano e Pompei dimostrano inoltre che il marmo, pur essendo ormai la norma per gli edifici pubblici di I secolo, rimaneva, negli spazi privati, un privilegio delle classi medio-alte25. Parietes crustatae risultano oggi a Pompei soltanto nelle case dei Dioscuri (VI 9, 6-9), delle Vestali (VI 1, 6-8 e 24-26) e di Fabio Rufo (VI 16, 20-22)26; ad Ercolano invece, oltre che nelle Terme Suburbane, nella Palestra (Ins. Or. II, 4) e nel Sacello degli Augustali, ancora nella Casa dei Cervi (IV, 21) e in quella del Rilievo di Telefo (Ins. Or. I, 2). Il triclinio (18) di questa casa conserva uno degli esempi più belli di colonnato in miniatura ellenistico trasfigurato in schema parietale marmoreo27. Di altezza relativamente considerevole28, esso mostra ampi specchi di marmi policromi, delle varietà più appariscenti (cipollino bluastro, giallo carnagione) oppure brecciate (giallo antico, africano), disposti concepiti e lavorati come tappeti variopinti, tesi tra fusti tortili capitelli ed architravi bianchi e rosa29. Seppure 2. Piano di tavolo con opus sectile di tipo pavimentale, creazione ottocentesca in stile. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, Depositi (s. inv. n.) (da MILANESE 2007). incomparabile con lo sfarzo e la profusione di marmi ad intarsio allestiti sul pulpito della fontana a scaenae frons del primo palazzo di Nerone sul Palatino30, di poco più antico, esso testimonia della grande creatività dispiegata per le variazioni su questo tema decorativo grazie ai marmi colorati31. La selezione attenta di peculiari qualità cromatiche, peraltro recentemente documentata nell’allestimento parietale tardo-augusteo di un vestibolo del Foro di Cuma32, corrisponde ad un gusto specifico palesato dalla scelta della breccia di Sciro negli oeci 20 e 21 della stessa casa e dalla singolare ed incisiva presenza, anche in altri complessi ercolanesi, della più rara breccia rossa appenninica33. Il diverso carattere quantitativo e qualitativo della documentazione marmologica relativa ai due siti vesuviani è dipesa in gran parte dalle modalità del loro seppellimento che solo ad Ercolano hanno impedito le frenetiche attività antiche di recupero di materiali di pregio34. A Pompei, inoltre, i marmi delle dimore residenziali edificate sulle mura furono con- tinuativamente spogliati, nel corso degli scavi borbonici, per gli arredi della Reggia di Portici35. Come ha scritto Mariette de Vos, Pompei è solo in apparenza povera di marmi36. Ne sono indizi significativi la bottega di marmorari37 rinvenuta tra 1796 e 1798 nella Regio VIII (7, 24); il blocco di serpentino38 destinato, insieme ad altre varietà policrome, ai restauri della casa di Popidius Priscus (VII 2, 20.40); le 180 lastre di destinazione parietale accatastate in deposito nella cucina del complesso dell’agro Murecine39; ed infine i numerosissimi locali di ristoro della città40 (popinae prevalentemente, e cauponae, stabula, hospitia) dove il bancone di mescita dislocato lungo la facciata della bottega è spesso rivestito di frammenti marmorei sparsi oppure accuratamente apparecchiati. I disegni dei viaggiatori e le foto di scavo hanno dimostrato autentici e non di restauro questi decori, utili a richiamare, grazie alla bellezza e ricchezza dei marmi, l’interesse della clientela41. Le testimonianze vesuviane hanno poi rivestito un’importanza peculiare 44 3. Skyphos in ossidiana con figure egittizzanti ad intarsio di malachite, lapislazzuli, corallo bianco e rosa, inserite in alveoli intagliati verticalmente e rivestiti di lamina aurea, da Stabiae, Villa San Marco, quartiere del bagno (da LEOSPO 1999). Riccardo Fusco 4. Pompei, Casa di Sallustio (VI 2, 4): lastra parietale di ardesia ornata ad intarsio con anthemion intermittente di palmette e fiori di loto, reimpiegata nel tratto SE del pavimento del cubicolo (34) (da SAMPAOLO 1993). 5. Capitello corinzieggiante con calato ad intarsio ed elementi compositivi applicati da Ercolano, Casa dei Cervi (IV, 21), ed uno dei capitelli che lo copiano nella c.d. Basilica di Cibele del J. Paul Getty Museum Building di Malibu (da NEUERBURG 1975). per la storia dell’arte romana dell’intarsio. Le sue radici egiziano-tolemaiche si sono ad esempio rivelate nel prezioso vasellame d’ossidiana (fig. 3) dalla villa San Marco a Stabiae42. Questi prodotti delle manifatture alessandrine, molto amati dai Romani43 tra I a.C. e I d.C., costituirono un modello diretto per i marmorari, allorché essi trasferirono gli intarsi minuti alle fastose pareti di grandi dimensioni44. Le stesse caratteristiche tecniche formali e stilistiche si riscontrano su di una serie, ancora poco nota, di manufatti augustei che segna l’esordio dell’intarsio sulle pareti romane45. Ornati di forme solo vegetali, essi recano un intarsio inciso, poco profondo – spesso, ma non solo, su fondo di lavagna – destinato a riempimenti di materiale non lapideo. A Pompei un esemplare (fig. 4), forse non completo, ornato di un anthe- mion intermittente di palmette e fiori di loto, si conserva reimpiegato in un pavimento della Casa di Sallustio46 (VI 2, 4), a ridosso della soglia di una porta aperta verso il portico e di uno zoccolo rivestito di palombino e portasanta47. Alcune testimonianze antiquarie48 lasciano supporre che le campiture di questi intarsi fossero in foglia d’oro, applicata verosimilmente mediante la tecnica a tempera. Anche il calato del raro capitello dal giardino della Casa dei Cervi ad Ercolano49 era decorato nello stesso modo (fig. 5). Dato a lungo per disperso, Fedora Filippi ha potuto recentemente ritrovarlo nei depositi, dove il calato è risultato moderno, di cemento grigio50. Non c’è ragione di dubitare che esso sia un calco dell’originale, andato distrutto per qualche ignota ragione, e che questo fosse in origine di lavagna: così è per Amedeo Maiuri che lo portò in luce ed è di Nero del Belgio il calato dei capitelli della Basilica di Cibele nel Getty Museum di Malibu che precisamente lo copiano51. Il capitello ercolanese è di quelli corinzieggianti augustei con “volute a stelo”52, un sottogruppo in cui esso rientra come esemplare unico per avere, oltre al calato ornato ad incisione, foglie, fiori, volute ed abaco lavorati separatamente in marmi colorati (giallo antico, palombino, rosso antico) ed inseriti mediante appositi alloggiamenti53. Il risultato ricorda i vasi minoici dello stile di Kamares: nel suo più intenso effetto, tuttavia, lo straniamento visivo doveva rivelarsi con l’irradiazione diretta dei raggi del sole, grazie all’accentuato contrasto cromatico delle pietre adoperate e allo scintillio degli intarsi in foglia d’oro54. Provengono da Pompei i tre celebri pannelli intarsiati, ancora secondo il gusto dei vasi ialini, su fondo di lavagna. Il raro stato d’integrità di questi lavori, facilmente inclini alla caduta e al distacco, ha offerto un riscontro monumentale compiuto alle parole di Plinio che ancorano all’età di Claudio la diffusione dell’intarsio figurato55. Attribuiti da ultimo56 agli anni 70 del I secolo, le diverse tradizioni figurative cui essi appartengono, se non imputabili ad uno sfasamento cronologico, testimoniano precocemente di quella pluralità di modelli tipica dell’intarsio romano57. I primi due (figg. 6-7), certamente pendant o resti di una serie, decoravano un ambiente soprastante il tablino della Casa dei Capitelli Colorati (VII 4, 31 e 51), dimora di impianto sannitico che conservò, nel tempo, tutti i suoi caratteri ellenistici58. E un tratto tipicamente greco possiedono queste Menadi e questi Satiri danzanti oppure offerenti che, pur ispirandosi a modelli del manierismo ellenistico, ricordano da vicino i vasi a figure rosse per struttura dei corpi, interpretazione del movimento, disegno59: caratteristiche che traspaiono in effetti anche dai Satiri del ninfeo di Punta dell’Epitaffio60. Era murato invece nella zona mediana della parete in III stile del triclinio della Casa di 45 Frammenti inediti d’interni pompeiani 6. Giuseppe Abbate, 1843: pannello con scena dionisiaca ad intarsio di marmi colorati da Pompei, Casa dei Capitelli colorati (VII 4, 31), inchiostro su cartoncino (da PPM 1995). 8. Venere che si allaccia il sandalo, pannello ad intarsio di marmi colorati, da Pompei, Casa di Volusio Fausto (I 2, 10) (da BONANNI 1998). 7. Giuseppe Abbate, 1843: pannello con scena dionisiaca ad intarsio di marmi colorati da Pompei, Casa dei Capitelli colorati (VII 4, 31), inchiostro su cartoncino (da PPM 1995). 9. Pompei, Casa del Primo Piano (I 11, 15.9), pianta. (da PPM II). Villa B di Oplontis63, con le sue straordinarie agemine figurate in rame e in argento, ancora molto vicine a quella tradizione decorativa, e la piccola anta di legno intarsiata in avorio64 con Eroti alati in un reticolo di rombi, kantharoi e piccole anfore, dalla Casa pompeiana del Criptoportico (I 6, 2). Si tratta di manifestazioni notevoli della continuità di quel gusto abitativo che le élites ellenistiche avevano coltivato, conformandosi alle cadenze di uno stile principesco, nell’esaltazione di una vita privata voluttuosa, allegra, lussuosa, anche negli arredi domestici. La trasmigrazione di questi modelli decorativi nel linguaggio dei marmi proprio del I secolo è indicata dalla mensa di pavonazzetto proveniente dal triclinio estivo allestito in mezzo al frutteto dell’insula I 22 di Pompei65. Priva dei sostegni, essa è decorata a champlevé con gli ornati geometrici di un esagono fiancheggiato sui due lati da tre formelle quadrate, sul fondo di crustae di marmo africano rosso brecciato. Il gusto è quello dei pavimenti Volusio Fausto (I 2, 10) il terzo pannello (fig. 8), con Venere che si allaccia il sandalo – cui faceva riscontro un quadro dipinto, ora perduto, con Dioniso che abbevera la pantera61. È difficile riconoscere il modello formale tardoellenistico cui s’ispira questa Venere schiettamente romana, così somigliante agli Eroti e alle Danzanti della prima domus neroniana al Palatino62. Alla consuetudine regale ellenistica d’intarsiare anche gli arredi amovibili ci riportano la cassaforte della 46 Riccardo Fusco 10. Piano di tavolo in ardesia decorato ad intarsio con due rosette a sei petali entro cerchio, da Pompei, Casa del Primo Piano (I 11, 15.9), tablino (Foto autore). 11. Piano di tavolo in ardesia decorato ad intarsio, dettaglio del margine frontale (Foto autore). settili contemporanei, medi e piccoli, anche di Pompei e di Ercolano, dove continuamente ricorrono motivi geometrici semplici, come i quadrati e gli esagoni, nelle più svariate combinazioni disegnative66. Un piano rettangolare di ardesia67, ancora inedito, offre invece un’ottica inconsueta su questi arredi amovibili pompeiani ad intarsio, arricchendo il quadro sinora noto (fig. 10). Rinvenuto nel tablino della domus I 11, 15.9, insieme ad una grossa anfora68, esso è intarsiato secondo la tecnica a cassina di pieno I secolo, già testimoniata a Pompei dai materiali menzionati. L’abitazione (fig. 9) è una di quelle, unifamiliari, create in età sannitica per le classi subalterne, in risposta ad un improvvisa e massiccia richiesta di alloggi di piccole dimensioni verificatasi in città nei decenni successivi alla guerra annibalica69. Esse recano, seppure variata, una struttura planimetrica egualitaria, sorta da una rigida parcellizzazione dell’insula, in cui pochi ambienti si raccolgono attorno ad un atrio scoperto. Questa tipologia edilizia, che l’Hoffmann70 definì modernamente “a schiera”, individua un modello preciso che il Nappo71 ha potuto documentare nella Regio I. In origine modeste e funzionali, queste abitazioni furono suscettibili di modifiche: quella da cui il piano proviene fu dotata, nella sua ultima fase, di ambienti padronali riccamente affrescati in IV stile, al piano superiore di un corpo di fabbrica edificato sul lato di fondo del cortile72. La faccia principale del piano, su cui restano solo le cassine, è ornata da due grandi rosette entro cerchio i cui petali – sei in tutto –, frammezzati da sei cerchietti, si dispongono attorno ad un bottone cen- trale. Lo spazio tra le rosette è campito da altri due cerchietti sormontati da elementi semilunati con le punte rivolte all’esterno, mentre gli angoli della lastra sono evidenziati da triangoli isosceli. Anche tre dei quattro margini della lastra sono intarsiati (fig. 11): quello più lungo per ospitare listelli ai lati di una borchia centrale, i due laterali solo per listelli. L’ultimo margine è liscio, e la faccia opposta a quella principale è lavorata a gradina. Per la forma e la distribuzione degli ornati, il manufatto può essere riconosciuto come un esemplare di tavolo monopodico di piccole dimensioni, un genere di arredo molto versatile e molto diffuso, a Pompei e nell’impero, anche in abitazioni modeste, ma molto raramente in versione intarsiata73. Addossati alle pareti di rappresentanza, questi tavoli, introdotti a Roma nel corso del II secolo a.C. con i bottini delle guerre orientali74, erano destinati all’esposizione di vasellame o di oggetti di pregio. All’interno di questa tipologia, la peculiarità dell’esemplare pompeiano è segnalata dalla prominenza assoluta del motivo della rosetta a sei petali: un motivo decorativo universale e antichissimo, di origine sumerica75, e noto a Pompei sin dall’età ellenistica76. Una madia dipinta su di un’hydria del Pittore di Gallatin77, dove esse compaiono similmente in coppia, ma senza cerchio, dimostra che il motivo è già di età classica: tuttavia del manufatto in esame, ogni singolo elemento iconografico, oltre che tecnico-formale, trova confronti precisi ed esaurienti in monumenti prodotti, a partire dai decenni finali del I secolo a.C., nel mondo giudaico della Palestina antica. Tra i tavoli lapidei rinvenuti nel quartiere ebraico di Gerusalemme, si discerne infatti una tipologia costituita da piccoli piani rettangolari sorretti da un sostegno centrale in forma di colonna, articolata in base, fusto e capitello78. Scolpiti nel duro calcare locale, essi sono ornati, sulla faccia principale, di motivi floreali o geometrici realizzati con un’incisione profonda79, tra cui, perspicue, le due rosette entro cerchio, spesso intervallate da altri elementi 47 Frammenti inediti d’interni pompeiani aniconici (vegetali, architettonici, o geometrici), nella totale adesione alla prescrizione biblica che segna l’arte giudaica del tardo Secondo Tempio (50 a.C.- 70 d.C.)80. Anche a Gerusalemme, questi tavoli servivano il vasellame potorio, come mostra un esemplare di piano decorato che raffigura un tavolo di questo genere (fig. 12), affiancato, all’altezza del sostegno, da due grandi orci81: ed in effetti una grossa anfora fu rinvenuta, come s’è detto, accanto al piano di tavolo di Pompei. In Giudea, la produzione di questi manufatti è legata ad una vera e propria industria della pietra, sorta dalle attività di ampliamento del Secondo Tempio ad opera di Erode il Grande, cui dobbiamo anche vasellame, elementi della decorazione architettonica ed ossari82. Nell’ambito di questi ultimi, prodotti a partire dal 20-15 a.C., i confronti con il manufatto pompeiano si moltiplicano a dismisura (fig. 13), per l’infinita e variata riproduzione del motivo ribattuto della rosetta entro cerchio83 e per l’horror vacui che impronta l’adozione dello schema, esteso a tutto il campo decorativo84. Sulla base di questi esempi, possiamo supporre che gli elementi semilunati nello spazio tra le rosette vogliano raffigurare una menorah, il candelabro a sette braccia, simbolo stesso della nazione ebraica. Per la spiccata tendenza alla stilizzazione aniconica, la menorah si trova infatti anche resa, proprio negli ossari, con due semplici semicerchi che ne rappresentano la base e le braccia, senza asta85. Sulla lastra pompeiana, potrebbero tuttavia alludere a questa i due cerchietti compresi tra le semilune, secondo la convenzione figurativa che la compone di elementi globulari o circolari86. Non è da escludere tuttavia che le semilune vogliano rappresentare il crescente lunare, universalmente associato alla rosetta in numerosi monumenti, anche giudaici87, dalla più remota antichità. In relazione al piano simbolico delle raffigurazioni, gli studiosi dei materiali giudaici più antichi ritengono che esso sia del tutto soffocato dalla forte tendenza ornamentale, pur riconoscendo la persi- stenza di valori astrali e apotropaici, connessi alla immagine della rosetta88. Può dirsi forse lo stesso per il monumento pompeiano, soprattutto se gli elementi semilunati intendono raffigurare il crescente lunare piuttosto che la menorah: elemento che ne accentuerebbe il valore talismanico, in riferimento al tempo infinito, all’eternità, all’universo89. È importante a questo punto ricordare che proviene dalla adiacente abitazione I 11, 14, un’iscrizione che è ormai considerata l’unica e più probabile attestazione di una presenza ebraica in Pompei90, delle tante un tempo congetturate a partire da elementi decorativi, instrumenta domestica ed antroponimi91. Graffita in profondità tra due pentacoli, nello stucco di rivestimento steso dopo il sisma del 62 d.C. sulla parete destra del vestibolo, essa recita a mezza altezza, in modo da essere ben visibile a chi entrava: POINIUM CHEREM. Il carattere magico-profilattico del testo, già evidenziato dalle due stelle a cinque punte, è individuato, secondo Giancarlo Lacerenza, dal termine cherem92 in cui va riconosciuto l’atto di riservare, conservare – qualcosa o qualcuno – alla divinità: in latino, il sacrum. Pur non essendo automaticamente ebraica un’iscrizione magica in cui siano presenti lemmi semitici93, la presenza, nella casa accanto a quella da cui il testo proviene, di un tavolo altrettanto caratteristicamente giudaico, attribuibile anch’esso al pieno I secolo e non estraneo, come si è visto, ad un’intenzione magico-talismanica, può offrire un sostegno forte a quest’identificazione. È possibile che siano Ebrei immigrati i proprietari di queste due abitazioni pompeiane? Alcuni dati ci consentono almeno d’ipotizzarlo. La Campania è la regione per cui si possiede la maggiore e più antica documentazione di comunità giudaiche diasporiche, già prima dell’enorme afflusso di schiavi ebrei a seguito delle campagne militari di Vespasiano e Tito94, dopo le quali la destinazione italica delle migliaia di prigionieri catturate in Giudea fu, in particolar modo, meridionale. Agli inizi del I seco- 12. Piano di tavolo lapideo decorato ad incisione, I secolo d.C., da Gerusalemme (da HACHLILI 1988). 13. Ossario in calcare bianco, I secolo a.C. – I secolo d.C., da Gerusalemme (da HACHLILI 1988). lo, inoltre, Puteoli è sede di un’importante e fiorente comunità giudaica, in rapporti con Erode, i suoi figli e la sua corte95. Qui Paolo incontra, fra 59 e 61, alcuni suoi adelphoi e fonti rabbiniche vi testimoniano, per l’età domizianea, il passaggio di maestri palestinesi96. Indizi di presenza ebraica nel corso della prima età imperiale permangono inoltre per Ercolano e Stabia97, ed infine una diffusione capillare del giudaismo in età tardoantica si testimonia nell’agro nocerino-sarnese, dove la comunità ebraica, stabilmente radicata e fortemente strutturata, aveva anche una sinagoga in cui incontrarsi98. È dunque molto probabile la presenza di Ebrei anche a Pompei, cittadina mercantile in cui erano noti o praticati vari culti stranieri. Tenuto conto anche del numero molto limitato di conversioni nella stessa Roma99, la probabilità che le due abitazioni siano appartenute ad Ebrei immigrati pare molto alta. Parte essenziale della vita dei Giudei della diaspora è la fiducia derivante dalla celebrazione delle tradizioni avite, anche per sopravvivere in una società che cercava in tutti i modi di cancellarle100. Non possiamo non leggere 48 Riccardo Fusco 14. Protomi di orso, cavallo, grifo e corpo di cetaceo, crustae in giallo antico, Napoli Museo Archeologico Nazionale, Depositi, invv. nn. 6513, 6512, 6510, 6511 (Foto autore). 15. Frammento di globo celeste con figure di costellazioni ad intarsio: fondo in marmo bigio antico tenario e crustae superstiti in giallo antico, da Roma, Berlin Antikensammlung der Staatliche Museen, inv. n. Sk 1050 a (da KÜHNE 2011). dunque nel tavolino di Pompei, allestito secondo la moda corrente per i tavoli parietali nelle case delle élites giudaiche di Gerusalemme, un’affermazione d’identità e d’appartenenza, ribadita dal richiamo simbolico dei suoi ornati, inneggianti al cuore stesso della nazione giudaica e alla sua arte, di cui la rosetta può dirsi il più importante simbolo rappresentativo, come ha notato Rachel Hachlili101. L’appropriazione concomitante del linguaggio di beni di lusso tipici della società romana di I secolo, come le tarsie su fondo nero, può inoltre individuare un buon livello, o una chiara volontà, d’integrazione sociale. Sul piano dei modelli formali, in questo manufatto pompeiano si vedono riecheggiati i tavoli principeschi deliomacedoni di ardesia intarsiata di paste colorate102: un modello che a Pompei, fiorente porto allo sbocco della valle del Sarno, poté diffondersi grazie alle attività orientali dei mercatores italici, sollecitate dalla creazione a Puteoli del nuovo terminale dei commerci marittimi diretti a Roma103. Nei depositi del Museo Nazionale di Napoli è stato finalmente possibile ritrovare quattro delle cinque crustae raffiguranti animali che Olga Elia citò la prima volta nel 1929, in una nota del saggio sui tre celebri intarsi pompeiani104. Si tratta delle protomi (fig. 14), integre e lavorate separatamente, di un orso, di un cavallo e di un grifo, oltre che del corpo di un pesce, forse un cetaceo, mancante solo di una parte della coda105: della zampa, elencata all’epoca nel gruppo, non v’è più traccia106. Segate, apparentemente, in marmo giallo antico e ricoperte, nella prevalenza dei casi, di una patina grigio-scura dovuta forse a combustione, esse recano spessori, tutti compresi tra 0,4 e 0,6 cm, e margini, arrotati e rientranti, che, insieme alla resa prevalente dei dettagli anatomici mediante l’incisione, ne rendono certa la pertinenza originaria ad un lavoro di tarsia di I secolo. Sulla base delle occorrenze inventariali, è possibile supporre che i frammenti siano pervenuti nelle collezioni del Museo tra 1820 e 1849: essi compaiono infatti solo a partire dall’Inventario San Giorgio107 dove, seppur elencati tra reperti vesuviani, non è esplicitata l’indicazione di questa provenienza, come anche nel successivo Inventario del Fiorelli108. L’ipotesi di un’origine pompeiana, pur molto probabile, è destinata dunque a rimanere tale: anche nei diari di scavo di quegli anni non se ne trova conferma. Omogeneità di materiale e dimensioni lasciano ipotizzare che le crustae facessero parte di una stessa composizione. Figure animali sono presenti negli intarsi romani, incluse in scene di carattere dionisiaco o, più raramente, come elementi decorativi isolati: così ad esempio il grifo, la pantera, la farfalla, la lupa109. Mancano tuttavia esempi, anche di altro genere artistico, in cui tutti e quattro questi animali appaiano raffigurati insieme. In una raffigurazione di cacce circensi o di giochi gladiatori110 bene si troverebbero l’orso ed il cavallo, ma più difficile sarebbe la presenza del pesce e del grifo. Una scena di tiaso marino, pur includendo cavallo, grifo e pesce lascerebbe da parte, inevitabilmente, l’orso: solo in un fregio “popolato” si potrebbero forse trovare concomitanti tutti e quattro gli animali111. Una più corretta e suggestiva alternativa ermeneutica, che può restituire ai frammenti in esame il loro più alto valore testimoniale, sembra offerta da un frammento di globo celeste (fig. 15), in marmo 49 Frammenti inediti d’interni pompeiani 16. Frammento di globo con figure di costellazioni ad intarsio, Berlin Antikensammlung der Staatliche Museen, inv. n. Sk 1050 a, restituzione grafica (da BESCHREIBUNG 1881). bigio tenario112, acquistato a Roma nel 1889 e conservato oggi nei Musei di Berlino113. Di questo importante monumento, ignorato dagli studi sull’intarsio romano, risulta tuttavia necessario approfondire attribuzione e datazione, sinora molto controverse. Di forma concava, il margine inferiore integro e lisciato, il frammento reca sugli altri tre lati, tutti fratturati, accurati intagli rettilinei114 (fig. 16) che Georg Thiele interpretò come risega per l’alloggiamento di lastre adiacenti lavorate separatamente. Sullo sfondo di un cielo stellato, reso con elementi puntiformi campiti in giallo antico, vi sono figure di costellazioni di cui restano, invece, solo gli incassi (fig. 17). Thiele vi riconobbe circa un terzo dell’emisfero settentrionale, tra il circolo artico ed il tropico del Cancro, con la Via Lattea e le costellazioni di Cassiopea, del Cigno, della Lira e di Engònasin (l’Inginocchiato, ovvero Ercole). La calotta polare, similmente lavorata a parte, doveva incastrarsi, come coperchio, lungo il bordo lisciato: una corniola della collezione von Stosch e un brano dell’Antologia Palatina inducevano infatti Thiele a identificarvi i resti di un recipiente di lusso in cui gli oggetti astronomici, dislocati erroneamente o casualmente e senza tener conto delle mappe stellari antiche, erano ridotti a puri ornamenti115. Circa l’identità delle costellazioni, è concorde con quello di Thiele il giudizio recente di Ernst Künzl e di E. Dekker. Attraverso i dati astronomici desumibili dalle costellazioni, Elly Dekker ha tuttavia precisamente riferito il segmento di globo in esame all’emi- 17. Nomenclatura adoperata per le cassine di Sk 1050 a (da KÜHNE 2011). sfero nord, con una declinazione di ca. 30° ed un’ascensione retta di 110°: al circolo artico corrisponderebbe il margine superiore116, perché già gli antichi collocavano la Lira al di sopra di esso, e quello inferiore al tropico del Cancro117. Anche per queste ragioni, nel taglio obliquo che attraversa il frammento può effettivamente riconoscersi la Via Lattea118, semplificata, come in Arato e nelle mappe medievali, in una linea circolare passante anche attraverso Cassiopea ed il Cigno. L’insieme di questi elementi rifletterebbe le caratteristiche delle griglie celesti descritte dagli astronomi antichi a partire dagli studi di Gemino (I a.C. - I d.C.), ed opera greca, senza ulteriori caratterizzazioni cronologiche, può essere ritenuto, secondo Dekker, il globo di Berlino. Identificando la prima costellazione a sinistra come Cefeo, in posizione eretta, la testa di tre quarti verso sinistra con barba e copricapo, Ulrich Kühne è invece giunto a riconoscervi il frammento di un sofisticato strumento astronomico. Non più destinati a crustae figurate, gli incassi (fig. 18) della sella di Cassiopea insieme a quello della via Lattea ed ai tagli laterali119, costituirebbero gli alloggiamenti di meccanismi metallici di un orologio ad acqua simile a quello di Ctesibio descritto da Vitruvio120, il cui movimento, specificamente ca- 18. Ricostruzione delle parti funzionali dell’orologio ad acqua nell’ipotesi di U. Kühne (da KÜHNE 2011). 19. Ricostruzione del globo di Berlino in sezione trasversale, con il serbatoio cilindrico dell’orologio ad acqua allineato con l’asse polare (da KÜHNE 2011). denzato, era determinato da un flusso d’acqua continuo all’interno di un recipiente dotato di fori di adduzione e scarico opportunamente gestiti (fig. 19). Le regioni polari erano dunque del tutto omesse, per fare spazio ad 50 Riccardo Fusco 20. Ricostruzione del globo di Berlino come planetario meccanico, in grigio il frammento conservato (da KÜHNE 2011). un serbatoio cilindrico allineato con l’asse polare che veniva riempito mediante un foro presente anche al polo meridionale. Un tubo adduttore, disponendosi lungo la via Lattea, s’immetteva nella sfera verso il sud astronomico, nei pressi della perduta Cassiopea e a sinistra di Cefeo, terminando in C5F: qui, lo spostamento d’acqua faceva scattare un asse ad aletta dislocato in E3/C5F/C5G. La rotazione dell’intero globo, tuttavia, era determinata da un secondo asse che, con un ingranaggio a corona, ne causava lo scivolamento attorno alla base fissa di un cilindro metallico pari al diametro del serbatoio. Un anello di tensione, infine, fissava al piano dell’eclittica il meccanismo per i movimenti del sole, della luna, e dei pianeti (fig. 20). Così ricostruito, il globo di Berlino, a questo punto un planetario meccanico, può essere messo in relazione alla reale situazione del cielo121 a seconda che lo si ritenga allineato al polo dell’equatore celeste oppure a quello dell’eclittica, con due diverse possibili proiezioni delle costellazioni superstiti122 (fig. 21). Prova stringente che il frammento fosse parte di una sphaera meccanica è offerta dal confronto con il globo dell’Atlante Farnese (fig. 22) che, per Kühne, ne è la copia, come dimostrerebbero le corrispondenze nella posizione delle costellazioni ed alcune correzioni operate da un artefice evidentemente all’oscuro di cultura astronomica123. La cavità praticata alla 22. Globo celeste dell’Atlante Farnese, incisione (da STEVENSON 1921). 21. Mappe speculari della parte settentrionale del cielo attorno al 250 a.C., epoca alla quale U. Kühne attribuisce il frammento Sk1050a, con la sua estensione approssimata qualora esso sia allineato al polo dell’equatore celeste (mappa in alto) oppure al polo dell’eclittica (mappa in basso). (da KÜHNE 2011). sommità del globo Farnese124 riproduce allora quella destinata, nel prototipo, al serbatoio cilindrico dell’orologio ad acqua; la forma rettangolare scolpita su di essa nel punto in cui il circolo artico, un coluro ed il bordo della cavità si incontrano, l’aletta dell’asse rotante; e il vicino elemento circolare, infine, l’estremità a forma di cono del tubo adduttore. In accordo con la tradizione ellenistica, il Titano raffigurato è l’astronomo inventore della sfera, ed anzi proprio l’artefice di quella di Berlino, maldestramente riprodotta. Tra gli astronomi antichi il nome più probabile è quello di Archimede, che nelle fonti, è alla testa anche della tradizione sferopoietica125. Il frammento di Berlino può essere allora il suo planetario meccanico che, a Roma, fu conservato in casa di Marco Marcello (Cic., De Re publica, I, 21-22). Il senso sottile per la metafora visiva, disvelato dal suo artefice nella dislocazione del tubo di adduzione lungo la via Lattea, può conferire valore simbolico anche al fatto che questo entri in Cassiopea per terminare in Cefeo: quale migliore allegoria della coesione interna e del potere divino della coppia regale di Hierone II e di sua moglie Philistis? Anche per questo argomento il globo di Berlino può essere attribuito, secondo Kühne126, alla Siracusa del secondo quarto del III sec. a.C.. Per essere di marmo colorato e lavorato ad intarsio, il globo di Berlino certamente costituisce un unicum tra i pochissimi globi celesti antichi che ci sono pervenuti127. Come quello Farnese, esso proviene da Roma e reca costellazioni figurate, presenti peraltro anche su quello (fig. 23), metallico e miniaturistico, di Mainz (150220 d.C.). Nell’ermeneutica della sfera celeste farnesiana la forma rettangolare scolpita alla sua sommità costituisce, in effetti, un vero e proprio enigma, e motivo della sua datazione alta128. Allo stato degli studi, non c’è più ragione129 d’identificarla con la costellazione del Caesaris thronos, come a lungo supposto a partire da Franz Boll che la riferiva alla cometa del 20 luglio del 44 a.C.. Esula dai nostri scopi una valutazione del confronto tra questo globo e quello di Berlino. Secondo Dekker, tuttavia, il globo Far- 51 Frammenti inediti d’interni pompeiani 23. Globo celeste miniaturistico, Mainz Römisch-Germanisches Zentralmuseum, inv. n. 42695D (da KÜNZL 1998). nese, nonostante lo spiccato decorativismo, è legato ad una tradizione di copia risalente a quello, matematico, di Ipparco130. Se è valida la connessione tra i due globi stabilita da Kühne, ciò dovrebbe dunque dipendere da un comune prototipo post-ipparcheo dell’ultimo quarto del II a.C.. Riguardo invece al taglio regolare della calotta polare, esso è presente anche sul globo perduto di Larissa131; mentre su quello, integro, di Mainz, tutti e due i poli risultano forati, per favorirne l’alloggiamento su di un piccolo obelisco domestico oppure alla sommità di uno scettro imperiale132. Nei monumenti musivi, pittorici e scultorei in cui si trovano raffigurate, le sfere celesti appaiono, in effetti, sempre dislocate sopra supporti. Su bassi piedistalli a quattro piedi, in un rilievo tombale tardo-ellenistico nel museo di Istanbul133 e nei mosaici romani con l’Esedra dei Sette Sapienti134; su piedistallo modanato, nell’affresco di Urania (fig. 24) dalla Casa dei Vettii135; su treppiedi, nel mosaico di Monnus a Treviri, con la scena di Arato ed Urania136. Se poi nel rilievo Dresnay, della prima età claudia, il globo è presso Atropos al di sopra di una bassa base liscia137, in tutti i rilievi romani dei sarcofagi c.d. biografici, di II e III secolo, in cui ugualmente è attributo di una delle Parche, esso appare infine collocato su colonne138 anche al fianco di meridiane, oppure ancora su pilastri139 come già in un affresco della villa di Fannius Synistor a Boscoreale140 (50-40 a.C.). Una sfera illustrata accompagnava, secondo le fonti, la lettura pubblica dei Fenomeni di Arato alla corte macedone di Antigono Gonata: e simili sfere astronomiche ellenistiche dovettero effettivamente giungere a Roma. Al momento della conquista di Sinope, nel 69 a.C., L. Licinio Lucullo portò via quella di Billarus insieme alla statua dell’ecista Autolico, lasciando per il resto intatti gli ornamenti della città141. Con la presa di Siracusa del 212 a.C. M. Claudio Marcello, invece, entrò in possesso di ben due sphaerae di Archimede. Cicerone ne parla dettagliatamente142: i due strumenti avevano caratteristiche differenti. L’uno, di legno o pietra, recava le costellazioni dipinte e fu esposto in pubblico nel tempio della Virtus; l’altro invece era un planetario meccanico che mostrava il moto apparente della luna, del sole e dei pianeti con le loro relative e differenti velocità, ed era conservato, come s’è detto, in casa di Marcello. È molto probabile che per descriverlo, Cicerone abbia tenuto presente uno strumento che aveva potuto più certamente vedere, come quello confezionato da Posidonio143, il maestro stoico che egli seguì a Rodi. Come era fatto il planetario di Archimede descritto da Cicerone? Secondo M. T. Wright144, era innanzitutto la mano che imprimeva il movimento ed è plausibile che questo fosse perpetuato da un sistema di ruote dentate simile a quello del sofisticato strumento astronomico del Meccanismo di Anticitera (80-70 a.C.)145. Se il planetario era in forma di globo, un sistema multiplo di ruote dentate poteva esservi alloggiato con gli assi paralleli al polo dell’eclittica e tutti i suoi movimenti in uscita coassiali con quel polo. Non si può escludere, tuttavia, che, proprio come quello di Anticitera, esso fosse un quadrante piano. Sphaera era infatti nome comune di ogni modello del cosmo: dei planetari, dei planisferi, come delle tavolette oracolari146. Un primo più solido riferimento per una corretta collocazione cronologica del frammento di Berlino può essere desunto dalla presenza, del tutto rara ed eccezionale, della via Lattea147. Per quanto non se ne possa più conoscere l’andamento complessivo né in quale misura esso rispecchiasse le mappe stellari antiche, è solo a partire dall’opera di Manilio, della prima età augustea, che ne abbiamo una descrizione circostanziata, che evidenzi anche il suo passaggio attraverso il Cigno e Cassiopea. Dopo Manilio, una nuova analisi è nella Sintassi Matematica di Claudio Tolomeo (150 d.C.). Ad escludere del tutto l’attribuzione ad un orizzonte greco-ellenistico del frammento di Berlino148 sono, tuttavia, alcune importanti ragioni di natura tecnica e materica, che al tempo stesso favoriscono ipotesi più precise sulla sua datazione. Il manufatto appartiene alla tipologia delle tarsie su fondo scuro presenti nell’arte romana a partire dall’età claudio-neroniana. È utile ricordare inoltre che l’uso scultoreo dei marmi bigio scuri149 si documenta a partire dall’età flavia, in sostituzione del basalto, addensandosi massivamente in età adrianeo-antonina, per proseguire sino all’età severiana. Tali sculture provengono nella maggior parte dei casi da Roma, spesso da edifici pubblici di diretta committenza imperiale oppure da residenze di altissimo livello sociale. La villa neroniana di Anzio ha restituito almeno due esempi di tarsie vegetali su fondo di bigio morato150; mentre alle decorazioni di villa Adriana apparteneva il fregio bigio in cui riquadri ad intarsio si affiancano a rilievi dionisiaci151. Se rivolgiamo infine la nostra attenzione all’aspetto esteriore delle sfere solide prescritto da Tolomeo, nel capitolo della Sintassi sulle norme per la loro costruzione (Synt. 8, 3), quello della sfera di Berlino sembra aderirvi, perfettamente: «noi la faremo di un colore scuro, che somigli non a quello del giorno, ma a quello della notte che ci lascia vedere le stelle... segneremo il luogo delle stelle, servendoci di un colore giallo, o di tale altro che avremo scelto seguendo la brillantezza e la grandezza delle stelle.» Sulla base di questi elementi, il frammento berlinese può essere dun- 52 24. Urania con la sfera. Pompei Casa dei Vettii (VI 15, 1), affresco (da SCHEFOLD 1957). que attribuito ad un orizzonte cronologico compreso tra l’età claudio-neroniana e quella adrianeo-antonina. Allo stato delle conoscenze, la sua datazione non può, in ogni caso, risalire oltre l’età augustea. La sfera, di cui esso era parte, doveva verosimilmente dislocarsi alla sommità di un supporto: base, piedistallo, colonna, o pilastro, come lascia supporre il confronto con altri monumenti, anche coevi, in cui sfere celesti si trovano rappresentate. Non doveva trattarsi di un sostegno di grandi dimensioni, tenuto conto del diametro originario della sfera, tra cm 42 e 48, massimo 60, secondo Künzl152. La cavità dell’emisfero settentrionale potrebbe, in questa ipotesi, avere avuto la funzione di mortasa per l’incastro di un tenone presente sul supporto, secondo una tecnica attestata, nella lavorazione del marmo, anche per le membrature architettoniche. Ciò non ne scredita l’ormai indiscusso valore astronomico, né tanto meno esclude del tutto che possa essersi trattato in qualche modo di un planetario meccanico. Permane, in questa ipotesi, Riccardo Fusco l’identificazione della prima costellazione a sinistra come Cassiopea. I tagli rettilinei laterali, come voleva Thiele, possono effettivamente esser stati funzionali all’incastro di elementi lavorati separatamente, un espediente tecnico forse necessario a comporre le lastre, concave, di un marmo come il bigio tenario, estraibile solo in blocchi medio-piccoli153: tali tagli sono simili, ad ogni modo, alle riseghe a baionetta create nelle tarsie a pannello per il fissaggio in parete154. Il virtuosismo costruttivo dispiegato per la realizzazione di questa sfera astronomica, di marmo prezioso, intarsiata su superficie convessa, individuano le caratteristiche di un artigianato artistico di livello altissimo: un’opera d’arte figlia d’un lavoro insieme intellettuale e artigianale, destinata ad essere ammirata per la sua unicità155. Essa proviene certamente da un riguardevole contesto imperiale, segnato dalla figura di un monarca kosmocrator per il quale l’armonia della rivoluzione degli astri è modello dell’ordine che deve regnare nel mondo terrestre156. L’elaborata simbologia che Platone attribuì alle Moire, facendole figlie di Ananke e cosmiche divinità in trono presso i cerchi celesti, fu ripresa in età romana non solo nella speculazione filosofica ma anche nelle iconografie, rendendo la sfera attributo di una di esse157. Questa idea celeste di fato, che riguarda la vita di ogni essere, è dunque anche un destino trasmesso e controllato dall’alto, determinato dagli astri per necessità. Come il cerchio, infine, la sfera partecipa di quei valori simbolici di infinità, eternità e divinità che la tradizione ellenisticoromana elaborò in relazione al sovrano, in quanto rappresentante di Dio sulla terra. Il globo nella sua mano costituì, nelle immagini, il simbolo del dominio totale sull’orbe, di quel cosmo sferico su cui l’imperatore, anche divinizzato, siede per consensus universorum158. Queste ragioni favoriscono, a nostro parere, un’attribuzione del frammento di Berlino all’età di Nerone e al nuovo gusto imperiale segnato, an- che negli oggetti d’arredo, da immagini astrali. Tra le creazioni che Trimalcione sfoggia per vivacizzare la sua cena159, ad esempio, un oggetto speciale attira, per la sua novitas, gli sguardi di tutti i commensali: «era un grande trionfo da tavola, di forma circolare, con i dodici segni dello zodiaco disposti in giro; e su ognuno di essi l’artefice aveva posto una pietanza appropriata e corrispondente».160 A Poppea in persona, per il suo compleanno, Leonida alessandrino vuol dare in dono, invece, una piccola sfera imitazione dell’universo (ouranion mimema)161. Questo gusto riecheggia la propaganda celebrativa di Nerone come Neos Helios, un concetto teocratico monarchico insieme apollineo e dionisiaco, dove Dioniso è inteso stoicamente come intelletto di Giove e quindi dell’universo in cui il Sole, cor coeli, governa tutto162. Attorno a questo concetto si organizzano le forme del consenso, come quelle del dissenso163, vengono strutturati spazi e decorazioni nelle architetture, si costruisce l’iconografia stessa dell’imperatore. Prefigurandone l’apoteosi, con in mano lo scettro o sul carro fiammeggiante di Febo, l’equatore celeste è per Lucano la sua sede migliore, così che la sfera sia in completo equilibrio, nel segno di Libra che protegge l’Italia, perché il princeps non dimentichi, nel suo orientalismo, la centralità di Roma nell’impero164. La Domus Aurea, Palazzo sacro del Sole, forma terrena visibile dell’imminente e nuova età dell’oro sorta dal regnum Apollinis165, è concepita e costruita secondo rigorosi calcoli astronomici. A partire dal 54 simboli cosmici accompagnano le raffigurazioni dell’imperatore166 su cammei, rilievi, statue loricate, monete, sino alla completa assimilazione iconografica al Sole, nell’ultimo quinquennio del regno. Nerone è nel cielo stellato alla guida della quadriga solare sul tendone eretto al teatro di Pompeo per l’incoronazione di Tiridate d’Armenia167 ed appare colossale Helios/Sol nel vestibolo della sua reggia, circonfuso di radii, nella de- 53 Frammenti inediti d’interni pompeiani 27. La costellazione di Draco o di Hydra (Foto autore). 25. La costellazione di Ursa Maior (Foto autore). 26. La costellazione di Pegasus (Foto autore). 28. La costellazione di Delphinus (Foto autore). 29. Frammento di fregio d’acanto a girali in opus sectile di marmi colorati (porfido verde e rosso, palombino, giallo antico, lavagna), da Pompei, Casa dei Mosaici geometrici (VIII 2, 14-16), sala (h). Pompei, Magazzino Archeologico, inv. n. 20629 (Foto autore). stra il timone e, nella sinistra, il globo168. La passione imperiale per gli apparati automatici, come quelli stabilmente fissati alle strutture della Domus Aurea, ed il rilevante fenomeno sociale della diffusione di raffinatissime macchine semoventi anche al di fuori della corte169, costituirebbero inoltre, qualora Kühne abbia ragione, lo sfondo più appropriato per un sofisticato planetario meccanico. Alla luce di questa significativa testimonianza che evidenzia una nuova e importante tematica astrale negli in- tarsi romani della prima età imperiale170, pare quindi molto convincente che anche le crustae in esame raffigurino costellazioni, intarsiate su di una sfera171 oppure su di un pannello parietale. Grazie al confronto con il globo Farnese e con quello di Mainz172 possiamo riconoscervi Ursa Maior (fig. 25), Pegasus (fig. 26), Draco173 (fig. 27) e Delphinus (fig. 28), tutte pertinenti all’Emisfero Boreale. Se non pertinente all’anatomia di una delle prime tre individuate, di una quinta costellazione resta testimone la zampa dispersa. Qualora infine ne fosse confermata la provenienza pompeiana, potrebbe trattarsi di un ulteriore pregnante evidenza del legame tra la città e Nerone, perspicuamente segnalato non solo dagli straordinari pavimenti che imitano quelli della sua reggia, ma anche dai doni con cui la coppia imperiale onorò la Venere pompeiana in occasione della visita del 64 al suo santuario: una collana di perle e berilli, da Poppea, e da Nerone, una preziosa lucerna d’oro174. Al ciglio della collina compreso tra 54 Riccardo Fusco 30. Pompei, Casa dei Mosaici geometrici (VIII 2, 14-16), pianta (da PPM VIII). 32. Pompei, Casa dei Mosaici geometrici (VIII 2, 14-16), atrio al nr. 16 (Foto autore). 31. Pompei, Casa dei Mosaici geometrici (VIII 2, 14-16), sala h, lacerto di mosaico bianco con tessere disposte in ordito irregolare presso la soglia dell’ambiente (i) (da PPM VIII). la terrazza di questo santuario e quella del Foro Triangolare, nel cuore della città antica, ci conduce l’ultimo frammento: un girale d’acanto in opus sectile interamente marmoreo175, noto da tempo176, eppure ancora sostanzialmente inedito (fig. 29). Esso fu rinvenuto nel 1890 nel settore orientale della Casa dei Mosaici geometrici (VIII 2, 14-16), all’interno di un ampio ambiente aperto, con un portico colon- nato, verso i monti e il mare177 (fig. 30 ad h). Al momento della scoperta, il fregio correva al di sopra di uno zoccolo interamente rivestito di marmo bianco, giallo antico, africano, serpentino e lavagna, in lastre e listelli, di cui non v’è più traccia178 (fig. 31). La ricca dimora, riportata in luce179 tra 1888 e 1891, è una di quelle «a terrazza» sorte per il ceto elevato nel periodo successivo alla fondazione della colonia180: a cavallo delle mura ormai prive di funzione difensiva, logge e criptoportici, corridoi e ripide rampe, ricavati dallo sbancamento delle antiche colate laviche, riproponevano dentro la città i modi della vita in villa e la stessa scenografica combinazione di natura e architettura181. Nell’ultima fase edilizia di Pompei, la dimora si estendeva tra la Casa di Championnet (VIII 2, 1) e le terme del Sarno (VIII 2, 19-22) per una superficie complessiva di circa 3000 mq generata dall’accorpamento di cinque abitazioni preesistenti, con tre diversi accessi, tra cui, in particolare, quello privilegiato dal vicolo del Foro182. Certamente la più grande casa di Pompei nel 79 d.C., essa è dunque tra le più grandi attualmente cono- sciute183. In questa estensione, i lavori di ristrutturazione erano in pieno corso, guidati da un geniale pensiero costruttivo che, infrangendo le linee di fuga divergenti del complesso, le ricomponeva attorno ad una grande corte centrale: una soluzione architettonica che K. Lehmann-Hartleben paragonò alla Domus Augustana al Palatino184. Nel settore centrale le preesistenze furono infatti cancellate del tutto per fare spazio al nuovo cuore del complesso, un ampio peristilio in cui convergevano tutti i percorsi (fig. 30 ad P). La rifazione tuttavia non fu totale. Se nella parte occidentale gli interventi si limitarono a piccole variazioni planimetriche, in quella orientale la ricostruzione dei setti murari, in eleganti cortine laterizie arricchite di reticolato policromo (fig. 32), conservava intatta la planimetria originaria, ricalcando, all’interno del modello abitativo a doppio atrio, l’organizzazione spaziale canonica della casa aristocratica descritta da Vitruvio. Le sontuose abitazioni a due atri avevano costituito, dagli inizi del II secolo a.C., un modello abitativo caratteristico di Pompei ellenistica185, in particolare 55 Frammenti inediti d’interni pompeiani 33. Pompei, Casa dei Mosaici geometrici (VIII 2, 14-16), ambiente (o), parete N, letti di preparazione del rivestimento marmoreo (Foto autore). nella Regio VI, perpetuatosi nel tempo grazie a un fenomeno di cristallizzazione delle forme architettoniche, di cui l’esempio più manifesto resta quella vera e propria dimora storica186 che dovette apparire, agli occhi dei contemporanei, la Casa del Fauno (VI 12, 2). Un secolo e mezzo dopo, questa parte della Casa dei Mosaici geometrici è una filiazione diretta di quel modello, nella precisa volontà di rievocare, come ha notato Sandra Zanella, il paesaggio urbano di un’epoca fondamentale della storia civile e culturale della città187. In questa dimora monumentale, sontuoso memoriale della forma urbis pompeiana e dei valori che in essa vi avevano preso forma, una pianta demodè di dimensioni imponenti si trovò dunque associata alle più recenti soluzioni architettoniche. Allo stesso gusto, oscillante tra antico e moderno, conservazione e innovazione, sembrano improntati gli arredi decorativi che ci sono pervenuti. Nella parte orientale della dimora, a lavori conclusi, eleganti mosaici bianchi e neri tardo-repubblicani e marmi di rivestimento all’ultima moda si sarebbero trovati in una relazione di eloquente contiguità. Al momento dello scavo furono recuperati rilievi figurati in pavonazzetto o piccoli capitelli di lesena in giallo antico, ed il piccolo ambiente adiacente (fig. 30 ad k) a quello da cui proviene il fregio, conservava ancora un bel pavimento di marmo bianco profilato di bardiglio188. Nell’ambiente (o), similmente affacciato sul portico, i marmi degli zoccoli - con letti di preparazione (fig. 34. Fregio d’acanto in opus sectile, dettaglio del girale con fiore in boccio (Foto autore). 35. Fregio d’acanto in opus sectile, dettaglio del fusto maggiore con crustae tratte anche da altre composizioni (Foto autore). 33) paragonabili, per l’accuratissima dislocazione, a quelli della Domus Aurea189 - facevano da cornice al vermicolato con pesci190 pendant di quello della Casa del Fauno, montato all’interno di una vasca marmorea centrale. Nella stanza (s) sarebbe stato invece forse riposizionato l’emblema con il ratto delle Leucippidi, che nella ristrutturazione fu appoggiato allo stipite meridionale del vano di ingresso, dove fu rinvenuto191. Il livello molto alto delle opere in marmo è oggi soprattutto testimoniato dal fregio in esame. Ricomposto con elementi in gran parte pertinenti, il frammento restituisce una porzione di fregio a girali d’acanto orientato a destra. Frammezzato da piccoli calici anulari, lo stelo sottile di un girale fiorito, con pistillo oblungo come in boccio (fig. 34), sorge dalla corolla fogliacea del fusto robusto di un altro girale, non conservato. Lo stelo ed il fusto, di palombino e giallo antico carnagione, sono commessi su un fondo di sottilissime lastre di porfido verde: l’uso combinato e alternante del giallo e del bianco rende la sovrapposizione plastica degli elementi compositivi dislocandoli, impressionisticamente, nel gioco delle luci e delle ombre. Soprattutto presso il fu- sto maggiore (fig. 35), alcune crustae sono state ricollocate casualmente: cinque petali di altri fiori, a ridosso della curva esterna; la voluta di una piccola palmetta, nella sua terminazione; due tasselli di porfido rosso, del tutto incongruamente, nel fondo. August Mau che lo descrisse poco dopo la scoperta ebbe modo di notare tracce d’incrostazioni anche in altre zone della parete192: ed in effetti presso lo stesso fusto sussistono elementi derivanti da altre composizioni, forse anche di tipo figurato. Uno di essi reca la focatura tipica delle anatomie; un altro somiglia alla coda di un pesce; un altro ancora deriva da differenti tipologie vegetali. La ricomposizione, plausibile nel suo insieme, è accostata a ciò che resta degli elementi che la inquadravano: una piccola incorniciatura con gola dritta, una fascetta di porfido rosso lattinato; e due listelli, di palombino e lavagna193. L’opera è da attribuire, per ragioni di contesto, alla prima età flavia194. Preziosità dei materiali e livello esecutivo lasciano supporre che, come la dimora da cui proviene, essa sia legata ad una committenza, se non pubblica, di rango altissimo e forse all’attività della stessa bottega, urbana, cui dobbiamo anche il pavimento set- 56 Riccardo Fusco ABBREVIAZIONI 36. Fregio d’acanto a girali in opus sectile, dal Palatino, Domus transitoria. Roma, Museo Palatino inv. n. 425525 (da FUSCO 2014 b). tile ora nel Museo di Napoli. I confronti più stretti appartengono infatti tutti a contesti neroniani: il fregio a girali di palombino (fig. 36) e i cespi d’acanto, le palmette, le ghirlande, di giallo antico e porfido rosso e verde, dal triclinio della Domus transitoria al Palatino195; i tralci fogliati, ancora di porfido rosso e verde, da una sala del padiglione della villa di Subiaco dislocato sul pendio panoramico del Fosso di S. Croce196. Si è a lungo ipotizzato che questi lavori, a noi giunti tutti in stato disciolto, fossero inseriti in un supporto intarsiato, come documentano altri esempi di I secolo ed un frammento di bigio morato, d’incerta collocazione cronologica, dalla villa neroniana di Anzio197. Il fregio pompeiano dimostra invece che essi, con certezza quelli vegetali, potevano essere realizzati anche a commesso, secondo quella prassi decorativa che, sebbene ormai documentata198 anche per il II e III secolo, troverà il suo più ampio sviluppo in epoca tardo-antica. Non furono evidentemente limitate ai pavimenti le esuberanti esperienze decorative dei commessi neroniani, tipicamente segnati dal largo uso di forme vegetali e floreali. Sorprende tuttavia di rilevare per il I secolo una descrittività basata sull’accostamento di zone cromatiche più che sulla linea di contorno, così sostanzialmente divergente, ad esempio, da quella dei girali su fondo nero delle pareti di IV stile199. August Mau giudicò il fregio lavoro «difficile e artificioso il quale c’insegna che strisce simili ovvie su pareti del Primo Stile non sono, come io credetti una volta, imitazioni di pittura su marmo, bensì di vera incrostazione e precisamente di opus sectile quale qui si vede»200. Più che le opere settili di pieno I secolo, sono oggi gli intarsi delle ardesie augustee, dei vasi alessandrini ialini e metallici, come quelli dei tavoli circolari di Pella e di Delo prodotti, verso la fine del IV secolo a.C., secondo la stessa concezione decorativa dei mosaici regali macedoni, a ribadire questa strettissima affinità, formale e stilistica, tra i fregi vegetali delle pareti201 in stile strutturale e le incrostazioni. Marmo, pittura, mosaici ed arte vascolare: furono casi come questi a spingere Semper, che di Mau fu contemporaneo, ad elaborare una teoria evoluzionistica dell’architettura fondata sull’idea di un’arte tessile primigenia, perpetuata nel principio del rivestimento. 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Amiteius architect. fecit: cfr. LAVAGNE 1978, pp. 440-441. 8 CALANDRA 2008, pp. 26-34; CALANDRA 2010, pp. 1-38. 9 Cfr. MILANESE 2007, pp. 175-179 e nota 10. 10 MILANESE 2007, pp. 168-179. 11 RAGGHIANTI 1963, pp. 156-157. 12 RAGGHIANTI 1963, p. 129. 13 Cfr. BASTET-DE VOS 1979, pp. 114-115. 14 Un ricco repertorio analitico, anche in tavole sinottiche, dei rivestimenti pavimentali (cementizi, musivi, settili) e parietali (musivi e settili) è contenuto nel recente volume su Ercolano di GUIDOBALDI et alii 2014. 15 Cfr. DE VOS 1991, p. X; GUIDOBALDI - OLEVANO 1998, pp. 224-231, part. p. 226 e nota 23 (sul problema dell’uso del termine scutulatum per definirli), tav. 1, 1-3; ANGELELLI 2004, pp. 147, 152-153. 16 Probabilmente palombino nero dei Monti della Tolfa: cfr. GUIDOBALDI - OLEVANO 1998, p. 224. 17 Cfr. GUIDOBALDI 1997, pp. 64-110. Per gli esempi da Ercolano e Stabia, vd. GUIDOBALDI - OLEVANO 1998, pp. 236-237, tav. 14, 3-4. 18 Cfr. DE VOS 1990 a, pp. 682-684 figg. 110-112; GUIDOBALDI - OLEVANO 1998, p. 236, tav. 14,5. 19 Cfr. GELL 1832, pp. 39-40, tav. LXXVII. 20 Cfr. ANGELELLI 2004, pp. 149-152, 157 fig. 2. L’ipotesi dell’uso di paste vitree avanzata dalla studiosa per le bordure ed i rettangoli centrali trova conferma in ROMANELLI 1831, p. 291 dove è specificato: «avea non di meno su tre lati fasce di smalto pesto». 21 MILANESE 2007, pp. 172, 175, 179 e nota 11, fig. 3; FUSCO 2011, pp. 294-295, 299, fig. 3. 22 Architetto del Museo tra 1862 e 1866, oltre che, assai più a lungo, Architetto Direttore degli Scavi di Pompei, cfr. MILANESE 2007, p. 171. 23 MILANESE 2007, pp. 173, 175, fig. 4; FUSCO 2011, pp. 236, 239 fig. 4. 25 Cfr. DE VOS 1991, p. XII. 26 Rispettivamente: oecus (46); ambiente (43); triclinio (21), cfr. GUIDOBALDI et alii 2014, p. 445. Il computo complessivo effettuato da M. de Vos delle case pompeiane in cui marmi settili compaiano anche su pavimenti o zoccoli calcola 28 case e 47 ambienti; 45 invece sono gli ambienti delle case più modeste in cui occorra anche soltanto un piccolo tappeto di sectilia, cfr. DE VOS 1991, p. XII, nota 14. 27 Cfr. LOERKE 1990, p. 30-33. 28 Esso infatti è pari ad un altezza di m 1,70: cfr. GUIDOBALDI et alii 2014, p. 446. 30 FUSCO 2014 c, pp. 200-203, nn. 24, 1-26. 31 Cfr. LOERKE 1990, pp. 27 fig 4; 32 fig. 9. 32 Cfr. GASPARRI - CAPALDI - CORAGGIO - GUARDASCIONE 2010, pp. 703-704 tav. LXVI, 3. 33 GUIDOBALDI et alii 2014, p. 445. 34 Cfr. DE VOS 1991, p. XII e nota 14. 35 Cfr. PAH II, pp. 160, 166, 177, 258, 483-484. 36 Cfr. DE VOS 1991, p. XII e nota 14. 37 Cfr. DE CAROLIS 1994, p. 3. 38 h. 15; lungh. 51; largh. 27; dal peristilio (02/06/1863, 1865) cfr. DE CAROLIS 1999, p. 159 n. 170. Riguardo al porfido verde di Grecia, uno dei marmi più costosi dell’antichità romana insieme a quello rosso egiziano, si veda la notizia relativa ai c.d. edifici municipali del Foro civile di Pompei contenuta in PAH II, p. 160: «nel nettarsi di fatti quel di mezzo dei Saloni, che stanno sul lato meridionale del Foro, in uno spazio vuoto, a certa altezza dal suolo praticato, escì fuora buon numero di lastre di quel marmo serpentino che dicesi porfido verde, il quale è rarissimo oggidì, e può con sfarzo regale al- le più ragguardevoli intarsiature che fare se ne vogliano riserbarsi». 80 pezzi di serpentino furono di seguito spediti al Museo di Napoli cfr. IBID., p. 166. 39 Cfr. DE SIMONE 2000, pp. 65-66 fig. a p. 58 e 190. 40 Cfr. GROSSI 2011, pp. 8, 10. 43 Cfr. HAEVERNICK 1963, pp. 122-130, tavv. 2123; GASPARRI 2003. 44 DOHRN 1965, pp. 140-141. 45 Cfr. BONANNI 1998, pp. 266-267, fig. 1. 46 Nel pavimento (tratto SE) del cubicolo (34), cfr. SAMPAOLO 1993, p. 138 figg. 85-86. 47 In giacitura secondaria sono state rinvenute anche le lastre, del tutto analoghe, del Foro di Cuma, cfr. GASPARRI - CAPALDI - CORAGGIO - GUARDASCIONE 2010 pp. 701-703 fig. 2. 48 Cfr. CIMA 1986 a, 38; CIMA 1986 b, 54 e nota 14. 49 Cfr. MAIURI 1958, pp. 304, 322 fig. 257; TRAN TAM TINH 1988, fig. 202; GANS 1992, pp. 9, 11 nr. 10, 14, fig. 7; BONANNI 1998, pp. 269-270, tav. 12,5. 50 FILIPPI 2006, pp. 53-55, figg. 6-8, nota 6. 51 Di giallo di Siena, le volute e le foglie; di rosso dell’Amiata, il fiore d’abaco; di marmo di Carrara, l’abaco: cfr. NEUERBURG 1975, pp. 27, 29; GANS 1992, p. 13 nota 32. 52 Cfr. GANS 1992, pp. 9-14. 53 Cfr. BONANNI 1998, p. 260; FILIPPI 2006, pp. 52-65. 54 Cfr. GANS 1992, p. 14. 55 Plin., Nat Hist 35, 2; FUSCO 2006, pp. 22-23; FUSCO 2014 a, pp. 124-125. 56 BRAGANTINI 1990, p. 22. 57 Cfr. FUSCO 2013, pp. 484-485. 58 ELIA 1929, p. 275 e nota 1; BONANNI 1998, p. 261, tav. 1, 1-2. 59 DOHRN 1965, pp. 131-132. 60 BONANNI 1998, p. 262, tav. 2, 3. 61 BONANNI 1998, p. 261, tav. 1, 3. 62 cfr. DE VOS 1984, p. 174; FUSCO 2014 b, pp. 190-191 n. 22.1. 63 FERGOLA 2003, pp. 157-158 fig. II. 2. 64 ASËMAKOPOULOU-ATZAKA 1980, p. 51, fig. 5 b. 65 JASHEMSKI 1979, p. 253, fig. 372; BONANNI 1998, p. 269, tav. 12.6. 66 cfr. GUIDOBALDI 1985, pp. 182-199, 200, 202, 210-211, 213, fig. 26, e; tavv. 2-5; 9,3; 9,5; 10,3; 15,5; 16,3. 67 Pompei, Magazzino Archeologico D II, 4, B; inv. n. 12687; misure: l. cm 44, 2; largh. cm 23, 1; sp. cm 5,4. Sono particolarmente grato alla Soprintendente per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei, Dott.ssa T. E. Cinquantaquattro, per averne concesso lo studio ed alla Dott.ssa G. Stefani per averlo in ogni modo agevolato. 68 Cfr. Diario di scavo, 5-6 luglio 1960: «Liberato completamente l’atrio si mette alla luce un vasto ambiente occupante il suo angolo nord-est, e comunicante con esso a mezzo di porta aperta nella parete occidentale. ... Il giorno 6-8 in detto ambiente e nel suo angolo sud est, accosto ad una grossa anfora contenente (sic, manca)... Si rinviene una lastra rettangolare di lavagna sulla cui faccia nobile sono incavati (sic)». 68 Cfr. PESANDO 1997, pp. 212-213. 70 HOFFMANN 1980, pp. 162-164. 71 Cfr. NAPPO 1996, pp. 77-104. Le abitazioni I 11, 12-15 sono inserite nel tipo 1, segnalato da abitazioni articolate in fauces e cubicoli, atrio scoperto, tablino, triclinio, cubicolo, cucina e viridarium: è ormai del tutto escluso che l’atrio fosse coperto a 60 doppio spiovente già nella fase dell’impianto, cfr. part. NAPPO 1996, pp. 80, 93. 72 Cfr. FERGOLA 1990, pp. 614-615, 620-629 figg. 8-22. 73 Cfr. DE CAROLIS 2007, pp. 93, 96. 74 DE CAROLIS 2007, pp. 96, 105. 75 Cfr. SANNIBALE 2008, p. 348 e nota 62. 76 Cfr. SAMPAOLO 1993, p. 210 fig. 22 b; BRAGANTINI 1993, p. 950 fig. 174 b; DICKMANN 1998, p. 453 fig. 1. 77 BOARDMAN 1992, fig. 192. 78 HACHLILI 1988, pp. 72-78, figg. 8-9, MAGNESS 2012, p. 144, fig. 7.6. 79 Cfr. HACHLILI 2005, p. 355. 80 FIGUERAS 1983, p. 36. 81 HACHLILI 1988, pp. 72, 77 fig. 8. 82 Cfr. HACHLILI 1988, pp. 72-79. 83 Cfr. FIGUERAS 1983, tav. 25 n. 30; FINE 2010, pp. 448-449, fig. 24.4. Per motivi simili presenti su altri monumenti di età erodiana, cfr. MAGNESS 2012, pp. 211-212, fig. 10.6 (mosaici del palazzo di Masada); FINE 2013, p. 45 (decorazioni della sinagoga di Gamla); HACHLILI 1988, p. 80, figg. IV, 7; IV, 18 (facciate di tombe, casse di sarcofagi). 84 Cfr. MEYERS 1971, p. 48. La resa dei motivi decorativi negli ossari consente di ipotizzare una caratterizzazione simile per le crustae inserite negli intarsi del tavolo pompeiano: petali con nervatura mediana incisa, circonferenze e semilune con motivi a zig-zag, cerchietti incisi concentricamente. 85 Cfr. FIGUERAS 1983, p. 44 tav. 25 nr. 30; HACHLILI 1988, p. 240 fig. 4a. 86 Cfr. HACHLILI 1988, pp. 236, 242-243, figg. 5 a; 257 fig. 14 b. 87 Cfr. HACHLILI 1988, pp. 22, 83, 166, 168; GOODENOUGH – NEUSNER 1992, pp. 145-146 e fig. 27. 88 Cfr. FIGUERAS 1983, p. 39; HACHLILI 1988, p. 82. 89 Cfr. DEONNA 1947, pp. 9, 37, 45. 90 Cfr. GIORDANO - KAHN 1979, pp. 90-106; NOY 1993, pp. 58-59, nr. 39; LACERENZA 2001, pp. 100-102. 91 Cfr. GIORDANO - KAHN 1979, part. pp. 41-54; 55-73; VARONE 1979; VARONE 2004. 92 Le diverse interpretazioni avanzate per poinium (“gregge”, “nome di persona”, “riscatto, retribuzione”) sembrano in definitiva inverificabili, cfr. NOY 1993, p. 58; LACERENZA 2001, pp. 101-102. 93 Cfr. LACERENZA 2001, p. 102. 94 Probabilmente per le costanti richieste di manodopera legate allo sfruttamento del territorio, cfr. LACERENZA 2009, p. 446. 95 LACERENZA 2009, p. 447. 96 LACERENZA 2009, p. 447. 97 Cfr. GIORDANO- KAHN 1979, pp. 28-35; LACERENZA 2009, p. 446 e nota 20. 98 Cfr. LACERENZA 2010 p. 372. 99 Cfr. LACERENZA 2009, p. 442; RUTGERS 2005, pp. 237-254. 100 RUTGERS 2005, pp. 253-254. 101 HACHLILI 1988, p. 80. 102 DEONNA 1938, pp. 59 nn. 6693, 3355, B3526, B6579; 60, nn. B2740, 171, B 7625-11091; tav. XXVI, nn. 181-188. 103 Cfr. ZEVI 2006, pp. 71-76. 104 ELIA 1929, pp. 275-276 nota 16: «...oltre questo esempio devo segnalare anche cinque frammenti di marmo bigio, esistenti nei depositi del Museo, nelle forme di una testa di cinghiale, testa di grifo, testa di cavallo; un intero delfino ed una zampa, tutte di piccole proporzioni, provenienti quasi certamente da Pompei ed appartenenti ad un opus sectile». 105 Napoli, MANN, inv. n. 6513 (a.i. 1622): h. 3,1; l. 5,1; sp. 0,4; inv. n. 6512 (a.i. 1621): h. 6,2; l. Riccardo Fusco 3,5; sp. 0,5; inv. n. 6510 (a.i. 1619): h. 4; l. 2,2; sp. 0,6; inv. n. 6511 (a.i. 1620): h. 3; l. 7,1; sp. 0,5. L’identificazione del marmo è di carattere macroscopico e sostenuta da alcuni elementi (cromia e venature della protome di orso; presenza di clasti rosati nella sezione di quella di grifo): si tratta, in ogni caso, di un marmo a grana finissima. 106 Ringrazio la Dott.ssa T. Giove ed il Sig. S. Venanzoni per l’aiuto fornito alla ricerca dei frammenti nel Museo di Napoli. 107 ASSAN, 82, Inventario San Giorgio (1849, 1851): Real Museo Borbonico. Inventario delle statue e bassirilievi in marmo, nn. 1619-1622. 108 Dove si specifica: «6510: Pezzetto di lastrina di marmo bigio rappresentante la testa di un grifo; lung. 0, 006 (inv. n. 1619); 6511: pezzetto simile rappresentante un pesce lung. 0, 007 (inv. cit. n. 1620); 6512: pezzetto simile rappresentante la testa di un cavallo lung. 0, 006 (inv. cit. n. 1621); 6513: pezzetto simile rappresentante la testa di un cinghiale lung. 0, 004 (inv. cit. n. 1622)». 109 Cfr. BONANNI 1998, tavv. 1, 2; 3, 2-4; 4, 1. 110 Cfr. PAPINI 2004, pp. 31-36. 111 Come nel tardo girale in sectile della Maison aux consoles di Apamea, in cui compare anche l’orso: cfr. BALTY 2004, pp. 167-173, figg. 13-20 (part. fig. 18). 112 L’identificazione è di carattere macroscopico. Sul bigio antico tenario vd.: LAZZARINI 2007, pp. 97-98; 108. 113 Berlin, Antikensammlung der Staatlichen Museen, inv. n. SK 1050 a; misure: cm 7,5 x 32 x 15. Cfr.: BESCHREIBUNG 1881, p. 418, n. 1050 A; THIELE 1898, pp. 42-43; GUNDEL 1992, p. 204 n. 10; GURY 1997, p. 1179 n. 3; KÜNZL 2000, p. 535, fig. 51.2; tav. VIII, n. 2; KÜNZL 2005, pp. 81-82 fig. 7.5; KÜHNE 2011, pp. 1-26; DEKKER 2013, p. 52-53. 114 Fig. 17 ad E2, E3, E4. 115 THIELE 1898, pp. 42-43. 116 Fig. 17 ad E1, con una latitudine geografica di 36°. 117 cfr. DEKKER 2013, p. 53: la studiosa legge il frammento ponendo il circolo artico verso l’alto. 118 Cfr. KÜNZL 2000, p. 535; KÜNZL 2005, p. 82: dove vi si riconosce il parallelo settentrionale. 119 Fig. 17 ad C5F, C5G, M1, E2, E3, E4; cfr. KÜHNE 2011, p. 4. 120 Cfr. PUGLIARA 2003, p. 39. 121 Attorno al 250 a.C. data alla quale l’autore attribuisce l’oggetto, per cui vedi infra. 122 Nel primo caso, il significato astronomico dell’asse di rotazione sarebbe quello di dare forma al moto diurno del cielo, nel secondo, invece, di esplicitare il fenomeno della precessione degli equinozi, implicando un meccanismo creato per assolvere una rotazione in circa 26.000 anni!, cfr. KÜHNE 2011, pp. 10-11. 123 Cfr. KÜHNE 2011, pp. 12-14. 124 Per le varie spiegazioni circa questa cavità intervento secondario per un utilizzo della scultura come fontana; traccia dell’inserimento di un’immagine di Vittoria o di Giove o di uno gnomone metallico - cfr. PAFUMI 2009, pp. 155-158. 125 Cfr. KÜHNE 2011, pp. 15-17. 126 KÜHNE 2011, pp. 17-18. 127 Tra quelli marmorei, oltre la sfera dell’Atlante Farnese: Città del Vaticano (Musei Vaticani, inv. n. 784, marmo bianco, cm 71 x 65, con stelle e nastro zodiacale, forse complemento di una statua di Atlante, dalla collezione Rondinini, cfr. SPINOLA 1999 p. 117 n. 91); Larissa, Tessaglia, rinvenuto nel 1888 ed oggi perduto (marmo blu di Tessaglia, d. cm 90, con griglia di circoli astronomici e nastro zodiacale, cfr. KÜNZL 2005, p. 83, fig 7.6; DEKKER 2013, pp. 54-57); Stoccarda (Württembergisches Landesmuseum, inv. n. 1.83, marmo grigio-bianco, d. cm 16, con nastro zodiacale e attributi di Zeus, complemento di una statua di Zeus, I-II d.C., dalla collezione Fürsten von Waldeck, cfr. SAVAGE-SMITH 1985, p. 11; KÜNZL 2005, p. 83 fig. 7.7); Atene, teatro di Dioniso (d. cm 31, con simboli astrologico-divinatori, III d.C., cfr SAVAGE-SMITH 1985, p. 11; KÜNZL 2005, p. 83). Metallici e miniaturistici, invece: Parigi, Collezione J. Kugel (argento, d. mm 6,3, h. 60, II a.C.-I d.C., cfr.; DEKKER 2013, pp. 57-69; 102-106); Mainz (Römisch-Germanisches Zentralmuseum, inv. n. 42695D, ottone, d. cm 11, 150-220 d.C., cfr. KÜNZL 1998; DEKKER 2013, pp. 69-80, 106-111). Meridiane marmoree sferiche più che globi astronomici sono infine: il globo di Prosymna (marmo bianco, d. cm 53, II sec. a.C., cfr. BLEGEN 1939) e quello di Matelica (Museo Civico Archeologico, inv. 77238, marmo bianco, d. cm 29,3, con cavità conica all’emisfero meridionale, cfr. MARENGO 2005, pp. 290291 n. 153), ambedue dotati di diagrammi e didascalie in greco di segni zodiacali. 128 La sua identificazione con il sidus iulium fonda, infatti, l’attribuzione del globo e dell’Atlante al periodo successivo al 44 a.C., nel corso del regno di Augusto, cfr. BOLL 1899, pp. 121-124, nota 3; PAFUMI 2009, pp. 155-158. 129 Cfr. DEKKER 2013, 88-91, dove si evidenzia che le coordinate astronomiche corrispondono a quelle di un oggetto celeste apparso a dicembre, per cui (IBID. p. 91): «However that may be, a date based on it is meaningless as long as its significance is obscure». 130 Cfr. DEKKER 2013, pp. 88, 98. 131 Cfr. THIELE 1898, p. 171; DEKKER 2013, pp. 5455. Per questo globo in letteratura non si propone alcuna datazione. 132 Piccolo (mm 8 x 8) e quadrato il foro al polo nord, più grande (d. mm 39) e circolare quello al polo sud, cfr. KÜNZL 2000, p. 501; DEKKER 2013, pp. 69-72, fig. 2,14. 133 BRENDEL 1977, p. 15,, tav XI. 134 BRENDEL 1977, pp. 1-18, tavv. I-VII. 135 Pompei (VI 15, 1.27), dal peristilio, II terzo del I secolo d.C., cfr.: SCHEFOLD 1957, p. 144. Simile è il piedistallo bronzeo che sorregge il globo e la statuetta di Vittoria che gli si appoggia, da Augst (età protoseveriana): cfr. KÜNZL 2000, p. 542, tav. 54 2-3. 136 Cfr. SCHLACHTER 1927, p. 69 (metà del III secolo d. C.). 137 Cfr. DE ANGELI 1991, pp. 110-111. 138 Cfr. DE ANGELI 1991, p. 115. 139 Cfr. DE ANGELI 1991, pp. 116-117, 126 fig. 11. 140 Cfr. BERGMANN 2010, p. 18, fig. 27; KÜNZL 2005, p. 59, fig. 5.12. 141 La notizia è in Strabo, Geogr., XII, 3, 11; cfr. TOSI 2003, p. 138; MASTROCINQUE 2009, pp. 313-319 dove si ritiene, per coincidenza di date e unicità di testimonianza, che la sphaera di Billarus sia in realtà il meccanismo di Anticitera. 142 Cfr. anche Cic., Tusc. Disp., I, 25, 63. 143 Cic., De nat. deor., II, 34-35. 144 Cfr. M. T. Wright, The planetarium of Archimedes, s.l. s.d.. 145 WRIGHT 2004, 4-11; WRIGHT 2005, 32-37. Sulle sculture del carico: BOL 1972. 146 Cfr. SCHLACHTER 1927, p. 29. 147 Essa occorre solo sul globo di Mainz, dove 61 Frammenti inediti d’interni pompeiani compaiono anche le stelle a cerchietto, cfr.: KÜNZL 2005, p. 82. 148 Come già in parte suggerito, sulla base del confronto con il globo Farnese, in KÜNZL 2005, p. 82. 149 Sulla storia d’uso di questi marmi le conoscenze sono ancora insufficienti, cfr. LAZZARINI 2007, p. 98. 150 Riprodotte in disegno da P. L. Ghezzi, cfr.: GUERRINI 1971, pp. 24-25, 67, tav. X, I (a, c). Non sappiamo tuttavia a quale delle numerose fasi decorative della villa esse siano appartenute: cfr. CACCIOTTI 2009, p. 31. 151 Cfr. da ultimo BONANNI 1998, p. 266, tav. 7, 2-3. 152 Cfr. DEKKER 2013, p. 52-53; KÜNZL 2000, p. 545. 153 LAZZARINI 2007, p. 102. 154 Cfr. BONANNI 1998, p. 263, nota 45. 155 Cfr. PUGLIARA 2003, pp. 61-62. 156 Cfr. PUGLIARA 2003, p. 62. 157 Cfr. DE ANGELI 1991. 158 SCHLACTHER 1927, pp. 95-97; DI COSMO 2009, pp. 48-49. 159 Cfr. PUGLIARA 2003, pp. 52-53. 160 Petr., Sat., 35 (trad. it. U. Dettore); cfr. TOSI 2003 p. 135. 161 Anth. Pal. XIX, epigr. 355: «Questa figura del cielo nel giorno natale ricevi dal figliolo del Nilo, da Leonida, sposa di Zeus, augusta Poppea: ché regali gradisci e del tuo letto e di tua scienza degni», cfr. MALCOVATI 1947, p. 38; PONTANI 1980. 162 Cfr. DE VOS 1990 b, p. 155, 171. 163 Cfr. DOMENICUCCI 1996, p. 151, per l’uso politico delle comete apparse nel 60 e nel 64 d.C. interpretate come signa di sciagure imminenti. 164 Cfr. DOMENICUCCI 1996, pp. 151-158. 165 Cfr. L’ORANGE 1942, p. 68; VOISIN 1987 pp. 509-543 (part. p. 514); HEMSOLL 1990, pp. 10-38; BERGMANN 1993, pp. 3-37. 166 BERGMANN 1998, pp. 150-170, tavv. 29,5; 30, 1-4; 31, 1-5; 33, 4. 167 Cfr. CADARIO 2006, pp. 479-480. 168 Cfr. BERGMANN 1998, pp. 190-191 fig. 3; ENSOLI 2000, pp. 70-71. 169 Cfr. PUGLIARA 2003, pp. 53-54. Nei pannelli marmorei dispersi con il tripode apollineo della Basilica di Giunio Basso, del 331 d.C., era presente il globo celeste, di pasta vitrea azzurra e giallo antico: cfr. BECATTI 1969, pp. 202204 tavv. 46, 3; 47, 2,4. 171 Sulla quale, dimostra il frammento berlinese, gli inserti non recavano sezione curvilinea. 172 Cfr. KÜNZL 2000, pp. 518-519 figg. 11 (20,22), 12 (nn. 26, 29). 173 La testa di grifo potrebbe anche individuare la costellazione di Hydra, pertinente all’emisfero australe, cfr. KÜNZL 2000, p. 525 fig. 14; DEKKER 2013, pp. 111-112. 174 DE CARO 1998, pp. 241-244. 175 Pompei, Magazzino Archeologico, coll. D. IV, 4 B; inv. n. 20629 (già nell’Antiquarium, cfr. Libretta n. 119, inv. n. SN 1365); il pannello in cui le crustae sono state ricomposte misura cm 47,8 x 31,8, sp. cm 3; il girale da solo invece ca. cm 43 x 22,3. Sembra che i frammenti siano stati prima riassemblati nel gesso e poi inseriti nella malta: un procedimento simile si documenta per un mosaico rinvenuto, il 6 settembre 1890, nel settore della dimora al n° 14, cfr. Giornale di Scavo, p. 116 (retro). 176 MAU 1892, p. 9; DE VOS - DE VOS 1982, p. 57; SAMPAOLO 1988, p. 36; BONANNI 1998, p. 261 e nota 31. 177 Su questa casa da ultimi: SAMPAOLO 1988, pp. 72-93; ZANELLA 2012. 178 MAU 1892, p. 9. 179 Cfr. NICCOLINI 1896, p. 55: «negli anni 18881891 continuò il disterro dell’isola 2° della Regione VIII e tornò a luce il caseggiato compreso fra i numeri 21 e 14 dei vani, che si aprono nella via detta delle scuole ad oriente delle curie. E qui dobbiamo ricordare che gli scavi, procedendo verso la basilica, seguono l’ordine inverso della numerazione». 180 Questa fase, per la dimora in esame, è indicata dai suoi mosaici geometrici, databili tra la fine dell’età repubblicana ed i primi decenni successivi, cfr. ZANELLA 2012, pp. 5-6. 181 Cfr. ZANKER 1993, pp. 41-51; BONINI 2003, p. 168. 170 182 A N, oltre che da questo, dal Vicolo di Championnet, ad E dalla Via delle Scuole. La risistemazione augustea della piazza non modificò gli assetti viari del lato S, lasciando la casa accessibile dal vicolo del Foro, cfr. ZANELLA 2012, pp. 1, 4. 183 Cfr. ZANELLA 2012 p. 1. 184 Dove il progetto del peristilio inferiore risale alla prima età flavia: cfr. LEHMANN HARTLEBEN - NOACK 1936, p. 159; SOJC 2005-2006, pp. 339-350; FUSCO 2012, p. 357. 185 cfr. MAR 1995; PESANDO 1998; DICKMANN 1999, pp. 52-89. 186 Cfr. ZEVI 1991, p. 70. 187 ZANELLA 2012, pp. 5-8. 188 Cfr. Giornale di Scavo, p. 116 (16/09/1890), dove si cita anche un frammento di oscillum con protome di Medusa; SOGLIANO 1890, p. 328; ID. 1893, p. 48. 189 Cfr. BALL 2002, pp. 552-554, 557, figg. 2-3. 190 SOGLIANO 1893, pp. 49-50; MEYBOOM 1977, pp. 51-52; SAMPAOLO 1998 a, pp. 88-89 figg. 28 e 29; PISAPIA 2010, p. 332. 191 Cfr. PESANDO 1996, p. 224; SAMPAOLO 1998, p. 72. 192 MAU 1892, p. 9. 193 Questi elementi misurano, rispettivamente cm 1,3; 1,3; 0,5; 0,6. 194 Cfr. ZANELLA 2012, pp. 3, 8. 195 FUSCO 2010, pp. 86-88, tavv. VIII, 2, IX, 1-2; FUSCO 2014 b, pp. 190-194, nn. 22, 22.2. 196 MARI - FIORE CAVALIERE 2001, pp. 433-434, 443, fig. 8. 197 Cfr. GUERRINI 1971, pp. 24-25, 67, tav. X, I (a, c); BONANNI 1998, p. 264, tav. 4, 1-3; CACCIOTTI 2009, p. 31. 198 Cfr. FIORE - MARI 2003, p. 42; DONATI 2000, p. 335. 199 A Pompei nel Tempio di Iside (VIII 7, 28), nella Casa di Sirico (VII 1, 25), nella Casa del Poeta Tragico (VI 8, 3) nella Casa degli Amanti I 10, 11): cfr. SAMPAOLO 1998 b, p. 732. 200 MAU 1892, p. 9. 201 Cfr. LING 1991, 12-13 fig. 7.